la fiera

 

 

Campana Testimone

di Pietro Cimatti

 

da La Fiera Letteraria

2 Aprile 1961

 

 

Ogni poeta rappresenta un modo di essere poeta, da cui si può istintivamente dissentire o nel quale, all'opposto, ci si può impaniare, affascinati, in risposta nell'uno e nell'altro caso ad un innato modo di concepire la poesia, o di essere alla propria volta poeti. Il giovane che scopre Dino Campana scopre insieme l'abisso che sta sotto la poesia, che la poesia svela, spalanca. Il suo, è un modo di essere solo poeta nel quale ancora a lungo ci si potrà riconoscere, magari a versare l'obolo d'un sogno acerbo, oppure se ne potrà dissentire giustificandosi seccamente col ricordare la sua riconosciuta e schedata follia.

In un quadro storico, al quale la sua figura va riportata per chiarezza, non si può almeno negare che il suo esperimento, la sua avventura mettono a fuoco una smagliatura nel tessuto del tempo. Davanti a lui, in lui la tradizione precipita. Dalla frana del passato si possono prendere solo materiali di recupero, che fecero parte d'un tutto ed in esso si giustificarono, che avulsi da esso sono, intanto che vecchi frammenti sparsi, materia nuovissima, rifatta ostile e misteriosa. Quello di Campana è un tentativo, forse solo il più scopertamente drammatico, di ricreare la poesia, di risillabarla dal fondo della frana.

La poesia « comoda » è finita. Un mondo è finito. E la novità è supremamente scomoda. Linguaggio e sentimenti poetici, figure e ritmi poetici già elaborati e comodamente ereditabili, nei quali colare la sua pienezza, erano a portata di mano. Ma era finita, per lui primo, la loro credibilità. Ed era finita, per lui ultimo, l'innocenza. Si può ora negare che stia qui il dramma di Campana? Se non si comincia a ragionare di Campana togliendosi dalla mente l'ombra della sua cartella clinica si rischia di seguitare a farne un caso di ambiguo confine tra arte e patologia, suggestivo ma sterile. Campana va compreso nel suo tempo, perfetto testimone.

La sua strana figura è un totem al bivio tra due mondi. La quantità di poesia che ha espresso (quantità aggiunta, conclusa) non ha molta importanza: quello che ad altri poeti non perdoneremmo, e spesso non perdoniamo, in lui non ci sentiamo di accusare: e sentiamo invece qualcosa di magico, di fatato nella qualità della sua poesia: della sua, anzi, disperata volontà di poesia. Perciò s’è venuto facendo un mito del suo stesso nome.

Qualcosa in Campana finisce e da Campana inizia: e non si può e deve essere esigenti con gli inizi. Tutti i poeti che hanno veramente pagato quel tempo, fino al crak psicologico, per essere strumenti barometrici più sensibili, sono qualità ben più che quantità. Si pensi a Sbarbaro. Alla poesia orizzontale si contrappose allora (non poté essere che nettamente, drammaticamente) l'esigenza della poesia verticale, verso l'alto o il basso. Alla poesia ampia, distesa, cantata, che trascina fango e pepite nell'empito della gioia di creare, si contrappose la poesia secca, torturata, martoriata sillaba per sillaba, distrutta e ricostruita e sempre insoddisfacente, che tende all'essenziale, ad una disumana perfezione, in un travaglio interiore e stilistico che estenua, che può giungere a inimicare con la stessa vocazione. Campana che non scrive più un rigo, che si assenta e muore alla poesia, felice di vegetare in manicomio, testimonia questa estenuazione inimicante. I licheni di Sbarbaro sono fioriti sulla nausea. Alla soddisfazione si contrappose, ancora, l'insoddisfazione, la espiazione; alla poesia come vita più grande la poesia come morte e desiderio di morte (l'estremo modo liberarsi proprio d'essa, la poesia); all'elevazione, I'abisso. Nel compilare il repertorio dei contenuti, bisognerà tener conto che da tale discesa all'inferno restarono acquisiti alla poesia nuovi temi, nuovi « personaggi» e, quasi ironicamente, nuova umanità.

Col mondo che allora finì è indubbiamente finita la gioia di essere poeti, che solo ancora nella prima giovinezza (nella fase di ricapitolazione della storia passata) può essere da qualcuno effimeramente ritrovata e vissuta. Ma lo sarà sempre meno andando avanti. L'entusiasmo dei futuristi non è quella gioia: iI futurismo può servire piuttosto di preistoria per tutti i velleitarismi — uno è stato il defunto neorealismo di questo dopoguerra — ma non tocca lo svolgimento segreto e naturale della poesia: e il capostipite delle folleggianti carnevalate psicologiche, e ormai la realtà della poesia è Ia quaresima. La gioia di essere poeti, anche la gioia di essere poeti del dolore, appartiene al passato. Campana ha sperimentato tra i primissimi la poesia come perdita, come sconfitta: condizione poi entrata nella normalità dell'essere poeta.

Lo strumento poetico rivela ormai in Campana la sua insufficienza. Egli chiede alle parole qualcosa di nuovo, di folle, e le scopre insensibili, opache, pesanti. Per farle sue, dove allucinarle. Un verso gli costa settimane di fatica: come se voltolasse le parole in un caldare bollente aspettando di raccogliere la schiuma. Non si accontenta di descrivere e d'essere descritto, chiede di essere trascritto, che sia scritta la perfezione del suo sogno. Quando scrive poesia (nel senso di composizione in versi) la difficoltà è così grande che lo soffoca, e spesso grandi inizi si spengono miseramente. Appena si abbandoni e la tensione s'allenti, non raggiunge neppure il limite minimo; talvolta c'è addirittura solo la caricatura della poesia. La prosa ha assai più lungi momenti di originalità e perfezione: è qualcosa che egli meglio arriva a piegare e  intrecciare secondo necessità seguendo un ritmo più largo, abbandonandosi più liberamente alla allucinazione, allontanandosi maggiormente dal passato.

Molta della poesia di Campana è rimasta allo stato d'abbozzo, di tentativo, di grido mozzato. Più che da dire, sembra che Campana avesse qualcosa da dare, alla poesia, che in essa dovesse traboccare e, anzi, esplodere. Sembra che egli intenda la parola poetica come qualcosa che deve bruciare, volatilizzarsi, per riuscire ad esprimere, ad essere poesia. Non è forse più poesia quella che chiede, che vuole ad ogni costo ottenere.

Pare voglia vaticinare, ma non ha messaggi da lanciare al mondo (e non conosce né capisce il mondo; è completamente privo di intuizione psicologica). Ha un gorgo confuso e mareggiante da esprimere, quasi una vitalità superflua, la gigantesca inutilità di cui parla Majakowski: sembra che lo porti al primo verso una torturante voglia di canto che non trova poi seguito e mezzi per compiersi. Il primo verso è dato da Dio, ha scritto Valery. Se questo è vero, certo Dio ha dato a Campana molti primi versi, mentre Ia  disperazione  gli  ha  dettato  alcuni  finali  infocati,  stupendi

(« La Chimera », « II viaggio per Montevideo », ad esempio): è tra Ia speranza, il « la » divino, e la disperazione, che s'è torturata la sua drammatica incontentabilità. E' tra l'alzarsi e il cadere della meteora che Campana ha giocato Ia sua grande carta, il tentativo di classicizzare il suo pericoloso romanticismo, di raggiungere la luce bianca e l'immobilità della stella. Battaglia perduta, si può dire: tutto Campana è una meteora, con quanto di fascino c'è nello splendore caduco delle meteore.

 

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II Taccuinetto faentino ora apparso da Vallecchi (per la cura di Domenico De Robertis e di Enrico Falqui), dove sono decifrati e ricostruiti con pazienza certosina appunti sin qui inediti del poeta di Marradi, scritti confusamente in un quadernuccio di piccolo formato, « del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera », il Taccuinetto ripropone la tortura della parola, del movimento espressivo, dell'esattezza cromatica, che furono di Campana, suo alto mestiere e suo demone. Ritroviamo qui motivi dei Canti allo stato di prima, o seconda, o terza elaborazione e variazione; e note e appunti fuggenti che cercano sempre la perfezione, che tentano, sin da questo primo stadio, I'altezza. Più che inseguire una idea, sentiamo il poeta che pare cerchi di estrarre l'idea dalle parole, traverso la suggestione delle scelte e degli accostamenti, pare cerchi di scavare nell'immagine poetica il significato magico, di strappare alla parola il suo mistero originario. L'opera demiurgica è scoperta nel caso degli aggettivi, che Campana impone, marchia sulla pagina, forti, violenti, aggressivi, eccessivi, quasi con la funzione di riinventare il sostantivo cui si uniscono, di trarre da esso inedite vibrazioni. Nel conio di questi aggettivi, forse il fanciullo Campana riuscì a godere le sue estasi di animale divino.

Poco o nulla di concluso e, tranne che per filologi e innamorati, di utile nel senso di nuovo e rivelante, in questo Taccuinetto faentino. Ma anche così strapazzate e spesso incoerenti e appena accennate (dovute quasi alla pazienza di chi le ha messe insieme, più che al poeta) queste code di lucertola come sono vive, come si muovono, quanto magicamente comunicano con gli occhi fantastici del lettore. Campana è un poeta che esce dalla pagina, dalla semplice riga strappata. Tutto ha pagato di persona, col suo sangue: è questa la ragione. E questo il fascino, insieme sottile e carnoso.

Per chi questo fascino sente e sempre ravviva, sarà di più che utile lettura il volumetto Per una cronistoria dei Canti Orfici, dello stesso Falqui (Vallecchi 1961), dove sono racchiusi biografia ed epistolario, varianti e bibliografia, note e commenti d'ogni genere intorno ai Canti; dove tutta la pazienza e l'amore di Falqui per il poeta tosco-romagnolo, insomma, giungono a delineare il quadro completo d'una vicenda poetica e umana unica, irripetibile,  misteriosamente suggestiva.

La Cronistoria accompagna i Canti Orfici lungo tutto il corso della travagliatissima composizione e ricomposizione, e accompagna l'autore lungo la sua vita breve e tumultuosa, proseguendo fino ad oggi, sulle piste di quanti si sono via via occupati del poeta e dell'uomo Campana. E' uno strumento indispensabile, un sussidio per la migliore lettura d'un capolavoro del Novecento a conclusione ma non certo a guarigione d’un «mal di Campana»  che Falqui si porta nel sangue da un ventennio, giusto giusto.