Paolo Toschi

 

 

Paolo Toschi: Ricordando.

 

Il Rimbaud della Romagna

 
 
 

«Ora è rinchiuso nel manicomio di Castelpucci». Così terminavano le brevi notizie che Papini e Pancrazi hanno scritto di Dino Campana davanti a una giudiziosa scelta delle sue cose, in quell'antologia degli Scrittori ďoggi, di cui i giovani letterati sogliono dir male fin che non sperano di comparirvi anche loro.

I cancelli di un manicomio si chiudono dietro a un'esistenza umana più tristi e tremendi di quelli di un cimitero: perché la scomparsa di uno che vive tra i vivi è notata, commentata, rimpianta; ma quando uno s'allontana dal mondo in tal modo, si fa silenzio ed egli passa poi dal regno della follia in quello della morte senza che quasi nessuno se ne accorga.


Aggiungasi che Dino Campana non è mai stato uno scrittore nel comune significato della parola, e che ha composto un solo libro introvabile. Ciò non pertanto la sua opera è viva e anche adesso quei letterati di professione da cui egli tanto differiva, tornano a parlare di lui. Certo, oltre che la sua opera, anche la sua vita ďeccezione contribuisce a mantenere desto l‘interesse intorno al sua nome.

Un poeta tipo Rimbaud, irrequieto, vagabondo, insofferente ďogni giogo, amante di avventure, nostalgico di una città sconosciuta, sregolato e geniale, infelice e superbo, che ama la vita dei bassifondi, l'assenzio e la débauche, che non teme la vera miseria e cambia cento mestieri diversi, è un tipo quasi ignorato nella storia della nostra letteratura, dove abbondano invece le figure degli studiosi, degli equilibrati e, in generale, della «gente per bene».

Dino Campana ha messo nella sua vita almeno tanto di poetico e ďirreale, di illogico e di romanzesco quanto nel suo libro di poesie. Tale vita avventurosa e fantastica io l'ho sentita raccontare da lui stesso una sera ďestate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola trattoria, negl' anni sereni in cui s'andava addensando il turbine della guerra: e mi sembrò ďascoltare una novella di Edgardo Poe.

Ci conoscemmo quella sera stessa e non ci fu bisogno di presentazioni: io facevo gli ultimi corsi universitari ed egli era nel suo periodo di entusiasmo letterario. Mi chiamò subito professore. - Professore, senta: professore, dica.

Gli feci osservare che io non solo non ero professore, ma non ci tenevo affatto esserlo nè a esser chiamato. Non ne volle sapere: egli aveva bisogno di uno studioso «per bene», di un rappresentante della cultura classica e per poterlo impressionare e sgominare con le sue idee strambe e originali, con la sua esperienza di eccezione e col racconto delle sue avventure. Quel tale dovevo esser io.

Sedeva a una tavola sparecchiata e beveva in un bicchierino da cognac, ma non del cognac, si del semplice sangiovese che egli ordinava a quartucci per volta. E siccome il bicchiere era piccolissimo, egli mesceva e beveva e ordinava quartucci di vino ininterrottamente. Aveva gli occhi piccoli e brillanti con uno sguardo da alcoolizzato che a tratti sorrideva, a tratti gettava lampi sinistri: e il volto, gonfio e ispido dalla barba incolta, gli si illuminava via via di beatitudine o di apparente ferocia.

-  Sa, professore, quando ho dei soldi bevo cognac vero, a bottiglie, (l'albergatore mi faceva cenno di no col capo); ma adesso faccio il figlio di famiglia, e mi illudo così bevendo bicchierini su bicchierini, di acqua tinta. Fin che sia in questo paesucolo... Gli risposi che una bella illusione compensa una bella realtà, anche in fatto di liquori; e che, quanto al paese, mi piaceva specialmente nelle sue campagne.

- Che cosa sa Lei della nostra campagna? Io si la conosco: quasi tutti gli anni io vado a mietere, insieme con le opre e guadagno bene! Mangio, bevo e dormo con quei villanacci puzzolenti e ci sto come un papa: ma ci vuol nerbo e reni forti: io sono forte, sa! -

E intanto stringeva il collo del quartuccio come se lo dovesse stritolare.- Lei conosce Rimbaud? - Saltava da un argomento a un altro tutto diverso mantenendo sempre la sua espressione sorridente-diabolica. Erano appunto gli anni in cui Rimbaud incominciava a essere di moda, specialmente tra i giovani, e anch'io qualcosa ne sapevo: ma io dovevo ignorarlo completamente perché me ne voleva parlare lui a modo suo. Mi recitava brani delle poesie, ma più che altro mi raccontava episodi della vita di Rimbaud, in parte noti, in parte mai sentiti raccontare. Inventava? mescolava al vero il leggendario e innestava alla vita del poeta francese, suo fratello ďanima, qualche episodio della sua esistenza randagia? In breve egli finì col parlare solo di sè.- lo so tutte le più belle canzoni di tutti i paesi del mondo: l'ho imparate nei miei viaggi.

Prese da un angolo un mandolino fuori uso e si mise a cantare: sfregava energicamente le quattro corde col manico di una forchetta, e su quesťunico accordo si accompagnava. Aveva la voce ingorgiata e sibilante: quel che veniva fuori era più un ruggito che un canto: egli stesso ne rideva mentre cantava, lanciando occhiate ironiche ai pochi clienti della trattoria, viaggiatori di piccolo commercio che l'ascoltavano dandosi un contegno e sbarravano tanto ďocchi quando Campana smetteva le sue canzoni per dare due abbracciotti e pizzicotti allavvenente serva ridarella che gli somministrava le fogliette di Sangiovese.

- lo soy Argentino. No soy estranjero...

Questa l'ho imparata a Buenos Ayres quando facevo il doganiere laggiù. Mi ero imbarcato ad Amburgo come mozzo in un transatlantico della Amburg America Linie: sbarcato in Argentina, non tornai più a bordo. Là conobbi negri, ebrei, greci, tutte le razze. Ecco una canzone tunisina... e quesťaltra spagnuola e questa... ultima creazione dei Boulevards...

Cantava in un modo sgradevole e buffo, che faceva ridere e rabbrividire nello stesso tempo.- lo ho sempre girato il mondo senza spender nulla. Molta parte l"ho fatta a piedi: quando non ci arrivavo più, ricorrevo alla polizia. «Chi siete? Dove abitate?» eccetera: e mi  rimpatriavano per corrispondenza. Una volta a Vienna, mentre chiedevo del denaro (ero veramente male in arnese) mi arrestarono. Mi ricordai allora che in quella città abitava un mio stretto patente, un alto prelato conosciutissimo. Dissi loro: Badate,Io sono parente così e così... Non mi credono: io insisto, s'informano e trovano che è vero; mi rilasciano. Anche un'altra volta fui arrestato, quando studiavo chimica a Bologna. Fu un caso buffo.

Esco per istrada e ti vedo una serva che teneva al guinzaglio un bulldog tutto ciccia e occhiacci; mi viene un‘idea, un capriccio: strappo alla donna il guinzaglio, e incomincio a far mulinello: il cane rotea per l'aria e guaisce e abbaia e si slancia in una girandola fantastica: la serva stride come se la squartassero: gente accorre da tutte le parti, mi circondano mi afferrano: vengono gli agenti e mi portano dentro: affare di poche ore.Ride ancora sinistramente. E' la follia che affiora: mi sovvengo di aver udito sussurrare in paese che, in un accesso furioso, egli minacciò la madre con una scure. E l'animo mi si fa triste, mentre egli continua a raccontarmi la sua vita errabonda, povera e strana, irreale e tormentata, come una notte tempestosa percorsa dai lampi. 


Lo rincontrai a Marradi, l'estate del '14, quando era già scoppiata la guerra europea. Aveva passato l'inverno a Firenze dove aveva trovato simpatie presso il gruppo della Voce e di Lacerba, aveva composto i Canti Orfici, stampati a Marradi, nell'unica tipografia del paese, presso il buon Ravagli. Era sorridente e, per quanto poteva esserlo Dino Campana, amabile e lieto. Gli chiesi:- Come ha fatto a trovare i soldi per la stampa?- Semplicissimo. Qui tutti mi sono amici e ognuno si è sottoscritto per una copia. E poi... io li fermavo per la strada col foglio della sottoscrizione in mano e la doppietta a tracolla. Voglio che lo legga anche Lei, il mio volume: non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze; tanto fra i poeti (quel giorno io dovevo essere poeta per forza) non si fanno complimenti. E oggi sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo o a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero.

Rileggo i Canti Orfici. Fra molte cose illogiche o non completamente realizzate, ma sempre lampeggianti di sprazzi di poesia, trovo alcune pagine limpide, forti, espressive di tale evidenza e poeticità quale è raro trovare anche fra i più bravi scrittori ďoggi. Sono specialmente quelle di un diario buttato giù durante un suo vagabondaggio da Marradi alla Verna. Di tutte le cose scritte da Italiani e Stranieri inspirate al massimo eremo francescano, le più originali e pittoresche e alate sono le poche pagine di questo spirito tormentato ed errabondo, di questo fratello spirituale di Rimbaud, che la Romagna ha donato all‘Italia e alla poesia.