eugenio montale con drusilla tanzi detta la mosca

Eugenio Montale e la Mosca, Drusilla Tanzi

 

 

Eugenio Montale: Sulla poesia di Campana

da: L'Italia che scrive, 1942

 

 

[...] Campana poeta visivo o poeta veggente? L'impressione che ci ha lasciato una recente rilettura dei Canti Orfici — voglio anticiparla fin d'ora — è che le corna di questo dilemma siano tutt'altro che inconciliabili: se è vero che anche i critici di Campana meno inclini a misticismo e irrazio­nalismo gli concedono « illuminazioni spinte fino al mito » (Gargiulo) e negano che per lui si possa parlare di semplice impressionismo (Contini); mentre d'altro lato il migliore interprete dell' « infrenabile notte » del poeta (Carlo Bo) si è espresso in frasi e immagini (« una poesia che non ha avuto il tempo dei fiori o l'ha avuto con il soccorso anticipato e crudele dei frut­ti ») che lasciano trasparire almeno un limite di questa poesia. L'osservazione, facile a farsi anche se non fosse confermata da ricordi personali, che Campana fu presto tenuto d'occhio dagl'intendenti, non deve far pensare che gli intonarumori del momento (futuristi, lacerbiani, ecc.) ab­biano prestato molta attenzione all'autore dei Canti Orfici. Lo tennero per uno dei loro, forse, ma a debita distanza; e Campana stesso non li ricambiò di grande simpatia.

Comunque il poeta non spuntò come un fungo in un ambiente impreparato a riceverlo. Una delle curiosità degli inediti (una sessantina di liriche, oltre ad appunti vari, aforismi, pensieri, ecc.) è anzi che essi permettono di saldare meglio Campana al suo tempo e di far luce sul noviziato futurista di questo poeta. Noviziato sul quale permanevano espliciti e impliciti dubbi. Oggi la parte più scadente degli Inediti, e particolarmente dei 44 inediti del quaderno trovato, assicura che il poeta nacque e si formò, tutt'altro che precocemente, in quel clima arroventato di ismi. Non sarebbe breve l'elenco delle poesie nelle quali si ritrovano tracce vistose dei poeti raccolti nella prima antologia marinettiana del 1912. Si va da un clima « tentacolare » Marinetti-Buzzi (O poesia poesiaAh l'anima viventel'Umanità fervente sullo sprone, ecc.) ad un simbolismo liberty tra luciniano e dannunziano (Convito romano egizio, ed altri). Non di­fettano neppure segni di Palazzeschi «becero» (Prosa fetida), talvolta in alleanza con la pittura di Rosai (Notturno teppista). E di diverso Palazzeschi si dirà più tardi. Ma si leggono, nel gruppo, poesie che vanno ad aggiungersi in modo significativo a quelle dei Canti OrficiDonna genoveseIl ritornoSulle montagne, per esempio. Né manca, un po' do­vunque, la tipica Stimmung musicale campaniana (A un angelo del CostaFuribondoUne femme qui passe...) che ritroveremo poi nella Chimera. E neppure è assente, negli inediti, quella vasta apertura « mediterranea » che è tipica di certi attacchi di Campana: qui, naturalmente, non senza molto D'Annunzio.

Poesie giovanili? Fino a un cerio punto. Secondo tutta probabilità, quelle del quaderno furono scritte tra il 1912 e il 1914; tra i ventisette e i ventinove anni del poeta. Forse esse furono trascritte tutte insieme in bre­ve tempo, utilizzando cose recenti (ricordi del viaggio in America del marzo-novembre 1913) e meno recenti, perché non andassero smarrite. Ma è impossibile saperlo con certezza. I versi più definiti dei Canti Or­fici, i soli che restino nella memoria, ci sono più o meno tutti; o c'è il loro germe musicale. Campana verosimilmente li introdusse nei Canti Orfici senza più consultare il quaderno. E così riflettendo al fatto che quando gli smarrirono il manoscritto Campana lo rifece con grande rapi­dità, è possibile arguire che rapida dovette essere la ricomposizione-tra­scrizione di quelle parti del quaderno che vi entrarono: rapida e seguita, se non da un ripudio, certo da scontento e disinteresse. Certo il quaderno fu messo a dormire un sonno che Campana credette definitivo. E quan­to alla prose ch'esso conteneva, fino a che punto il manoscritto rifatto ha seguito il vecchio? Possiamo arguire che anche qui Campana abbia lavo­rato ex novo e rapidamente, se è vero che esse rappresentano la parte più matura, anche stilisticamente, del libro. Dei versi antecedenti, rappresen­tati in tutto o in parte dal quaderno, Campana non salvò che una piccola parte, senza dubbio la migliore, dimostrandosi buon autocritico. In ogni modo è certo che, a memoria o no, Campana ritagliò la parte verseggiata dei Canti Orfici dal suo quaderno. Ritagliò sfrondando e alleggerendo.

L'idea di una poesia « europea musicale colorita » era stata in Cam­pana, oltre che istinto, un fatto di cultura; ma certo era stata accompa­gnata o preceduta, in lui, da una pratica ancora un po' inerte e passiva dei nuovi ismi trovati in aria. Anche il futurismo ufficiale aveva preteso, come già i novatori di fine secolo, di « rompere i vetri », di rinnovare l'aria. Campana s'era però scelto maestri più fini di quelli seguiti dai suoi provvisori iniziatori. Ripudiò d'istinto la parte più meccanica, più elencativa del liberismo di moda; andò, si può affermarlo anche con sicurezza di fatto, verso le sorgenti più certe di quel movimento, da Whitman a Rimbaud. Riportò per conto suo, nell'arte e nella vita, un fatto di stile a un fatto di coscienza e fu consapevole di rappresentare, nel suo tempo e nel suo ambiente, una voce nuova, diversa. Guardiamoci, tuttavia, dall'attribuire troppa coscienza riflessa a colui che fu, per le tragiche e pre­carie condizioni della sua vita, il poeta di una breve, forse brevissima stagione. Uno dei fascini della poesia di Campana è dato certo dall'oscurità, tutt'altro che intenzionale, che la malattia del poeta protesse e favorì. È una poesia — condividiamo il parere di Solmi — « che si scioglie a stento dall'atmosfera febbrile che ne costituisce il fondo ».

Di contrario avviso sembra Gargiulo, il quale, rilevate le oscurità del poeta, ha affermato che « nulla si autorizza, sulla pagina, a deduzioni biografiche circa l'origine di questo difetto: sulla pagina lo faremmo risalire, come in casi analoghi, soltanto alla profondità o "ineffabilità" dell'ispirazione». Non è ben chiaro a quali casi analoghi si riferisca Gargiulo. L'accenno all'ineffabilità farebbe pensare a Ungaretti; ma è noto che in Ungaretti il pericolo del­l'oscurità è accettato, anche in sede teorica, come l'inevitabile contro­partita di una rischiosa volontà di purezza poetica che in Campana si avverte assai meno. Ungaretti, con qualità tutte sue che lo distinguono dagli epigoni e dei ripetitori, appartiene pienamente al gusto del fram­mento, concepito questo come un genere nuovo, forse l'unico genere del nostri tempi, espressione legittima e autosufficiente del momento lirico, frutto di una poetica che non vuoi confondere le apparizioni, necessariamente brevi e lampeggianti della poesia, con elementi d'indole diversa, volontaria. Campana appartiene fino a un certo punto a questo clima: sono avvertibili nelle sue oscure intenzioni una demiurgia, una ritualità di sollecitatore della poesia che forse mai avrebbero potuto appagarsi sul piano della lirica pura. È una poesia in fuga, la sua, che si disfà sem­pre sul punto di concludere: imprevedibili, a dir poco, ne sarebbero stati gli sviluppi. Perché l'idea di una sua arte successiva, cioè l'idea di un Campana posteriore e diverso, ha qualcosa d'impensabile, per noi, e addirittura d'inverosimile.

E nessuno, infatti, ha osato affacciarla, pochissimi hanno pensato a Campana come a una promessa stroncata in boccio dalla mala sorte.È stato osservato che Campana trovò nella prosa, piuttosto che nei versi, il suo assetto migliore. L'osservazione è esatta, ma non va forzata. Mancarono a Campana, poeta in versi, tempo, applicazione e continuità, le condizioni stesse, cioè, che permettono a un poeta, quando non si tratti di un enfant prodige (e non è il caso di Campana), di perfezionare il proprio strumento. Comunque, la poesia in versi di Campana, anche quella più aperta a movenze classicheggianti, si giustifica spesso come un modo, una varietà della sua prosa.

Se in un poeta importa cogliere il punto d'incontro, d'incidenza, fra istinto (fisiologia) e tecnica, un'osser­vazione minuta permetterebbe di osservare il breve scarto, non sempre tonale, che in lui esiste fra questi due modi. Ma resta pur vero che le condizioni di spontaneità -— sollecitate o meno — nelle quali Campana giunse a esprimersi, si attuarono più spesso e facilmente nei suoi scritti in prosa: scritti che variano dal tono più basso, diaristico, a quello più alto, che non è sempre il - suo tono più poetico. Ed appare anche proba­bile, se non certo, che delle sue poesie in versi Campana diffidasse assai, se scrivendo o riscrivendo le prose dei Canti Orfici egli, senza dimenti­care i versi del quaderno, ne fece una scelta severa e una rielaborazione molto acuta. Quanto alla scelta, infatti, abbiamo già visto che, a parte le poche eccezioni indicate, essa fu condotta con rara chiaroveggenza. E per ciò che si riferisce ai ritocchi valga l'esempio più cospicuo, Boboli, che nel quaderno figurava cosi: 

 

Nel giardino spettrale

Dove il lauro reciso

Spande spoglie ghirlande sul passato,

Nella sera autunnale,

Io lento vinto e solo

Hlo il profumo tuo biondo rievocato.

Dalle aride pendici

Aspre, arrossate ne l'ultimo sole

Giungevano i rumori

Rauchi già di una lontana vita.

Io sulle spoglie aiuole

Io t'invocavo: o quali le tue voci

Ultime furon, quale il tuo profumo

Più caro, quale il sogno più inquieto

Quale il vertiginoso appassionato

Ribelle sguardo d'oro?

S'udiva una fanfara

Straziante salire; il fiume in piena

Portava silenzioso

I riflessi dei fasti d'altri tempi.

Io mi affaccio a un balcone

E mi investe suadente

Tenero e grandioso

Fondo e amaro il profumo dell'alloro:

Ed ella m'è presente

(Tra le statue spettrali nel tramonto). 

 

Nei Canti Orfici la poesia, col titolo di Giardino autunnale, diventa la seguente: 

 

Al giardino spettrale al lauro muto

De le verdi ghirlande

Un ultimo saluto!

A l'aride pendici

Aspre arrossate nell'estremo sole

Rauchi grida la lontana vita:

Grida al morente sole

Che insanguina le aiuole.

S'intende una fanfara

Che straziante sale: il fiume spare

Ne le arene dorate: nel silenzio

Stanno le arene dorate: nel silenzio

Volte: e le cose già non sono più.

E dal fondo silenzio come un coro

Tenero e grandioso

Sorge ed anela in alto al mio balcone:

E in aroma d'alloro,

In aroma d'alloro acre languenre,

Tra le statue immortali nel tramonto

Ella m'appar, presente. 

 

È la lirica più distaccata e perfetta di Campana; ma di una cristal­lizzazione poco frequente in lui. Più spesso il poeta sembra tentato dal Lied, sia pure da un Lied-balbettio ai limiti dell'inesprimibile: 

 

Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,

Sorgenti, sorgenti che sanno

Sorgenti che sanno che spiriti stanno

Che spirti stanno ad ascoltare... 

Altrove prevalgono ambizioni, non solo musicali ma anche composi­tive, assai maggiori: La chimera, Immagini del viaggio e della montagna, Viaggio a Montevideo, Genova — preziose tematicamente, ma solo a tratti. Esse mostrano tuttavia il cammino che Campana poeta in versi intendeva consapevolmente di compiere; il cammino che dalle poesie più lacerbiane (Batte botte), passando vicino all'esperienza ritmica palazzeschiana — a quel respiro ascendente fino a una doppia battuta di alessandrino che Renato Serra scoperse nel poeta di Gioco proibito — voleva giungere a una completa dissoluzione coloristico-musicale del discorso poetico. L'in­teresse che destò in Campana una poesia della Giaconi (Dianora, che rischiò poi di essergli attribuita) e la lettera con cui egli la inviò a Novaro (vi si accenna a una « sensibilità neo-greca che è quella della vera poesia italiana moderna ») ci dicono qualcosa a questo riguardo. Luisa Giaconi s'era fatta sugli inglesi e per lei l'accenno era certamente valido. Sulla via intrapresa, forse, dovette distrarlo e allettarlo la prosa per un maggiore senso di libertà e di scioltezza offerto al suo volubile discorso. La prosa, beninteso, ed altri richiami occasionali del momento. In una lirica poste­riore ai Canti Orfici, una delle sue ultime in versi, Hai domati i picchi irsuti, appaiono persino toni corali e popolareschi non lontani da quelli di certo Jahier.

Urgenza di contenuti balenati nell'infrenabile notte; energica volontà e voluttà di nomade, di tramp, che conosceva Whitman e Rimbaud ed esperimentava la sua poesia come un atto indifferenziato di natura estetica e insieme volontaristica; song of himself; saison en enfer; liberismo e au-tobiografismo di marca lacerbiana e vociana; diffusi echi neo-classici (il nome di Carducci fu fatto da De Robertis, l'idea di un poeta tradizionale guastato dalla malattia o da una cattiva scuola trapelò pure qua e là), echi non solo carducciani, ma dannunziani che per conto nostro non vorremmo disgiungere dalla natura più personale e più oscura del messaggio barbaro di Campana, da quell'idea di una poesia orfica che non si limita al titolo del libro e che non si può ritenere estranea alla sua convinzione di tardo rapsodo germanico, attratto e abbagliato dalle ardenti luci del Mediterra­neo; tutto ciò appare a lampi nelle brevi pagine dei Canti Orfici. Fermiamoci un istante su quell'orfismo che il suo libro non tenta certo di definire. Coincide col sorgere in Italia di una pittura metafisica (Carrà, De Chirico) di cui Campana non poté ignorare la presenza e le intenzioni.

Come il primo De Chirico anche Campana è un suggestivo evocatore delle vecchie città italiane: Bologna, Faenza, Firenze, Genova, lam­peggiano nelle sue poesie e gli suggeriscono alcuni dei suoi momenti più alti. Sarà forse quest'aspetto barbaro, e se vi piace antico, un'altra spia del suo latente carduccianesimo, del resto meglio visibile in alcune aperture di distico? È possibile; ma a noi sembra che l'orfismo di Campana e la sua illusione di essere un tardo poeta germanicaus sperduto nei paesi del sud coincidano nelle intenzioni e persino nei risultati.

Non faremo di Cam­pana, se non per metafora, un poeta tedesco, né un teorico del razzismo, ma è certo che non casualmente egli intitolò la prima edizione dei Canti Orfici alla « tragedia dell'ultimo tedesco in Italia », e che nella sua illu­sione barbara, la quale consiste tutta, forse, in un suo irrimediabile sen­tirsi antico, entrò un'autentica suggestione d'ordine ideologico e morale. Nei pensieri staccati (Storie) pubblicati nei recenti inediti non ne manca neppure qualche curioso accenno: « Quello che ha prodotto l'impressionismo francese è il gaulois, lazzerone che ha preso coscienza di sé colla democrazia, schivo, incapace di idee astratte, cioè aristocratiche. L'odore umano del gaulois è quello che rende la Francia inabile agli spiriti delicati » (Nietzsche).

Seguono spunti vari, anche preziosi per l'interpretazione della sua poesia: « Scorrere sopra la vita, questo sarebbe necessario, questa è l'unica arte possibile », ed altri accenni a Nietzsche e a Wagner. Ma è poco, troppo poco perché si possa cercarvi qualcosa come un « pensiero » di Campana. Quanto il poeta sapesse il tedesco non ci è noto con esat­tezza: certo il tedesco non poteva mancare tra quelle cinque lingue di cui egli, scrivendo a Novaro, si dichiarò buon conoscitore. Poco o nulla seppe probabilmente di George, e Rilke orfico è posteriore al suo libro; della Grecia di Hölderlin ebbe forse qualche notizia, di Nietzsche una cono­scenza sicura e spesso ossessiva. In ogni modo è evidente che quel senso di evasione,  « quell'indagine della dimensione, quella tensione spaziale » (Con­tini) non si attuò in lui — a tratti, è vero — senza il sussidio di una lingua che gareggia col tedesco in fatto di capacità astrattive, di una lingua sfocata, smussata agli angoli, capace di aloni e di iridescenze, di una parola « estre­mamente gonfia e mai definita » (Bo), la sola che potesse rendere la Stimmung di La Chimera, di La Notte e di molti altri frammenti — a volte anche, nel quaderno, in frammenti di frammenti, d'intonazione più o meno futurista.

Poeta germanicus, dunque? E perché no, se restiamo nella meta­fora e ammettiamo che Campana si scavò d'istinto, nel nostro linguaggio, un linguaggio tutto suo. Abbiamo scritto si scavò, ma in realtà non è l'idea di uno scavo quella che meglio si adatta al caso di Campana. Penseremmo piuttosto a veri e propri salti d'aria, a rapide immersioni in un'atmosfera di­versa, inusitata allo stesso poeta. 

Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri a traverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevoli della luce riempiono il paesaggio di una immobilità di gioia ine­sauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano a illudere il cre­puscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbal­zi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove vicoli verdi di muffa calano in tranelli d'ombra: in mez­zo alla piazza, mozza la testa guarda senz'occhi sopra la cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. È la notte mediterranea. 

C'è forse un po' di De Chirico: ma dissolto in un'ebbrezza zaratustriana. Non è un esempio estremo, si badi, ma uno di quelli che meno perdono ad essere isolati dal contesto.

Si veda ancora, sempre tra i medi, se è la pittura o la musica che vince in notazioni come queste, apparentemente descrittive: « Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I compli­menti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine, Le rocce e il fiume ». È tutto qui? Si dirà. Ma è evidente che neppure una ricca serie di esempi potrebbe ren­dere visibile, materializzare, la nostra metafora. Eppure noi non sapremmo offrire altra chiave ai nuovi lettori dei Canti Orfici se non questa raccoman­dazione di cogliere allo stato nascente la musica del poeta, viva un po' do­vunque e soprattutto in quegli abbozzi di mito — il ritorno, la notte-me­diterranea, la figura di Michelangelo, gli sfondi del « divino primitivo, Leonardo » — dove Campana si arresta alle soglie di una porta che non s'apre, o talora s'apre per lui solo. Fuori di qui, fuori di queste evasioni che non sono solo nello spazio, ma anche nella dimensione di un linguag­gio che nasce nuovo entro un'altra lingua straniera e passiva, del tutto ignara delle facoltà di sdoppiamento che conteneva — e non si accenna alla lingua di Marinetti o a quella più umana di Soffici — poca traccia lascerebbe in noi il giornale di bordo di Campana, e più che legittima parrebbe l'insoddisfazione di parecchi suoi critici.

Nulla ha da temere Campana da una riduzione che salvi il suo dono più certo: la diversità del suo timbro. È vero: il suo messaggio di voyant può lasciare increduli, cosi indefinito com'è; nell'opera sua « non è dato incontrare né il dramma culturale, né l'irrompente ansia religiosa di Hölderlin» (Solmi); e nemmeno, aggiungiamo noi, lo sfolgorio di Blake o il sotterraneo e coerente tematismo di Rimbaud. Che Campana ten­desse ad architetture e a prospettive ben diverse da quelle che appaiono nei chimismi del suo tempo, è facile ammettere, ma è anche evidente che un lirico in senso esclusivo, tout entier a sa proie attaché, egli non fu. Scarso è in lui il senso del limite e dell'ostacolo; fu conteso, visitato da troppe possibilità astratte; quel suo stesso senso di una poesia europea musicale colorita, suona un po' vago oggi. Al poeta occorre una decisione di natu­ra quasi fisica, l'impossibilità di esprimersi diversamente.

E questa deci­sione, che a un certo punto coincide con la suprema spontaneità, noi oggi la troviamo soprattutto nelle sue prose. Se non ripugnasse ridurre a brandelli un'anima che tese a un'espressione totale e che pur ci ha la­sciato un'immagine cosi frammentaria di se stessa, noi ci sentiremmo di ridurre l'opera già così breve di Campana, a poche pagine incorruttibili per le quali non crediamo si possa negare al poeta di Marradi una voce ben diversa da quelle del suo tempo. Un'antologia che compren­derebbe, per esempio, La notte, La Verna, Firenze, Scirocco, Piazza Sarzano, Faenza, qualche notturno, qualche pezzo delle poesie già citate, e pochi altri frammenti e pensieri. È poco? È poesia-prosa, cioè di tono basso? Neghiamo il cioè, non crediamo necessaria e sicura l'illazione. « Passato come una cometa » (Cecchi), Dino Campana non ha esercitato, forse, una « influenza incalcolabile », ma la traccia del suo passaggio è tutt'altro che insabbiata. In lui nulla fu di mediocre; i suoi stessi errori non li chiameremo errori ma inevitabili urti contro gli spigoli che lo atte­sero ad ogni passo. Gli urti di un cieco, se vogliamo. I veggenti, anche se per avventura visivi come il nostro Campana, sono irrimediabilmente, su questa terra, gli esseri più sprovveduti, più ciechi.