de robertis

 

Giuseppe De Robertis: Sulla poesia di Campana

 

Pubblicato sulla Rivista Poesia, Annata III, Fascicolo 6, marzo 1947

 

                                                                                                                                                                                                                     


Giuseppe De Robertis su "LA VOCE", nella rubrica "Consigli del libraio", in un primo momento scrisse dei "CANTI ORFICI" così e non più che così: "notevole, ne riparleremo". In un secondo tempo, e cioè il 30 Dicembre 1914, apparve, sempre su "LA VOCE" un articolo di Giuseppe De Robertis. Tornò egli a parlare di Campana nel 1930 e infine, con un saggio critico "Sulla Poesia di Campana", nel 1947. Considero, quest'ultimo studio, il migliore di quanti sono stati fino ad oggi scritti su la poesia di Campana. 

da Don Lorenzo Righi, Dino Campana poeta della notte,

Collana "Gli Inediti" N. 6, Tipografia Sbolci, Fiesole,1971


 

Il primo incontro con Campana è felice e inquietante. Annota e finisce impressioni liete, dora la pagina d’un’arte lieve; e insieme soffre d’una incapacità a esprimersi, e tutto si agita e smania. Dosa le parole e le adorna come un classico; e s’affanna poi di non poter toccare il segno. Quelle impressioni, tu le collochi bene nel tempo, in quell’aria brillante che impregnò di sé l’estro dei  frammentisti e liricisti (« La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie di noce » C. 61 [Canti orfici, III ediz.], « la costa è un quadretto d’oro nello squittire dei falchi » C. 62, « II fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro » C. 65 », La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli abeti »  C. 52: già con una lineatura, una flessione limpida; e aveva cominciato dalle simmetrie più elementari: « fuori gli orti verdissimi tra i muri rosseggianti » C. 14); e subito appresso esse denunziano una febbre che è di Campana soltanto, a cui Campana deve le riuscite migliori, le quali soverchiano, appunto, quelle degli impressionisti e dei liricisti in blocco.

Già alle prime pagine, e poi, a intervalli costanti: «enorme» «enormemente» «barbarico» «selvaggio» «primordiale» «assurdo» «catastrofico» «immane» «colossale» «mostruoso» «tellurico» «mitico» «mistico» «grottesco» «magnetico» «fantastico» «fatidico»: il grande e il deforme, ma inespressi, tentati in quell’aggettivo o in quell’avverbio, come una promessa fatta a sé e, talvolta, qualcosa di più (« le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il ciclo » C. 55, « Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos »  C. 60, « La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana » C. 51, « In fondo, nel frusciare delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su sé stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna » C. 60).

E viene per forza da citare il Carducci: una sua lettera da Ceresole, 28 1. 1890 (« Se ai grandi massi che da migliaia di secoli se ne stanno quieti in muta conversazione tra loro da Locarno sino a qui venisse finalmente la voglia di fare un po’ di ballo! Dio, che ridda. Ne udiresti il rimbombo altro che a Bologna. Io salirei fino al campo del Re, e starei a vedere »). Fantasia e umore di un momento, e dati per tali; e in Campana quasi cosa del sangue, che ne cava tutti i possibili effetti (e anche gl’impossibili).Dove non bastano le forze, quell’ansia, quella furia, che è alla radice del genio campaniano, si sfoga in ripetizioni, le caratteristiche ripetizioni, or felici ora infelici, a volte ossessionanti, e mescolate   (« e sopra di lei, sulla matrona pensierosa negli occhi giovani una tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle immagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei pensierosa negli occhi giovani » C. 19). Su queste ripetizioni nasce la prima ragione dello scrivere in verso, una prima mossa di ritmo (« Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo » C. 64.

« E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate » C. 157, « una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua ed acqua senza fretta » C. 157: quasi a tentare i suoni; donde poi veri e propri versi: « De l’alba non ombre nei puri silenzi - De l’alba - Nei puri silenzi - Non ombre - De l’alba non ombre » C. 69); e anche si producono le progressioni di quel suo comporre spazioso in prosa («Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo mistero! Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribù indiane? Od era la morte? Od era la vita? » C. 125). Ora esse ribadiscono gli ossessivi colori (« Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca» C. 109); ora reggono al sommo l’onda del canto (« O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi! » C. 22, “ Come nell’ali rosse dei fanali - Bianca e rossa nell’ombra del fanale - Che bianca e lieve e tremula sali... » C. 165: fino al delirio). Vagante all’estremo è il melodizzare di Campana, e vaganti le misure, i tempi della prosa; e annidano lo stesso male, spesso un frantumarsi molecolare, un balbettio frenetico.

Ma bisogna, per veder più chiaro, rifarci ad altro segno stilistico, che forse è il segno più lampante dell’arte campaniana, ha una sua lunga storia, e fa più storia: dico l’uso dell’aggettivo. Primo suo maestro in questi nuovi accozzi fu il Carducci (« una goccia di luce sanguigna» «magre stagnazioni plumbee» «aride pendici aspre arrossate» « lontane chiare ombre correnti»; poi « le grandi ombre verdi degli abeti » « le lance immobili degli abeti » « una giovine luce tra i tronchi » a le grandi masse fumose degli alberi », e Carducci avrebbe detto fumide; ancora, « la casetta di sasso sul faticoso verde » « l’antico palazzo rosso affocato nel meriggio sordo»; e perfino «giganti giovinetti» «vetri occidui» «barbari recessi» «tremiti freschi» «tonfi chiari e profondi» «torpidi gorghi» «silenzio azzurrino»  «Stia... melodiosa di castelli sereni»; e non si dice nulla di «la china eburnea fronte fulgente » « una bianca purità virginea »; fino all’umor polemico, l’umor fosco, sfogati quasi a sfida, « il guercio professor purulento »  « il classico, baffuto, colossale emissario » « l’ora che l’illustre somiere rampa con il suo carico di nera scienza catalogale »; e su questi modi bravi, ricalcato un cenno dì paesaggio: « il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro »).

Un Carducci prima letto con gusto di carducciano fedele sino al sacrificio, un Carducci, a dir vero, colto nei suoi umori scattanti, senza però le sue ragioni complesse e stabili; ricercato poi, frugato con altro occhio, quello visionario di Rimbaud, che gli aprì infatti nuova vista. Certo si è che tutta la forza espressiva, in un primo tempo, non parve consistere in altro che nell’uso dell’aggettivo («Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee...» C. 11; « Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida.

Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città » C. 12); e fu come una forza compressa nell’atto di scatenarsi, con nulla però di volontario, nessun calcolo, ma estrosa in sommo grado, quasi una dettatura interna, ora esaltata or languida  (« Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno » C. 24).Da un recitare lento, spiccato, cadenzato, a un recitare vertiginoso, modulato su libere movenze ( « Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le antiche immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi ancora col loro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito, apparendo le immagini avventurose delle cortigiane nella luce degli specchi impallidite nella loro attitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul panorama scheletrico del mondo » C, 10).

Se gli aggettivi prima creavano spazi, a poco a poco ecco creare movimenti, musica e ritmo. Quel che di statico e di caparbio prima aggrumava la pagina, si scioglie a un tratto e scorre; e un lavoro di consonanze rare fa parlanti le cose, che non più si fissano negli occhi ma fluttuano nella memoria    ( « L’eco dei secchi accordi chiaramente rifluente nell’ombra che è sorda » C, 100, «.....Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra tua faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore profondo, cuore danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla sacra oscenità di Sileno? Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra... » C. 63). Insomma, all’aggettivo come modo di essere del sostantivo, emblema del sostantivo, sostituito l’aggettivo come modo di essere del canto, emblema del canto (« Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna.

O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fìumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca... » C. 64). E a mano a mano ecco altro fatto: l’assorbimento graduale dell’aggettivo in una sorta di libere, fulminee invenzioni, soccorse dalle ardite ripetizioni, quelle, dico, dettate da una necessità interna, da un prorompente impeto, non già portato della stanchezza e dell’artificio (« Volti, volti cui risero gli occhi a flor del sogno, voi giovani aurighe per le vie leggere del sogno che inghirlandasi di fervore: o fragili rime, o ghirlande d’amori notturni... Dal giardino una canzone si rompe in catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: arido rosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo» C. 26).

Perché, badate, spesso in Campana, ai modi stilistici più suoi si mescola la retorica d’essi modi, l’uso casuale e immotivato. La sua arte ispirata spesso decade ad arte d’improvvisazione; e togliere insistentemente in prestito al Carducci, oltre ciò che s’è visto, certe cadenze scopertissime, che altro è se non l’effetto del suo improvvisare, o della sua impazienza? Scegliamo a caso: « La dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu » C. 52, « Figura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu allora guardavi: tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi con la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia... » C. 01, « la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante dì voci tranquille, vegliate dal castello antico » C. 54, « E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno cavalleresco!» C. 58, «conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina » C. 03; e certi particolari un poco estetizzanti, un poco manierati: « fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medagliai » C. 12, « coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale » C. 14, « le bolognesi somigliavano allora a medaglie siracusane » C. 20, « dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco... » C. 23: qui si entra anche nei contini dannunziani.

Ma basta. E si dica che il prodigioso istinto poetico, nel Campana, spesso è gioco del caso, del caso che è maestro d’errori, anche in arte. I buoni e cattivi incontri col Carducci ricevettero impulso dalla natura stessa del suo ingegno, ricevettero impulso da quel fecondo e infecondo signore dell’arte contemporanea che è l’irrazionalismo. Il suo gusto dell’aggettivo azzardoso, delle ripetizioni e, diciamo ancora, del comporre aggiuntivo, esclamativo, evocatico, con trapassi rapidi, che spesso son salti, tutto questo ha la sua origine prima dall’irrazionale, or felice ora infelice. Bisognerà ora rifarsi da capo, seguire gli sviluppi di Campana, non più secondo dati stilistici e sigle, non più per verba, ma per exempla, per pagine, cioè, e per composizioni. Ritrascriviamo quelle prime righe dei Canti orfici, dove avevamo innanzi sottolineato l’insistente uso dell’aggettivo, il suo cadenzamento ritmico e spazioso.

« Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee » C. 11 ; poi, qualcosa si rompe cede; si disperde quella intensità visiva, l’occhio svaga: «sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio »: la parola, insomma, allenta la sua forte presa. Se non che alla fine, di subito: « e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso ». Son quest’ultime parole « e del tempo fu sospeso il corso », a dar senso al frammento e a riceverne; e tra quel « ricordo » del principio e questa chiusa c’è come la soluzione d’un accordo perfetto, la risultante di quello scambio di forze.

Ma un rapporto più spiegato è in quest’altro frammento: «Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenio enorme la torre, otticuspide rossa inpenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città » C. 12. Il primo Campana è in questo vedere commemorativo: ma non sempre vedere con l’occhio d’una volta. Le sue potenti qualità di visivo spesso lo distraggono, Io disturbano, lo fanno oziare nella contemporanea vista dell’altro occhio, di quello che vede soltanto, vede nient’altro che le « cose presenti».

Quella « torre barbara», ad esempio, la «mitica custode dei sogni dell’adolescenza», resta una pura espressione, o una promessa, o il sogno d’un’ìllusiva volontà; mito ancora non è. A volte quasi lo coglie (« L’Arno qui ancora ha tremiti freschi: poi lo occupa un silenzio dei più profondi: nel canale delle colline basse e monotone toccando le piccole città etrusche, uguale ormai sino alle foci, lasciando i bianchi trofei di Pisa, il duomo prezioso traversato dalla trave colossale, che chiude nella sua nudità un cosi vasto soffio marino. A Signa nel ronzio musicale e assonnante ricordo quel profondo silenzio: il silenzio di un’epoca sepolta, di una civiltà sepolta: e come una fanciulla etrusca possa rattristare il paesaggio... » C. 93-94): e il «duomo prezioso», la «trave colossale», il «vasto soffio marino», il silenzio di un’epoca sepolta, di una civiltà sepolta », sono qualcosa più che delle immagini; anche se nella pagina non prendono campo, e nella memoria non durano.

Aveva Campana bisogno di saziare ìnnanzi la sua fame di visivo, di stremarla; per toccare poi i primi suoi segni puri: «II mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto dì archi! » C. 65. Anche quel che di ricco c’è nell’uso aggettivale ha un senso festivo, e non solo nei colori, ma nei suoni; e certo nulla in questa pagina spesseggia; ma una fantasiuccia alacre ha tessuto questo bellissimo ricamo. A volte tenterà tutt’altri impasti, e più crudi, secondo il gusto del tempo: « Nel vico centrale osterie malfamate, botteghe di rigattieri, bislacchi ottoni disparati ecc. » C. 04; ma ancora in una serie di appunti, con una scrittura ora acuminata, feroce, ora sbadata; tentando, senza riuscire, ardite prove, in una sorta di satanismo per nulla poi difficile.

Pare faccia i primi passi. Ma ecco: «(Notte) Davanti al fuoco lo specchio. Nella fantasmagoria profonda dello specchio i corpi ignudi avvicendano muti: e i corpi lassi e vinti nelle fiamme inestinte e mute, e come fuori del tempo i corpi bianchi stupiti inerti nella fornace opaca: bianca, dal mio spirito esausto silenziosa si sciolse, Eva si sciolse e mi risvegliò ». Ma tanti aggettivi in una volta, e così potenti, necessari, e il nome di Eva, e l’abbaglio che è in quel bianca, cosi solo, non sono imprestiti d’una facile mitologia. « Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia dì luce sanguigna, poi l’ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall’ombra sotto un lampione s’imbianca un’ombra che ha le labbra tinte. O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria! » C. 116. Qui Satana, Ofelia, come prima Eva, non sono puri nomi, ma figurazioni prodigiose, erotte dall’animo; e il satanismo veramente si tinge qui dei suoi colori. Non solo: il visivo s’è qui improvvisamente alzato a visionario. Eppure, forse, le prove più belle, su questa via, Campana le tenta in Sogno di prigione: «Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, pieno di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre bianche il blu del sonno».

Comincia così, e le parole paiono rovesciarsi impetuose, e sulla pagina mantenere il primo impeto: le ripetizioni sono appunto i modi vivi toccanti della interna inquietudine (o furia). E non si dice nulla di quelle «canzoni bronzee », di quel « torrente di voci », delle « angeliche cune » (il dolore e il peccato, scontati, santificati: «delle voci angeliche bronzee»). Poi una pausa nella febbre creativa: «Penso od Anika: stelle deserte sui monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio infernale la guida, che grida». Non pare, ma quel bianco delle strade, delle chiese, è altra cosa dal bianco del giaciglio della prigione, delle angeliche cune, della cella, delle sbarre. Ed ecco la ripresa, con la stessa febbre creativa di prima: «Ora il mio paese tra le montagne. Io al parapetto del cimitero davanti alla stazione che guardo il cammino nero delle macchine, su, giù ». (E su, giù è, anche, una bellissima onomatopea). Non è ancora notte, dice, ma la notte precipita: «... silenzio occhiuto di fuoco: le macchine mangiano rimangiano il nero silenzio nel cammino della notte ». Non sono colori, né sono immagini visive: «Un treno: si gonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte: dal parapetto del cimitero le occhiaie rosse che si gonfiano nella notte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo... » C. 109: qualcosa di più e di diverso. Sono trasposizioni ardite, prepotenti, senza nulla che denunci lo sforzo. O è un creare voraginoso, col segno ancor caldo della lotta contro una materia sorda. (Una sorta di titanismo espressivo»?).

Se vogliamo ora cogliere Campana a un punto d’equilibrio, dove si conciliano le opposte forze, innalzandosi l’una, lasciando l’altra per via quel tanto di violenza verbale; cerchiamolo sott’altro segno, quello della memoria, la memoria però indivisa, signora di tutto, che non viene a patti: la memoria creatrice. « Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grige nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa » C. 54. Non è per artifìcio, ma proprio senti in quel « io vidi » il salto nel tempo, nel tempo passato; ed è la sola violenza che sia fatta al lettore. Poi eccoci, come per incantamento, in quel tempo; l’uomo fuori della sua guerra, docile a quell’invito: è il miracolo. E « solitudini mistiche » « paesaggio cristiano » sono le sensibili parvenze di quel miracolo; l’occhio ora vola senza fine anch’esso a seguire la tortora, « leggera come una barca sul mare », che va e va. Poi sì desta: « Addio colomba, addio! »: le altissime colonne di roccia della Verna, « a picco grige nel crepuscolo », tutt’intorno la « foresta cupa ».

Altri colori, è la caduta nel proprio tempo, nel feroce tempo, nella guerra. Altra volta l’attacco è diverso: « Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprii la finestra: era lo Scirocco ». Quasi una fantasia: Bologna, in un mattino, tra lo scirocco e in cielo nuvole in corsa...: « e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo (non c’era là il mare?) si ammucchiavano nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato ». Fantasia o sogno? («non c’era là il mare?»). Ed ecco Bologna come un grande porto: « Tutto attorno la città mostrava le sue travature colossali nei palchi aperti dei suoi torrioni, umida ancora della pioggia recente che aveva imbrunito il suo mattone: dava l’immagine dì un grande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granai dopo la partenza avventurosa nel mattino: mentre che nello Scirocco sembravano ancora giungere in soffii caldi e lontani di laggiù i riflessi d’oro delle bandiere e delle navi che varcavano la curva dell’orizzonte » C. 147. Come tutto torna giusto e s’accorda « ... non c’era là il mare?», ed ecco l’immagine di « un grande porto »; e a quel «ricordo dorato » dell’aurora, rispondere i « riflessi d’oro delle bandiere e delle navi ».

È tra i momenti energici di Campana. Ed è la pienezza espressiva, felice di sé, il clangore d’immagini e di luce che ardono così in breve in questa pagina che non è breve, son queste arditezze che per forza danno poi alle pagine seguenti un’apparenza diaristica, e sono infatti di quella qualità un poco fragile e passeggera. Ma resta nella memoria questa Bologna  « come un grande porto », con le sue attrezzature, coi suoi colorì, col suo vento.Ma in Piazza Sarzano Campana va ancora più in là. Si direbbe che a comporre questa partitura (« son note musicali che facevo io») egli ha calcolato al millimetro ogni effetto e proporzione, e si dimostra infatti economo delle sue forze, per mantenerle vive più a lungo, più a lungo. Questo paese smemorato, fuori quasi del tempo (« un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura »), questo fisso e mobile spettacolo sospeso nel tempo, fino alla chiusa che traduce in immagine il senso del paesaggio    (« e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza »). Ancora Campana usa qui le sue vecchie arti, per veder se gli riesca, finalmente, di fare a modo. Sensibili fra tutte, le ripetizioni, le cadenze, le onomatopee, i richiami a distanza, sempre con risultati nuovi, nel tessuto rado della prosa: puri valori fonici. Coglie le impressioni col minimo dei mezzi, come un classico al fine dimentico del suo mestiere, e le distribuisce, le armonizza; anzi son esse che si distribuiscono e si armonizzano, prendono da sé la luce, e fanno nell’aria il miracolo, quel fluido delle cose vive parlanti. Effetto di magia questo? Ché son cose semplici, e non son più esse; sono assai più, e bruciano se le guardi. Hanno un’anima, s’è detto.

E basta porgere orecchio a certe note gravi (« un riso acuto nel cielo... ed a quel riso odo risponde l’oblio »): sotto, c’è una lenta, estenuata, straziante sillabazione elegiaca; e le parole, infatti, i colori, le immagini ne portan l’impronta. N’ebbe coscienza Campana? Capì, dico, il valore di queste pagine, di questo lavoro ardito come nessun altro? C’è da crederlo (« sono note musicali che facevo io »). Piazza Sarzano sta infatti come prosa terminale dei Canti orfici, quasi prova estrema nella storia della sua prosa, o prosa-poesia, che, nella storia di Campana, forse e senza forse, ha più pregio della poesia stessa. Non c’è che Arabesco-Olimpia, a segnare ancora un passo avanti o, se si vuole, a suggerire nuovi sviluppi del suo inventare. Dirà egli stesso, di questo frammento: « Cercavo di armonizzare dei colori e delle forme. Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi ». Fermiamoci a quell’armonizzare, che dice più di tutto, a quell’armonizzare che io chiamerei astrattivo (un tentativo di pittura metafisica?). « Come la quercia all’ombra i suoi ciuffi per conche verdi l’acqua colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù I. [Inediti] 227.

Dunque: « nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi»; e quei colori sono come tante note, note musicali, che rompono il silenzio del tempo che è passato, suscitando accordi, che a mano a mano poi si ricompongono secondo un’idea di canto, un’idea di canto sottintesa e pur potente (attenti all’attacco pienissimo « come la quercia ecc. », propagantesi di sillaba in sillaba, dirò ancora di nota in nota, tolto a posta ogni nesso logico, per non disperdere la forza tematica; fino alla chiusa, meglio, alla risoluzione, perché infatti vi si risolve il tema... « perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù »). Il lavoro di Campana s’interruppe su questo termine d’arditezza massima.E la poesia? Che non s’è fatto cenno, finora, alla sua poesia, in versi regolari o strofica, spesso d’uno stroficismo ampio e libero. Non già per il suo valore, che mi pare rimanga un tantino al di sotto della prosa, o appena qualche volta la uguaglia, ma per la sua formazione scopertissima, merita un discorso a sé. In verità, questa poesia, servì in un primo tempo a scoprire Campana a sé stesso.

Subìte le prime influenze, specie carducciane (Carducci un po’ da per tutto), dannunziane   (« Io voglio nel sonetto pastorale » I. 47, « Tu mi portasti un po’ d’alga marina » I. 55, « Quando gioconda trasvolò la vita » I. 185, « Ondulava sul passo verginale » I. 23, anche pascoliane (n’è rimasto un ricordo persino nei Canti orfici: «Le vele le vele le vele - che schioccano e frustano al vento » C. 119), subìte dunque le prime influenze (« Carducci mi piace molto; Pascoli, D’Annunzio »), via via poi se ne liberò. E questa è un po’ la storia di tutti i poeti, piccoli e grandi, ai loro inizi (la loro preistoria). La sorte, nel caso nostro, ce ne ha lasciato i documenti, per vederne sensibilmente il corso, dico per la poesia. Ché non si potrebbe dir lo stesso per la prosa, che subito ci mostra uno scrittore maturo (in virtù, forse, di quel tirocinio della prima poesia, servito a scoprirlo a sé stesso, appunto, a dargli coscienza di sé?). Il volume degli Inediti, apprestato con somma cura da Enrico Falqui, si può dire non abbia altro ufficio che dimostrar questo: il riconoscersi, lì dentro, di Campana, a furia di scriver versi; e quest’altro ancora, che è più importante: la sua inquieta scontentezza, pur dopo ottenuti i primi risultati certi, e il bisogno di riscrivere, di rifare, tentando e ritentando.

Nei rari scambi dalla poesia alla prosa, Campana ha il piglio infallibile, come può vedersi da questo solo esempio (« La valle canora dove si snoda l’azzurro fiume - Che rotto e muggente a tratti canta epopea - E sereno riposa in larghi specchi d’azzurro » I. 101 = « Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro» C. 65, dove, nel passaggio, è caduto il troppo e il vano, del suono e dell’ornato, ed è rimasto l’essenziale, non saputo prima gustare in tutto quel fraseggio); ma in quelli, tanto più frequenti, da poesia a poesia, il lavoro è più intralciato, più ineguale, esitante. Varrebbe la pena e accertar questi rapporti, minutamente, e spiegarne il senso, il valore formativo. Per intanto sarà bene aggiungere qualcosa a quel capitolo delle concor­danze che resta da fare anche per Campana, e che aiuterà assai a veder più addentro nella storia del linguaggio campaniano. Fu già dal Falqui notato come Giardino autunnale (C. 35) si rifa da Boboli (I. 43), e La petite promenade du poète (C. 44) da Prosa fetida (I. 81), e Frammento (C. 120) da Firenze cicisbea (I. 31). Cose che saltano all’occhio. Ma anche certi versi di Batte botte (C. 89) son musicati su una prima trascrizione di Pei vichi fondi (I. 171). Non solo. Quel complesso di impressioni e di canti che è Genova (C. 163) nasce da altrettanti fogli degli Inediti, a comin­ciare dalle quartine Quando gioconda trasvolò la vita (I. 185), a Piazza S. Giorgio (I. 163), Pei vichi fondi (I. 171), Spiaggia spiaggia (I. 177), Il porto che si addorme (I. 159).

Nel volume degli Inediti (anche questo il Falqui avvertì), La genovese (I. 207) si rifà da Donna genovese (I. 55). Sorga la larva (I. 271), da Pei vichi fondi (I. 171), Traguardo (I. 211) da Dall’alto giù (I. 189), e Genova (I. 277) riarmonizza in parte ritmi e immagini di Notturno teppista (I. 215) e di Oscar Wilde a S. Miniato (I. 27); al modo stesso che Come delle torri d’acciaio (I. 285) ricompone la sua strofetta da elementi della vasta e frammentaria poesia A Mario Novaro (I. 235). Medesimamente, in tempi tardi, riprende, con mutato animo, con gusto diverso, alcuni dei Canti orfici o frammenti dei Canti: come Tu tra le roccie (I. 289) da La chimera (C. 33), Sulle montagne (I. 193) dai vv. 37-54 di Immagini del viaggio e della montagna (C. 69), O siciliana (I. 281) dal principio dell’ultima strofa di Genova (C. 163),         

Su questo piano di raffronti quanto mai istruttivi, una cosa intanto ci è dato accertare: che nei Canti orfici Campana mirò quasi sempre a imprimere un andamento impetuoso al suo com­porre, e in quell’impeto unificare ritmo e sintassi, come si può vedere nella rielaborazione di Giardino autunnale (C. 35), ritrascritto, come s’è detto, di su una lirica giovanile, Boboli (I. 43). Mirò anche a rifiutare, in nome di quell’impeto carico e veloce, certe forme narrative un po’ facili, un po’ brave, usuali, e l’intrusione del pittoresco (O poveta cappellone - Porta fuori le tue ciancie - E la sbornia sul groppone - E il decino t' un lo paghi?! - Vàia vàia cappellone...»), come fece nel restituire e separare un tema ben individuato di Prosa fetida (I. 81) ne La petite promenade du poète (C. 44). Questi modi ricchi, intensi, precipitosi, sono tra i più caratteristici dei Canti orfici, e forse noi non li gusteremmo in tutto il loro calore, senza l'aiuto e il bel risalto dei confronti. Sì verificò poi un fatto nuovo: che pur continuando a prediligere certa rapidità rapinosa, Campana s'innamorò in ultimo d' una scrittura dorata, classicheggiante; e sempre provandosi con versi e strofe regolari, smorzò la sua antica novità di linguaggio, i suoi ardiri. Racconta Mario Beyor, amico del Campana, che i versi Tu tra le roccie (I. 289) li scrisse «nel vestibolo dell'aula di Lettere all'Università di Bologna, lui presente, nel 1915, sul rovescio d'un vecchio foglio murale della Scuola di Farmacia, portante l'orario dell'anno accademico '11-'12». Non so, e non importa.

Certo che quei versi, in confronto de La chimera (C. 33), di cui sono una trascrizione lenta e assente, capovolgono il rapporto di valore corrente tra La petite prome­nade e Prosa fetida, e quel poi de La chimera e il prima de La petite promenade proprio si danno la mano. E bisognerà dire lo stesso della ritrascrizione di un frammento di Genova («O Siciliana proterva opulente matrona» C. 168), in certe misure un poco monotone, come la tentò in O siciliana proterva opulenta matrona (I. 281), arginando e rompendo l'ampiezza del discorrere campaniano. Fortuna che non è sempre così: e La genovese (I. 207), e più Traguardo (I. 211) sono libere e novissime ricompo­sizioni di Donna genovese (I. 55) e di Dall'alto giù per la china rapida (I. 189): quel che di meglio diè l'influenza futurista delle parole in libertà, rafforzata dall'originario gusto campaniano per la ripetizione tonale (spesso, perfino, modale), per l' armonizzare distante.    

E al polo opposto, ché nella poesia di Campana ci sono que­sti continui sbattimenti, al polo opposto, aiutando la metrica regolare insinuatrice, una diversa scrittura. Io leggo La dolce Lombardia (I. 267) e, non so come, penso a Cardarelli (già altrove ci sono avvisi cardarelliani: «Sventoli, contro il vento - Battagli: i cigli lunghi - Traenti in arco tendi - Sotto il morione nero - Che una penna commenta», «Incedi ingenua ardita - Agile come vela - Nel vento sui sassi di Prè» I. 271). Son suoi questi ritmi aperti, affabili («La dolce Lombardia coi suoi giardini - II monte Rosa - È un grande macigno - Ci corrono le vette - A destra e a sinistra all’infinito - Come negli occhi del prigioniero»); e queste immagini son sue («I pennacchi tremuli delle betulle - Come un tabernacolo gotico», «Ma la forza di San Gaudenzio - Instaura un panteon aereo - Di archi dorici di marmo»); e finalmente questa chiusa, con due aggettivi passati da D’Annunzio proprio per il suo filtro, e la grazia d’una cadenza così ben graduata («Settembre solare denso - Dove le betulle emergono nel - Piano - Lontano - Il macigno bianco»). Aiutando la metrica regolare, s’è detto.

Ché, in prosa, non accadde mai a Campana di farsi così attento seguace; e nemmeno nella poesia d’ampio stroficismo. Ecco un nuovo esempio. Se io mi dico questi versi: «Come delle torri d’acciaio - Nel cuore bruno della sera ecc…», io sento che è Campana schietto. Questi ed altri versi, infatti, della poesia A Mario Novaro (I. 235), si ritrovano (processo di decantazione?) in altra strofetta, limpida di suono e perfettamente conchiusa, come si può vedere a p. 285 degli Inediti. Ma il resto? «Hai domati i picchi irsuti - Hai fatto strada per le montagne - Con poco canto con molto vino - Sei arrivata vicino - Fin dove si poteva arrivare». E ancora: «L’edera gira le torri - È la vigna della tua passione - Italia che fai processione - Con il badile prendi il fucile ti tocca andar». Sono le sequenze di gusto popolaresco, ma motivate a dovere, che Jahier andava pubblicando in quegli anni nella «Riviera ligure»; sono le dure ed eleganti strofe di Jahier. Campana, dietro quel suono, cantò anche lui, ma non era più lui.         

Bisognerà allora fare un passo indietro, lasciare questi Inediti, riaprire il libro dei Canti orfici: cercare lì la sua poesia. Più che quella in versi regolari, come Giardino autunnale, che tanto piace a Montale, ed è infatti tutta grondante di spiriti campaniani; più che altri pochi esemplari (La chimera, La speranza), da riportare allo stesso gusto, una più di tutte, che già dallo stacco iniziale porta il segno prepotente di Campana («Io vidi dal ponte della nave...», che ci ricorda appunto nell’attacco «Io vidi dalle solitudini mistiche» C. 54, «vidi le bianche cattedrali... vidi le Alpi» C. 21): è il Viaggio a Montevideo (C. 75). Questa è come una delle sue prose, appena un poco più mossa e variata; solo che consuma tutta in certi incominciamenti, in certe riprese («Io vidi dal ponte della nave - I colli di Spagna - Svanire, nel verde - Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando - Come una melodia» «Ma un giorno - Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna - Dagli occhi torbidi e angelici - Dai seni gravidi di vertigine » « Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi - Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente » « E vidi come cavalle - Vertiginose che si scioglievano le dune -Verso la prateria senza fine »). I ritmi si allargano, si distendono, per contenere l’impeto, dargli corso; ma poi zone un poco sorde, monotone, vere e proprie cadute. Aveva fidato Campana di prender d’assalto la poesia; ma la poesia è ritrosa: la tocchi e via fugge. Per forza si pensa ad altre riuscite (« Era una melodia, era un alito?

Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprii la finestra: era lo Scirocco» C. 147, « A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare » C. 157). Perché la poesia, prima già di scriverla, è in mente dei (leggi poetae); perché qui fanno il più bell’accordo (ricco accordo, disse una volta Campana) poesia e arte, dandosi proprio la mano, e cantando o, più veramente, parlando; e te lo dice la durata, il tener sempre quota, l’aver quasi, prima, creata l’aria dove far vivere le parole. Altre volte parve s’applicasse un più d’ingegno (« Come la quercia all’ombra i suoi ciuffi per conche verdi l’acqua colando... » I. 227), e cercasse, l’ingegno, di vincer la sfida; il difetto opposto di far poesia, col proposito di venirla facendo, come nel Viaggio a Montevideo.

È quando, sedato l’impeto, per farne una vita diversa, usando d’una tecnica meno spessa, d’una tecnica rada, proprio agendo contro natura, Campana inventa e non si stracca, scherza con le parole, le lascia andar sole, senza gravarci sopra la mano né accompagnarle né farle deserte; le sente sicure di sé. L’arte staccata dal cuore dell’artista, dopo che se n’è nutrita; al colmo, dunque, della sua maturità. Non arte minore, come qualcuno potrebbe pensare, anzi! Ché, nell’assenza della grazia, questo culmine della poesia, vogliam dire la grandezza, qualunque essa sia, portata con mano leggera, (e spesso essa è assente); sempre mai sono da preferire quelle forme e espressioni infelici e complesse, purché siano significanti, più complessamente cioè significanti. 

                                                                                                                                            

GIUSEPPE DE ROBERTIS 

 


 

DINO CAMPANA: nato a Marradi, nella Romagna toscana, il 20 agosto 1985; morto nell’Ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Firenze, il primo marzo 1932. — Opere: Canti orfici, I ediz., Ravagli, Marradi, 1914; II ediz. con la giunta di altre liriche, a cura di Bino Binazzi, Vallecchi, Firenze, 1928; III ediz., senza giunte, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze, 1941. Inediti: raccolti a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze, 1942. A cura dello stesso Falqui e presso lo stesso editore Vallecchi è in corso di stampa una Giunta ai « Canti orfici » e agli « Inediti »

 


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