Testimonianza a Campana

di Raffaello Franchi

da 

 

Campo di Marte, 15 agosto 1938

 

 

Dino Campana e stato uno dei più forti amori letterarii della mia adolescenza; forse il più forte, considerando che ebbi la ventura di conoscere assai davvicino questo singolarissimo uomo e fortissimo poeta le cui stranezze, liricamente logiche ma cosi dissonanti dal mondo dei borghesi puri e da quello che con profondo rispetto della sua tragica pazzia chiamerei dei pazzi domestici, estensori di paradossi a buon mercato e di arditismi poetici a rime e immagini obbligate, hanno già fatto correre troppo inchiostro perchè io ritocchi al ritratto della sua figura mitologica e faunesca.

Campana era un formidabile aggressore di suggestioni poetiche, colte a quella viva sorgente del trasporto personale e dello spettacolo naturale che fonde in una colata unica l'associazione dei pensieri con l'associazione delle realta oggettive e delle sensazioni di sangue, per giungere sulla pagina a realizzazioni di logiche nuove corpose e geniali su piani di assoluta astrazione.

Surrealismo, si direbbe oggi, ma non della specie intellettualistica, esangue o lunare: un surrealismo dato da un amore barbaro, e gentile, per il sangue delle creature, per il vento che rade le creste dei monti distillandosi in luce, che squassa il cuore delle foreste sortendo e gridando nuovi linguaggi.

Una pagina di Campana bruciava parecchi chilometri di letteratura all' intorno; attirava, succhiava nel suo fuoco le stoppie degli altrui balbettamenti poetici, riversandosi in giro in ardori di fiamma a perdita di umana intelligenza di amore. La fatica poetica ben merita di chiamarsi fatica divina.

La fatica poetica ben merita di chiamarsi fatica divina. Compiutala, il poeta è il primo ad esserne sbigottito ed incredulo; a dolcemente pentirsene; altezza raggiunta gli appare troppo uno sconfinamento nel regno degli dei: e darà lezione di modestia, discenderà dalla rupe accesa e folle della sinfonia lungo il flume argentato dalla melodia.

I giudizi espressi da Campana sulla propria opera e testirmoniati nel libro di Carlo Pariani (Vite, non romanzate, di Dino Campana e di Evaristo Boncinelli) ne risultano, per chi sappia leggere, prova ineffabilmente preziosa. Nel 1916 la poesia di Campana mi esaltava per la prossirnità del suo fuoco: la sentivo come una presa di possesso di tutta l'umanità e di tuna la poesia, un mondo capace di tutto afferrare in un glutine, in un ingranaggio esclusivo e scoperto.

E questa sensazione, che nell'attimo risultava, necessariamente, più lirica che critica, confessai in uno scrittarello apparso in un giornale che usciva a Bari: Humanitas. Ho motivo di credere che Dino Campana ne fosse intimamente contento, lusingato; e non lo dico a mia lode, ma ricordando quanto potesse essere fanciullescamente sincera ed ingenua la riconoscenza di Campana, espressa dai suoi occhi quando il piacere e l'orgoglio, sotto un certo aspetto altrettanto infantili e cari, gliene vietavano altre manifestazioni, lo rendevano repugnante dell'esprimerla a parole.

Mi mandò una cartolina di ringraziamento che mi piace riesumare, in questo periodo di ritorno alla poesia di Campana per dare una nuova prova della sua sostanziale modestia, dell'oggettivita con cui Dino Campana riusciva a cosiderare i propri scritti, e anche della certezza che egli aveva del proprio valore ma in una sfera umana e dolente, oltre l'esultanza della creazione, della fiamma sottratta alla divinita e portata su, su, a freneticamente risplendere:

« Caro Franchi, grazie del tuo ricordo sull'Humanitas, personalmente. Quanto all'ingranaggio, Dio ci salvi che ci protesse finora. Il povero selvaggio mostra ancora dell'orgoglio, come vedi. Perdonaglielo e credimi tuo Dino Campana ».