Letteratura

 

I custodi interessati della follia di Dino Campana ed Ezra Pound

 

di Pierpaolo Pasolini

 

da Il Tempo del 16 Dicembre 1973

 

 

Perché di un poeta come Dino Campana si è impadronita la destra letteraria? Intendo alludere, per esempio — sulla scorta di una recente riedizione popolare di tutta l'opera di Campana — a Enrico Falqui, curatore,  peraltro diligente e nitido, dell'insieme, a Mario Luzi, prefatore del volume e di una sua sezione interna (il carteggio tra Campana e l'Aleramo), a Silvio Ramat e a Domenico De Robertis, chiosatori dei testi.

Non si tratta di un'eccezione: tutta la bibliografia di Campana — dal 25 Dicembre del 1914 (Bino Binazzi) al 20 Marzo 1973 (Pietro Bianchi) — è dovuta a uomini della destra letteraria (e spesso anche politica). Vanno eccettuati pochissimi scrittori e critici "di sinistra" che, però, finora, ingenuamente, hanno sempre finito col fare il gioco di coloro che attraverso Campana volevano crearsi un alibi "progressista", quando non addirittura organizzarsi cinicamente un'apertura a sinistra. C'è qualcosa, in Campana, che giustifichi tutto questo?

Rileggendo oggi l'opera completa di Campana, la prima realtà che si fa largo nella nostra mente è la semplice realtà che questo pazzo, questo poeta selvaggio, era un uomo colto: non c'è una pagina, una riga, una parola della sua produzione che non abbia l'inconfondibile "suono" della cultura. Rozzamente colto, s'intende: ma sostanzialmente. Egli all'Università di Bologna ha studiato chimica, intestardendosi a continuare degli studi che non erano per lui: quindi la sua cultura letteraria non era precisamente professionale: ma non era nemmeno quella degli autodidatti magari geniali.

Voglio dire che il suo rapporto con la realtà, con la letteratura, e quello, metalinguistico, con la propria stessa opera, era sostanzialmente razionale. Particolarmente precisa era la sua cultura pittorica: gli apporti nella sua lingua del gusto cubista e di quello del futurismo figurativo sono impeccabili. Alcune sue brevi poesie-nature morte sono tra le più riuscite: e se sono "à la manière de", lo sono con un gusto critico di alta qualità.

Anche il fondo surrealistico della sua poesia in prosa è recuperato senza confusioni e velleitarismi: ma anzi, con calma straordinaria ("La notte" è forse la cosa più bella di Campana). Infine anche i giudizi critici, molto rari, peraltro, sui suoi contemporanei, e i commi a forma di "boutade" per un possibile manifesto della propria teoria letteraria (di moda in quegli anni), pur nella loro procurata follia "à épater les bourgeois", sono particolarmente limpidi, scattanti, felici.

 

Selvaggi scatti di odio

 

Contemporaneamente, c'era la sua pazzia (quella che lo portava ai lunghi ricoveri in manicomio, e, insieme, ai viaggi da antico "biante" o "cerretano", oppure da "hippy" strepitosamente prefigurato, addirittura nella definizione principe: per due volte Campana infatti si autodescrive narcisisticamente come "cappellone", e "poeta cappellone": con due "p", va bene, ma ciò non impedisce al lettore di rabbrividire). Sulla sua pazzia, i suoi esegeti e biografi hanno creduto bene di non dare alcuna informazione. Pietà? Discrezione? Perbenismo borghese? Timore di rovinare l'eventuale mistero e il sicuro spiritualismo attribuito, appunto, alla pazzia?

Fatto sta che gli unici documenti sul proprio male sono gli stessi testi di Campana, e qualche testimonianza che solo l'acume diagnostico del lettore può assumere come rilevante: per esempio la testimonianza del padre che dice dei selvaggi scatti di odio del figlio adolescente verso la madre (quella povera Fanny Campana, maestra elementare, di cui leggiamo alcune lettere, molto carine ancorchè quasi illetterate, nel carteggio Campana-Aleramo): e naturalmente tutte le testimonianze che parlano delle sue fughe: che si presentano quindi, abbastanza verosimilmente, come fughe dalla madre.

Madre che poi sarà miticamente ritrovata nelle monumentali figure delle ruffiane più che delle puttane. Non sapendo di che pazzia si tratta, non possiamo studiarne nei testi di Campana gli apporti afasici: le ossessive predilezioni linguistiche, e le eventuali esclusioni. D'altra parte, però, abbiamo visto che le sue scelte linguistiche avvengono sotto il segno del più sicuro gusto letterario. Spia di una forma afasica patologica potrebbe essere il suo "frammentismo": ma no, ché era anche questo coincidente con uno dei canoni letterari più saldi e indiscussi dell'epoca. D'altronde anche la sua retorica prefascista — il suo sentirsi "germanico" — o "germano", come lui dice — con la susseguente fobia razzistica verso la meridionalità italiana — faceva parte di quel particolare "reazionarismo" culturale del Primo Novecento che non va preso alla lettera. L'atteggiamento di Campana era infatti reazionario, ma antinazionale: e dunque?

Malgrado la grande simpatia umana di Campana, e la complessità della sua figura culturale, giunti alla fine della lettura della sua opera, ci si sente delusi: sentiamo di esser venuti in possesso di un "palimpsest" (Pound), sostanzialmente inutilizzabile: esso ci gratifica, oltre che di pietà (e va bene) di qualcosa che resta irreparabilmente oggettivo. Il sapere di Campana non può venire assimilato. Addirittura, la lettura di Campana si trasforma in uno spettro di Campana stesso che guarda smarrito il suo lettore, non sapendo come farsi perdonare la povertà di quel sapere che ha ricavato dal proprio esistere, ma che è restato privato e non è servito neanche a lui. Restiamo così con questo sguardo afono addosso, che l'autore ci Iancia più per chiederci aiuto dal fondo della sconclusionata sciattezza iterativa dell'insieme della sua opera, che per rimproverarci di attribuirgli un'impotenza che egli sa bene che è sua.

E' questa sua sostanziale innocuità di fronte al reale che è strumentalizzata dalla cultura di destra, la quale si è subito impadronita di lui. La follia della Destra è sempre stata formale e retorica: ecco dunque un folle "vero" che faceva al caso suo. Pur con tutta la cattolica cautela del caso, e la solita ipocrita pietà — di fronte all'impotenza di Campana a restituire la realtà che egli narcisisticamente aggrediva senza affatto credere ai risultati della sua aggressione — i letterati italiani tradizionali (nella fattispecie ermetici) hanno visto in lui l'espressione vivente — ma non letterariamente, socialmente e politicamente pericolosa — della propria aspirazione nietzschiana al superuomo interiore, spiritualista e delirante: deformando in questa direzione una poesia che invece è sostanzialmente realistica, anche se ispirata da un soffocante estetismo. E’ tremendo che la follia, rendendo indifeso il folle, lo abbandoni aII'abbraccio e alla protezione dei più furbi e dei più interessati.

E' questo anche il caso di Pound. E' vero che le affermazioni reazionarie di Pound vanno ben oltre a una dedica a "Guglielmo II imperatore dei Germani"; ma non sono certo meno inattendibili. Scheiwiller ha pubblicato pochi mesi fa i saggi economici di Pound "contro l’usura", i cui argomenti del resto ritornano e si ripetono ossessivamente in tutti i "Cantos"; argomenti che appunto non lasciano dubbio sullo stato di confusione dell'autore. L'ideologia reazionaria di Pound è dovuta al suo background contadino, come del resto quella di Campana. Dietro a Campana c'era Marradi, la povera Romagna dei primi anni del Novecento, il latifondo e il bracciantato, il socialismo e l'anarchia: ma indubbiamente ciò che contava ancora, sopra ogni cosa, era l'universo dell' "Eterno Ritorno" (si vedano in proposito i volumi della Camicia Bruna Mircea Eliade, peraltro altissimo storico delle religioni), a cui non si poteva sfuggire che attraverso la rottura dell'uovo (in che consisteva I'atto culminante del mistero orfico). Alle spalle di Pound c'era invece l’immensità degli Stati Uniti contadini, di cui non sappiamo nulla, se non delle situazioni e degli eventi grandiosi e confusi.

 

La mitica figura del nonno

 

Questo è certo, che gli immigrati in America erano sottoproletari contadini, latini o irlandesi, e che portavano quindi con sé i loro universi, così analoghi e così diversi tra loro, ma tutti ugualmente arcaici: mentre è da supporre che coltivare campi negli Stati Uniti, già un secolo fa, quando pressappoco aveva vent'anni il padre di Pound, doveva essere una faccenda molto diversa che coltivare campi in Calabria o nell'Eire. Ciò che in Pound, attraverso il padre e la mitica figura del nonno, è entrato di questo mondo contadino, lo veniamo a sapere attraverso la idealizzazione che Pound ha fatto della cultura cinese: la quale nasce appunto da quel mondo contadino arcaico da cui provengono i contadini moderni americani. Pound (come del resto Campana, malgrado il titolo del suo libro) non è affatto un poeta orfico.

Egli ha voluto, fermamente e follemente voluto, restare dentro il mondo contadino: anzi, andare sempre più in dentro e più al centro. La sua ideologia non consiste in niente altro che nella venerazione dei valori del mondo contadino (rivelatiglisi in concreto attraverso la filosofia cinese, pragmatica e virtuosa). In questo senso io ritengo che si possano sottoscrivere, anche politicamente, tutti i versi conservatori di Pound dedicati ad esaltare (con nostalgia furente) le leggi del mondo contadino e l'unità culturale del Signore e dei servi: « La parola paterna è compassione; - Filiale, devozione; - La fraterna mutualità; - Del tosatel (giovincello) la parola è rispetto ». E ancora: « Al Sovrano piace l'arare, dall'alfa, - L'Imperatrice cura gli alberi con venerazione, - ne scansan le calde fatiche… » E ancora: « Arando si adora » ( «There is worship in plowing »).

La critica ha cercato di dare una fisionomia unitaria al coacervo dei "Cantos", attribuendo loro una "trama" un po' come all' "Ulysses" di Joyce, anche se restata allo stato di frammento, eternamente interrotta da excursus, parentesi e deviazioni sproporzionate — che hanno finito col far perdere completamente di vista la sua eventuale unità. Tuttavia non c'è dubbio che nei "Cantos" una trama c'è, anche se non è da ricercarsi nella successività, ma piuttosto nella profondità del materiale scritto: come Pound stesso dice (« II nesso quindi c'è - anche se le mie note non fanno senso ») il "nesso" dei "Cantos" consiste in una "marcia" all'indietro nel cuore del mondo contadino (di cui è simbolo l'antica Cina), dove i governi divengono sempre più tirannici e più illuminati; il mondo sempre più pratico e idealista; e: « Filialità, fraternità: sono la radice. - I talenti sono i rami. - Terminologia il primo strumento, - litro e staio. - Dopodichè: 9 arti! - I Classici - la storia retta, - candida totalmente ».

Anche alla fine della lettura dei "Cantos" ci si sente vuoti e come delusi. Il loro sapere è troppo particolare e tragicamente privato per poter veramente ampliare il nostro patrimonio conoscitivo. Dietro di noi c'è un uomo (che non ci guarda nemmeno) la cui esperienza è stata depauperata da una specie di incapacità — organica, mentale — a scorrere con, sia pur disperata, pienezza. Pound lo sa bene; e nel Canto CXVI, come in una specie di testamento, lo dice: « Carità talvolta io l'ebbi, - ma non riesco a farla fluire... ». Tuttavia se I'opera di Pound non ci comunica un sapere, in qualche modo utilizzabile, a causa della sua "devianza", ci comunica, in compenso, l'esperienza pura del delirio. Nessuna lettura al mondo è così inebriante come la lettura di Pound.

Leggere il Canto LXXVI fa l'effetto che suppongo debba fare la più potente e meravigliosa delle droghe. Pound non è potuto divenire mai, esplicitamente, appannaggio delle Destre: la sua altissima cultura, anche se, americanamente, un po' elementare (quando nei primi anni del secolo egli sbarcò in Europa, si considerava un "barbaro") l'ha preservato da una strumentalizzazione sfacciata: il serpentaccio fascista non ha potuto ingoiare questo spropositato agnello pasquale. Tuttavia le cure fasciste hanno sempre circondato, impalpabili, la persona di Pound, e ora ne circondano la memoria.

Deputata a questo è, prima di ogni altro, sua figlia Mary de Rachewiltz, — educata in Alto Adige da una balia, secondo i dettami di un moralismo paesano che non poteva che essere deleterio per una borghese frustrata dalla sua illegittimità — formatasi negli ultimi anni dell'Italia fascista — crocerossina in un ospedale nazista fino agli ultimi giorni di guerra — non solo gestisce e monopolizza protervamente, in qualità di, mediocre, traduttrice il capitale poetico paterno, ma, per di più, ha scritto un libro di testimonianze su di lui: non ricordo di aver mai letto un libro così ottuso e fazioso (malgrado la molta reticenza).

Naturalmente ciò che poteva interessare in questo libro era proprio il rapporto tra Pound e il fascismo: ma Mary de Rachewiltz non solo non ha capito nulla né di suo padre né del fascismo, ma non se ne è posta nemmeno il problema.

(Dino Campana, "Opere e contributi", a cura di Enrico Falqui, Vallecchi editore, 2 volumi, Lire 3000; Ezra Pound, "Cantos scelti". Lo Specchio: Mondadori editore, pagine 289, Lire 3800; Mary de Rachewiltz, "Discrezioni. Storia di un'educazione", Rusconi editore, pagine 341. Lire 3500).