Campana inedito

 

 

di Gianfranco Contini

 

Le «varianti» rispetto ad altre redazioni

 

dal Corriere della Sera, Mercoledì 31 dicembre 1986
 
Gianfranco Contini analizza i versi pubblicati il 22 ottobre
 
 

Ricordo una città vecchia, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata ne l'agosto torrido enorme, con il lontano refrigerio d'ampie e molli colline su lo sfondo.

Archi enormemente vuoti di ponti tesi su il fiume impaludato in magre stagnazioni di piombo. Sagome nere di zingari che vanno e silenziose su la riva: tra il barbaglio lontano di un canneto remote forme ignude di adolescenti, il profilo e la barba giudaica di un vecchio cieco: e a un tratto da il mezzo de l'acqua morta e cieca e le zingare mobili e un canto morto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante. E del mio tempo fu sospeso il corso.

Inconsciamente io levai gli occhi a la torre vera barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio novo fatto visione intenso, essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio; mentre per lontane visioni, per sensazioni oscure e violente un altro mito profondo, anch'esso mistico e selvaggio mi ricorreva a la mente a tratti.

 


Alla signora Fiorenza Ceragioli, conosciuta soprattutto come leopardista, è toccata la ventura di scovare della prosa poetica di Campana, non propriamente inedita, ma in forma fin qui ignota: sono 22 righe dattiloscritte, con ogni verosimiglianza dall'autore stesso, che la signora riproduce e glossa sul Corriere della Sera del 22 ottobre 1986 (se ne può vedere ora un facsimile in una miscellanea campaniana coerentemente pubblicata dalle edizioni della Normale di Pisa).

Il passo è l'inizio della Notte, dunque del primo poemetto dei Canti Orfici; ed è il solo che mostri copia di varianti rispetto alle altre redazioni (nello stralcio sul Goliardo intitolato Torre rossa-Scorcio, nel Più lungo giorno il cui manoscritto surroga La notte mistica a L'amore, nei Canti Orfici che danno ugualmente La notte), dove il testo (prescindendo dalla punteggiatura dell'autografo) è in sostanza identico (solo per io levai il Goliardo stampa alzai, il Giorno corregge levai in alzai, certo per errore di stampa il Goliardo omette  quanto sta fra morto e canto). Sulla base della mera lezione non è dunque dubbio che il testo Ceragioli sia o il primo o l'ultimo della serie.

Argomenti esterni fanno dall'editrice escludere la prima soluzione, pur non accettando la seconda. E sicuramente la data del Goliardo (febbraio 1913) come l'anteriorità del Giorno (già smarrito da Soffici) ai Canti, per la parte comune così vicini, mentre i nuovi fogli menzionano l'anno 1914 e il titolo definitivo (solo preceduto dall'articolo) provano la posteriorità del nuovo testimone.

Ma qual è il rapporto con gli Orfici? Se di anteriorità si tratta, come sembra pensare la Ceragioli, si tratta d'un rifacimento, di cui è rimasto solo il principio, poi abbandonato per qualsiasi ragione (difficoltà di prosecuzione, stampa intercorrente).

E insomma il dattilogramma di 22 righi è la redazione ultima, anche se eventualmente azzerata a profitto della solita precedente. Ciò che viene dopo non è necessariamente superiore, come la filologia delle varianti mostra per esempii; anche illustri. Lo sa bene l'editrice, che in sostanza emette un giudizio di valore negativo, ritrovando nella sua scoperta una portata di «sperimentazione», sulla quale prepondera «una misura ormai raggiunta».

E' una soluzione certamente plausibile, ma non è sicuro che corrisponda all'ambizione di Campana.

Il primo fatto che si presenta è un'inversione: nell'attacco Ricordo una vecchia città (si sa da Campana stesso che è Faenza col greto del Lamone) il sostantivo è preposto all'aggettivo. A prima vista l'inversione sembrerebbe semanticamente giudicabile: vecchia città presenterebbe un allontanamento nel tempo poetico, l'altra formula un accostamento.

Sennonché nel processo della lettura appaiono altre inversioni, di quello o dell'opposto tipo (refrigerio d'ampie e molli colline per di colline verdi e molli; lontane visioni per visioni lontane, incorniciato fra due sintagmi omogenei; analogamente mi ricorreva a la mente a tratti per a tratti alla mente, con cui si chiude il passo), che non offrono possibilità di dichiarazioni puntuali, ma si sussumeranno in un'unica spiegazione, il desiderio di fare contrasto alla consecuzione impressa nella memoria. Diciamo senz'altro che nasce subito il sospetto che pari impulso regga la residua fenomenologia.

E anzitutto le inserzioni, che gonfiano e tendono la scrittura: enorme dopo agosto torrido; tesi dopo ponti (su il fiume); cieco dopo vecchio, e da presso e cieca dopo acqua morta, iterando per quasi-rima la dilatazione, come subito morto dopo canto; mio entro del tempo (importante riduzione soggettiva); vera entro torre barbara; novo dopo silenzio e di seguito visione dopo fatto (che anticipa il lontane visioni di cui sopra); infine profondo dopo mito.

Più magre le surrogazioni: stagnazioni di piombo anziché plumblee (gli Orfici portano il refuso plumblee, seguito pari pari dall'editore Binazzi!); Sagome nere di zingari che vanno per mobili (che sarà inserito sotto dopo zingare; il seguire a vanno di e silenziose può esser sanato o espungendo e, erroneamente rimasto, o supplendo vanno [e vengono]); remote per lontane detto di forme ignude), che, posti successivi mito lontano e selvaggio e lontane visioni, evita la tripla ripetizione.

A queste categorie in apparenza eterogenee va aggiunto l'uso, in intenzione prezioso, in realtà anomalo, della preposizione articolata, non soltanto ne l(o) per nello, su la per sulla ecc., ma i patologici su il per sul, da il per dal. Questo minimum ortografico è forse il più significativo, come quello che in veste solecistica ostenta squisitezza carducci-dannunziana.