Ringrazio l'amico Loris Ciampi per la preziosa collaborazione. (paolo pianigiani)

 

 

 

Il poeta dei prospectus e delle storie

Dino Campana

 

di Enea Alquati

 

da: La Rivista di Lecco, rivista bimestrale di Letteratura e Arte,

anno XXV, n. 2-3, Marzo - maggio 1966

 

 

I « prospectus » di Dino Campana sono una prosa lirica, ariosa e piena di colori, vivacemente animata da sentimenti organici e da sentimenti spirituali: una rivelazione del colorismo naturalistico. Il vento che « mette in follia le bandiere troppo fitte » è una espressione rappresentativa, intensamente bella e novitosa.

Immaginiamo, per un momento, una città incinta di bandiere, una città primaverile, luminosamente mediterranea, fresca come una giovane sposa dalle gonne scattanti, piena di stimoli appetitivi; immaginiamo queste centinaia e centinaia e centinaia di bandiere, queste, bandiere troppo fitte, che sventolano tutte, a tal segno da far quasi pensare che la città possa essere, d'un tratto, strappata in volo e trasportata verso un magico altrove.

Certamente Campana potrebbe dirsi il precursore di una poesia nuova, di un nuovo e mirabile stile poetico, tutto proteso e proiettato sulla stupenda corteccia del mondo visibile e sensibile, su cui l'umanità ha un valore volumetrico e la misura d'un equilibrio tra fenomeno e noumeno, cioè tra natura e spirito, tra essenza ed esistenza, fra intensità di sentire e modo di esprimere.

Questi « prospectus » potremmo perfino definirli dei palinsesti della poesia nuova, enumerazione anagrafica e morfologica di elementi situati e sistemati a formare un tessuto poetico veritabilmente di prima mano, non mai o quasi mai riflesso.

 

« Dolce noioso sereno della vecchia pietra / vento e follia di bandiere / le signorine del magistero e i giovani poeti seduti / un cielo sovraccarico di vecchissimi nuvoli / e l'Arno e le loggie e i colori, bianco, viola, e bandiere verdi verdi verdi ».

 

Notiamo il metabolismo delle immagini. Non c'è in verità, nella poesia di Campana, alcuna problematica e tuttavia c'è il fondamentale problema della vita tra valori e disvalori, tra sentimenti di approvazione e di disapprovazione; c'è il problema della psiche nella incandescenza delle immagini mnemoniche, nella vertigine delle tautologie che richiamano certe tormentate pagine musicali di Schumann; c'è il leitmotiv archétipo che è la mozione metafisica dell'arte.

Il pessimismo di Campana, visto alla superficie (epperò visto meglio perchè non vincolato da pregiudizi storicistici ed estetici) puntualizza e polarizza il primitivismo del poeta di Marradi, essendo egli prima di tutto un primitivo mentale e non un primitivo culturale.

 

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« Si sente suon di tamburi alle porte della vita ». Il suono dei tamburi non si può dimenticare, quand'anche lo si sia udito una sol volta. E' un suono che urge precisamente alle porte della vita: può accompagnare tanto i morti quanto le danze popolaresche, può accompagnare il banditore e le Madonne di Giotto. Quello  del tamburo è  certamente un suono orfico, cioè  misterioso e rammenta

« le mythe de l'éternel retour », un suono che riesce a risvegliare la memoria perduta e che può sottolineare, accentuare il rischio e la catarsi della poesia.

Al suono del tamburo, colpi isolati e tonfi tetri, ritmo e rullo, intuibile musicalità iniziale ed iniziatica, s'avvicendano un « dolce sereno noioso » e una « vecchia pietra ». E' un quadro in movimento e, insieme, di una staticità enorme. Uno spazio affollato di bandiere, di ragazze, di giovani poeti. Un allegro chiasso si mescola al suono dei tamburi, mentre « i camerieri a pause lente camminano stanchi », a causa del piattismo dei piedi, loro malattia professionale.

Il cielo è pieno di « vecchissimi nuvoli » (immagine ardita e nuovissima). « Oltr'Arno si affaccia un cielo sovraccarico di vecchissimi nuvoli (sembra un acquarello) tra le loggie e le dolci parole di Firenze arieggia una mascherata di nudo, di bianco e di viola col sole delle bandiere verdi verdi verdi ». Musica e colore. Movimento e staticità. Fusione e identità in perfetto metabolismo. Un'architettura che giuoca i propri volumi preziosi tra il bianco e il viola e il verde (un verde dappertutto) di bandiere.

 

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« Sulla panca dell'ospedale trovai: cara mamma ». Chi avesse vista, per somma e amarissima disavventura, per l'ultima volta, la propria vecchia madre distesa, supina, dopo una lunghissima agonia, sopra il marmo obliquo d'un freddo, umido, spaventoso obitorio, potrebbe comprendere, in un modo del tutto realistico, la bifrontalità della poesia di Campana nei « prospectus ».

E per bifrontalità intendiamo fronte umano e fronte psichico, fronte logico e fronte astratto, fronte naturalistico e fronte immaginistico. Il troppo umano, il troppo concreto e sempre in agguato dietro la poesia ed un lettore, che non sia un superficiale o, peggio, un indifferente, non può non sentirsene qualche volta aggredito.

« Sulla panca dell'ospedale trovo: cara mamma. L'artista ingenuo ha fatto accanto alla panca stecchita abbandonata un occhio su e l'altro giù ».

Il ritratto, così tracciato, in una sintesi rappresentativa che ricorda certi disegni di alunni di scuola elementare può essere senz'altro frutto d'una ingenuità che ha condotto la mano inesperta d'un disegnatore estemporaneo: comunque tutto ciò appare come il risultato d'una potenza artistica che ci offre una tanto angosciosa quanto brutale visione della morte. L'asintatticità psicologica contribuisce alla potenza degli scorci.

Raffaello Franchi scriveva: « una tradizione letteraria di secoli si risente, brulica dentro di lui. Qualunque grammatico si provi a leggere le pagine dei suoi canti orfici non può non restare meravigliato di fronte alla impeccabilità stilistica resa più ardua dalla rottura della sintassi e intesa a una quasi vertiginosa combinazione di scorci, che egli genialmente moltiplicava per la purezza e l'assolutezza delle cercate apparizioni ».

 

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« Cara mamma. — Nella chiesa del mio paese gli arcipreti cantano con voce di bue ». Il paese, dopo che la mamma è morta, è solamente « suo ». Ad un lettore impreparato potrebbe suonare come spregiativa quella « voce di bue », ma invece non lo è. Campana conosce il pregio dell'unità della lingua. Il muglio di bue è una cosa dolce e potente. E' una delle voci dolci e potenti della natura. Il canto dell'officiatura funebre è altrettanto dolce d'una profonda tristezza e potente.

Ritornando alla bifrontalità di Campana riscontriamo che l'officiatura funebre è resa col suono delle voci e con un dipinto che richiama certe immagini oleografiche dell'Italia umbertina. (« L'Italia siede nel porto di Ostia sotto l'arco d'oltremare volta al limo del Tevere la faccia »): immagine subito redenta da quella successiva che potrebbe, a sua volta, rammentare il Caravaggio (« ed eternamente giovane tra ortaggi mitologici »).

Immagini certamente da « temps jadis », evocate per via di scorci e, per via di scorci, Dino Campana rinnova, senza distruggerla, la realtà organica e l'aneddotica immaginativa. Costruisce, senza forzare la realtà nelle tribolanti e spesso svilenti capsule della moda, in modo nuovo. La sua personale tecnica costruttiva produce un'architettura poetica che rimarrà per sempre leggendaria.

 

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La bifrontalità di Campana potrebbe, tra l'altro, riassumersi in due terminologie più ordinarie: classicismo e romanticismo, classicismo laddove rileviamo gioconda e luminosa sanità creativa; romanticismo laddove predomina il senso opaco e triste della malattia. Bifrontalità da una parte tutta esteriore, dall'altro canto tutta interiore; ellenismo (Dafne e Apollo); angst-neurose (filiazione dalle streghe di Moncalvo).

« A mezzogiorno nel vecchio chiostro a lunette imbiancate con affreschi di santi insulsi la voce dei caporali rintrona terribilmente ».

La sorte delle ex-chiese e dei chiostri tramutati in caserme e, tra l'altro, quella di riecheggiare e sopra tutte le altre, la voce dei caporali, rude e imperiosa e, in tali ambienti, anacronistica quant'altre mai.   Campana  coglie  con  spirito  matematico  ed  oggettivo  una  proiezione dal basso in alto del

« vecchio chiostro a lunette imbiancate », ed ottiene così uno scorcio cui l'ora del mezzogiorno casermatico aggiunge un plus di evidenza: le lunette imbiancate dalla calce risultano più bianche a causa della luce solare a perpendicolo.

E in tanta luce meridiana i santi delle pitture murali diventano più scialbi. Campana dice « insulsi », cioè senza sapore il che è ovviamente riferibile al colore sfocato e sbiadito. E quella che fu definita con una certa azzeccata pertinenza bipolarità ci sembra che, ancora una volta, si concreti visibilmente e sensibilmente nel colore delle lunette e nella voce dei caporali (colore e suono).

 

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« Il treno parte, cantano, la Falterona gira ». I vagoni rossi coi nostri soldati. « Il treno batte con dei precordi di chitarra, per scalatura abrupta dei colli un grido di tre note lungamente canta ». Nasce in Campana il senso virtuale della parola, che tenta ripetere visibilmente il colore e acusticamente il suono, il senso conciliare della parola, che cerca disperatamente di esistenziarsi in suono e colore, allargandosi in immagini fluttuanti entro l'esiguo e infinito spazio della pagina.

Radicale e costruttiva bipolarità di colore e di suono che sale, per semitoni e toni, per allusività ed analogie cromatiche, verso il diapason creativo ed è così che l'arte di Campana si arricchisce di significazioni tendenziose e nuove, poiché nuove sono le costruzioni sintattiche o asintattiche e nuovi i rapporti che intercorrono tra suono e colore. « Il treno dei vagoni decorati di frasche sportive arriva ».

Chi delle generazioni della prima guerra mondiale non ricorda i vagoni delle interminabili tradotte militari? Erano effettivamente decorati di frasche e pareva che dovessero portare tutti quei soldati a feste rusticane, anziché incontro alla morte in agguato sulle doline carsiche arse e insanguinate.

« Il treno parte, cantano, la Falterona gira, sul solco, l'odore del giglio ».

La prosa dei « prospectus » è suggestivamente espressiva. Taluno potrebbe perfino parlare di eloquenza, non, tuttavia, nel senso rettorico, bensì per la mediazione di quella non di rado ossessiva ricerca della parola glottologicamente più idonea dopo una successione di parole tendenziali dal senso più sottinteso. Prosa d'arte, prosa lirica: tutto ciò che si vuole, ma arte di grandi  inusitati effetti per la novità degli elementi costitutivi e nella cadenza delle emozioni.

Movimento del treno che parte, della tradotta carica a trabocco di soldati che cantano. L'immenso corale si accorda col ritmo del treno che batte, sempre più rapidamente, i precordi della chitarra. La Falterona gira e noi stessi siamo presi da questo fluido vortice nel centro del quale si disintegrano le magiche prospettive d'un mondo in movimento e si ricompongono in un grido che su tre sole note lungamente si ripercuote « ad libitum ».

 

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Quando incominciamo a pronunciare: « Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita... », la voce assume spontaneamente un timbro tutt'affatto particolare: più marcato, più profondo. E la voce continua a dire, scandendo e cadenzando: « arsa su la pianura, sterminata nell'agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo ».

Il poeta vede, guarda, intona. Guardare a un'attività ottica attiva epperò personale, d'una personale scelta interpretativa. Il poeta, ben s'intende, guarda ciò che vuol guardare e ciò che logicamente gli conviene di guardare. Vedere è una attività ottica passiva: vediamo ciò che entra inaspettatamente nel nostro campo visivo.

Il poeta guarda volontariamente, va a cercare ciò che vuol guardare e l'oggetto del suo guardare diventa quasi a lui consustanziale ed il rapporto necessario, che ne consegue, è psicologicamente attivo ed è come un transito di luce rivelatrice dal poeta all'oggetto che è stato prescelto « a priori » per esser guardato in un certo modo, in un certo momento, il che vuol logicamente dire posseduto.

L'indimenticabile poeta orfico continua a guardare ed ora siamo noi che, per mezzo di lui, guardiamo: « archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti ».

A questo punto saremmo tentati di rammemorare di scorcio un altro poeta (Ungaretti) il quale, in certe sue « stagioni » e in certo suo « ricordo », potrebbe riproporci il problema dei rapporti di affinità istintive e di affinità elettive. Quando il poeta guardando vede, viene colto dalla persuasiva suggestione di ciò che guarda e che vede, il rapporto con l'oggetto del suo guardare e del suo vedere è un rapporto psicologico. Il poeta viene suggestionato, ne resta stupito, l'oggetto trascina per le elementari vie dello stupore ad un approdo imprevisto, il suo spirito intellettivo e la sua anima lirica. E la voce del poeta riceve subitamente il timbro della modulazione più idonea.

Ad esempio, una sera d'autunno, d'un autunno rosseggiante, insanguinato, rugginoso o la fiammeggiante luce di un'aurora d'estate richiedono registri diversi di voce ed il poeta sa reperire in un fondo comune la voce più pertinente, magari più allucinata, magari più drammaticamente stimolante. E la voce così continua: « ...e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso ».

 

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Questa bellissima pagina de « la notte » va riesaminata « sub specie visiva e sub specie fonetica ». Il poeta ricorda, cioè sceglie nel cumulo imponderabile ed amorfo delle memorie l'oggetto la cui visibile morfogenesi dovrà ricordare, ponendosi, né avrebbe potuto fare altrimenti, nel più adatto punto di visuale ed ecco il ricordo s'invera con una sua cosmogonia, vorremmo dire, da trecentista senese e riportata in primo piano da quello più remoto.

Abbiamo nominato i trecentisti senesi, intendendo naturalmente riferirci ai pittori ed ora preciseremmo questo rapporto nel nome di Bortolo di Fredi, nelle sue « scene della vita di Maria », una dolce cronaca cui il chimismo secolare impone una indicibile conformità d'intonazioni canalizzate nella smorzatura dei timbri più acuti, in un certo opacamento dei cromatismi ch'erano originariamente i più accentuati, nel tutto che diventa via via analogo.

Il « refrigerio » delle verdi colline è una nota squillante che s'inerpica al di sopra del paesaggio, una nota fresca e liquida di squillanti « i » (refrigerio di colline verdi e molli). E quindi si disegnano gli « archi enormemente vuoti » e poi la macchia delle « magre stagnazioni » del fiume. Le « sagome nere di zingari » che si muovono come ritagliate in quel cielo di cui il poeta non dice, potrebbero far pensare alle celebri immagini cinesi.

E si noti che il poeta guarda come se percorresse un anagrafico circuito, con l'immagine più remota e l'immagine più prossima al punto di vista: eppure tutto centralizzato e non a sproposito, ogni immagine è centrale così come in un circuito all'infinito ogni punto di vista è per sé un possibile ed epico centro. Ed ecco ancora « ignude figure adolescenti tra il barbaglio di un canneto che ci richiamano quelle « ninfe in fuga », che accentuano una delle più fervide e calde stagioni ungarettiane.

In Campana le figure adolescenti hanno una concretezza più biologica che immaginativa, più realistica che fantastica: sono « fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia ». In Ungaretti c'è quella Diana dalla « collana di opali »; in Campana quel perduto barbaglio « della collana del collo ignudo ».

E ancora in Ungaretti come in Campana le tortore giuocano un loro ruolo di risalto: « In sull'acqua del fosso, garrula, Vidi riflesso un stormo di tortore » (Ungaretti). « Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte » (Campana).

Dino Campana sembra ad un tratto come risvegliarsi da un sogno e si ritrova vicino ad un biblico vecchio la cui nota caratteristica e, se così si potesse dire, biografica è « la barba giudaica ». Il silenzio crea il presupposto di immagini scolpite nel magma della concretezza ed è un silenzio quasi palpabile e viene inaspettatamente rotto da un canto corale, da una nenia monotona, primordiale, irritante. In Ungaretti rammentiamo « il coro delle ninfe in fuga ».

In Campana il coro delle zingare ferme, immobili, un coro, che nella realtà irrita chi vuol abbandonarsi ad un diverso ritmo, mentre nella risultanza lirica quell'aggettivo « irritante » si trasfigura in un suono che tocca gli ultimi confini dell'orizzonte e che si perde, monotono e dolce, nell'incielamento d'una infinita solitudine. « E del tempo fu sospeso il corso ».  Insuperabile poeta, che sa bloccare nel silenzio il tempo, nella solitudine leggendaria, mitica più che mistica, il suono delle cose e di esse le immagini più allusive e vive.

 

A conclusione di questo escurso in Campana, ci sia lecito proporre un ultimo riferimento ungarettiano (dalle già citate « stagioni »):  « Nuda, l'antica quercia, ma tuttora - abbarbicata è, sveglia, al suo macigno ». Anche questa è un'immagine bloccata per sempre nel silenzio di una fermezza irremovibile.