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Il labirinto mediterraneo negli Orfici

 

di Maura del Serra

Da "Resine", n. 57-58, luglio 1994

Le rivisitazioni ormai cicliche dei Canti Orfici, dettate ogni volta da un senso che vorrei dire di occasione necessitante, non devono e non possono dimenticare che questo libro è in ogni senso figlio di quei “primi dieci anni del secolo ventesimo” a cui Rebora dedicava i Frammenti Lirici, l'altra memorabile raccolta poetica "sperimentale" del protonovecento: e noi, entrati negli ultimi dieci anni di quello stesso secolo e millennio, non sappiamo ancora, in verità, se abbiamo avuto od avremo un libro di poesia analogo, da levare in parallelo o a contrasto attivo (immaginativamente e spiritualmente attivo) come un pollice catalizzante, rispetto a quell'indice teso con tanta giovanile febbre verso l'oltre, quell'indice che fu la vita-opera di Campana nei suoi fatidici 33 anni di presenza agonica sulla scena del suo tempo. E sappiamo in pectore che, se avremo un tale libro - se aposteriori ci apparirà esistente in questi nostri anni di riluttanti bilanci - sarà in virtù di un soprassalto, di uno scarto accensivo, di uno scatto del montaliano “anello che non tiene” nella complice catena di quel liscio e asettico minimalismo etico che avvolge la nostra epoca post-industriale, post-ideologica, post-umanistica (non vogliamo dire, cedendo alle tentazioni di un millenarismo dimissionario, post-umana, anche se l'occhio ci corre alle prospettive affascinanti e/o terrorizzanti offerte dall'immaginazione computerizzata, dalla cosidetta “realtà virtuale”). Certo il nostro, quello europeo, almeno - è un umanesimo sfiduciato, come ha detto il filosofo spagnolo Fernando Savater, nella capacità di “desiderare bene” cioè in quella facoltà illuminatamente eversiva che comprende tanto le radici dell'utopia quanto quelle del mito e dei grandi progetti individuali e sociali, e che permette all'uomo - in particolare all'artista - di farsi parte attiva, ponte e testimone (mártyr) di quel nuovo mondo nel mondo che ognuno porta con sé come cosciente o smarrito “messaggio dell'imperatore”.

   Quel che ci colpisce ancora in Campana, nella tormentata e struggente avventura di poesia come vita dei suoi Orfici, è appunto la fervida disposizione di Dino a offrirsi intero, senza compromessi - inerme, è stato detto - al nodo fondante di Eros e Thanatos, e insieme la sua capacità di operare tecnicamente, tutt'altro che da “barbaro” e da “uomo dei boschi”(1) su quel nodo, di fare corpo con la parola e di fare della parola il proprio corpo sacrificale, correndo da “cometa”, a sussulti ma senza ripensamenti, sulla linea ideale della “poesia europea musicale colorita”, quella che unisce il maggior barocco figurativo e poetico al romanticismo aereo e tragico di Hölderlin, a Nietzsche, a Rimbaud, a G. M. Hopkins e a certi espressionisti “intimi”, fino ad Onofri e a Pasolini, e ancora a Rebora: la capacità di rivitalizzare le figure del profondo, della cerca interiore, esprimendo “l'anima che si libera”,(2) etimologicamente scatenandola, emergendo per forza propria (anche se con gui-de di fondo tutt'altro che marginali, da Dante a Goethe a Nietzsche a Baudelaire a Laforgue e ai simbolisti) dagli stereotipi della koiné decadente europea nella loro volgarizzazione dannunziana - quel D'Annunzio che secondo la diagnosi di Campana “invecchiava”(3) ciò che evocava, pri-vandolo della verginità conoscitiva della visione, spegnendo nel falso sublime quegli “accordi di situazione e di scorcio” perseguiti invece dal “piccolo Faust” in cui gli Orfici avrebbero dovuto organarsi e comporsi.(4) Anche se in Campana il personaggio-agens, con le sue proiezioni, è ovviamente lontano dall'autonomia sublimante che possiede in Dante e in Goethe, tuttavia il modello del Faust - ripresa ultra- e metaromantica di quello dantesco - ha impresso tracce vistose negli Orfici, proprio a partire dal motivo strutturante del labirinto che compare nella Dedica del Faust stesso come intenzione del poeta-narratore onnisciente di ripercorrere memorialmente l'“errabondo, labirintico corso della vita”(5) e, sul piano del personaggio-agens, si ritrova nella figura del protagonista, l'Ulisse germanico, il Wanderer teso all'avventura totalizzante dei sensi e della coscienza fino ai “novissimi” del viaggio oltremondano: personaggio che analogamente percorre gli Orfici fin dall'incipit della Notte, nella proiezione autobiografica dello studentesco Faust “giovane e bello”, con la variante somatica dei “capelli Ricciuti”.(6) Ora, nell'itinerario esistenziale e conoscitivo di Campana e nel suo "doppio" espressivo (il viaggio visivo-visionario che sostanzia gli Orfici) la figura simbolica del labirinto è ben riconoscibile, ricorrente e direi cruciale, in quanto intersezione dei due assi poematici: l'elemento “nordico” (notturno, montano) e quello "latino" (solare, marino-mediterraneo) identificabili con il dionisiaco e l'apollineo della celebre dicotomia stabilita da Nietzsche nella Nascita della tragedia [Die Geburt der Tragödie] (opera che, insieme alla Gaia scienza, ha lasciato negli Orfici segni o “frecce” che scoccano fin dal noto sottotitolo, Die Tragödie des letzten Germanen in Italien). L’intersezione assiale di questi due elementi forma e contiene il centro, il fuoco, che è ad un tempo quello della liberazione interiore del poeta dalla molto occidentale “oppressione dei contrari”, e quello della realizzazione artistica:(7) un fuoco sempre attizzato e catalizzato dall'esperienza per eccellenza altra ed intima all'uomo, l'incontro erotico con la figura femminile (la Lei polimorfa e antonomastica che percorre il libro).(8)

   Non è eccessivo affermare che tutti i caratteri simbolici costitutivi del labirinto arcaico-classico sono riconoscibili nel percorso degli Orfici che va da La Notte alle poesie-senhal della “mediterranea ars”,(9) quelle del cosiddetto cielo di Genova: a partire dalla forma iconica ed etimologica del mitologema (10) che esprime fluidità e continuità empatica, reversibile, fra morte e vita, e rappresenta un viaggio che è appunto di morte e di resurrezione, infero e supero, anabasi e catabasi ad un tempo: in senso cosmologico il labirinto riproduce infatti “il cammino del sole autunnale nei suoi giri che portano alla sua scomparsa nella prigione terrestre”,(11) e, nella sua struttura “spiraliforme o menadriforme”(12) esprime la discordia concors, l'ossimoro proprio dei riti e dei percorsi misterici: è una ingegnosa costruzione dedalica (capace però di imprigionare il suo creatore) e insieme un grembo primigenio, una caverna naturale in cui non ci si può perdere ma ci si deve perdere, un cammino sempre liminare “che porta alla morte ma in pari tempo al di là, fuori della morte”,(13) dentro e fuori dello spazio-tempo. Il labirinto a noi più tradizionalmente noto, quello cretese, ha infatti la caratteristica struttura “a pacco di visceri”, e nelle iscrizioni sui canopi è indicato (con espressione che unisce appunto l'alto e basso) come “palazzo delle interiora”:(14) definizione vertiginosa di fronte a cui il ricordo del lettore di Campana corre all'intrico dei “ritorti vichi” bolognesi e dei “vichi fondi tra il palpito rosso”, dei “segreti dedali” della Genova tentacolare, viscerale e pulsante (che tornerà prepotentemente nella poesia di Caproni, dai molti debiti campaniani, con caratteri ancor più insistiti di intestinalità e di “folle” grembo di opposti).(15) Si può anche ricordare che le città-labirinto topiche, legate all'idea della fortezza da espugnare (e/o donna da possedere) sono nell'antichità classica Troia e nel medioevo Gerusalemme, la città santa, meta ultima del pellegrinaggio fisico e spirituale: e come “pellegrinaggio” attraverso città turrite Campana configura il suo vagare, la sua apparente “corsa cieca fantastica in frenabile”, definendo esplicitamente con questo sostantivo (“fine del pellegrinaggio”) il ritorno dalla “fortezza dello spirito” e dal viaggio dantesco-purgatoriale de La Verna.(16) Ma quel che più conta per noi è che questo simbolo, definito dagli studiosi come "archetipico" e categoriale(17) ha sempre al suo centro un mostro sacro, un mostrum che incute attrazione e paura, e che può essere il Minotauro, o un tesoro, o uno specchio (emblema del “conosci te stesso” sapienziale), oppure, in molti miti (ad es. melanesiani) una potente figura femminile di Guardiana o sacerdotessa, nel doppio aspetto di Domina, Grande Madre salvifica e terribile dotata di poteri oracolari e padrona della vita dell'adepto, con il quale si unisce in ierogamia, e di fanciulla o principessa tenuta prigioniera e da lui liberata e posseduta, ovvero di Arianna-Anima che fornisce all'eroe il filo del cammino:(18) e qui è immediato il ricordo della coppia matrona-ancella, ovvero ruffiana-fanciulla (la prima raffigurata in veste di cartomante nel par. 6 de La Notte) che percorre questo poemetto e Genova, e che sempre sigilla eroticamente l'error del protagonista attraverso vichi, luci fallaci, ombre, immagini e specchi, fuochi, piazze, porte (la porta, con le varianti di muri, ponti e archi, ricorre ad ogni paragrafo della Notte) e segnatamente torri: la “torre quadrata” di Piazza Sarzano, la “torre barbara” e la minacciosa-fascinosa torre “otticuspide rossa impenetrabile arida” ancora nella Notte (l'antico simbolismo dell'ottagono come doppio quadrato terreno-celeste è presente ad es. nella tradizione patristica, dove è legato a quello battesimale).(19)

   La doppia immagine femminile degli Orfici, versione dell'eterno femminino goethiano in versione appena più quotidiana (e si ricordi la traduzione del passo del Faust riguardante l'apparizione del fantasma di Margherita, inviata nel settembre 1917 alla Cecchi Pieraccini col titolo Letteratura) ha la sua ascendenza più antica nella città-madre che compare nell'Apocalisse (17, 1-9) appunto come “madre delle prostitute e degli uomini della terra”, e si reincarna poi modernamente nella Parigi di Baudelaire, nelle “villes tentaculaires” di Verhaeren nonché nelle “città terribili” della Laus vitae dannunziana; e, riverberando in anafore variate le sue cicliche apparizioni, trova il suo acme visionario ne Il viaggio e il ritorno, dove è evocata come “l'antica amica, l'eterna Chimera” che “teneva fra le mani rosse il mio antico cuore”: immagine che è anche, come si sa, e pur mediata da Poe, un calco anamorfico di quella di Amore in Vita Nova 111, 5, e che è strettamente parallela a quella della “siciliana proterva opulente matrona […] piovra de le notti mediterranee”, a sua volta doppio della celestiale, bianca “visione di Grazia” genovese (anche la “donna bianca” di Piazza Sarzano si contrapponeva alla “Lussuria” che “siede imperiale” dove “la via si torce e sprofonda”, al pari della fanciulla che “lavava e cantava”, novella Matelda, “nella neve delle bianche Alpi”(20) La donna è dunque figura ambivalente che sigilla e insieme chiude l'approdo al “più chiaro giorno” mediterraneo, porta e porto che, in una dimensione insieme orizzontale e verticale (antenne, montagne/mare) compone l'immagine del cuore o "seno" della città, raggiunto attraverso le sue vene (l'immagine totale, quindi, di un alto profondo) ed è a sua volta inscindibilmente unita all'immagine altrettanto ambivalente, accusatoria ed autosacrificale insieme, della citazione variata finale dal Whitman del Song of Myself, la celebre “They were all torn / and cover'd with / the boy's / blood”. (21)

   Nel complesso dei simboli tematici collegati al labirinto (il sogno d'angoscia e il cammino impedito, la peregrinazione dell'anima attraverso stati ed elementi, la donna-custode),(22) spicca infine il costante collegamento del labirinto stesso con l'acqua "materna": con un fiume, con un'isola e specialmente col mare e i marinai, che in molte tradizioni usavano danzare in cerchio davanti alle grotte sottostanti la montagna-labirinto; come pure risalta il legame di quest'ultimo con i giochi originariamente rituali di contadini e fanciulli, giochi durante i quali “una giovane” (o, rispettivamente, una bambina) “prendeva posto al centro e dei giovani facevano a gara per raggiungerla seguendo i rigiri”:(23) è facile rammentare la sequenza quasi ossessiva presente nelle composizioni salienti degli Orfici, dove l’intrico dei vicoli-vene rossoneri mette capo al mare e al suo bianco notturno estaticamente scintillante. L’Arianna-Anima, con la sua compresenza dionisiaca di dolore e felicità, è dunque presente nell'immaginario collettivo arcaico come centro, rosa del labirinto, e dai miti trasmigra nella Beatrice dantesca col suo “doppio” di Medusa o sirena, nella “Gante” di Baudelaire e nella “femme fatale” decadente, fino alla fanciulla-matrona-Sfinge-Chimera di Campana (e, un settantennio dopo, nella proteiforme Bestia-Parola dell'ultimo Caproni, che, celata nell'intrico nordico della selva, ugualmente “vivifica ed uccide” chi la raggiunge).

   Negli Orfici l'incontro finale con lei si compie nel silenzio di una “finestra [...] spenta”, nella “nuda mistica in alto cava / infinitamente occhiuta devastazione”, ed è il rovescio indicibile, l'ombra e forse la sostanza del “fantasma soleggiato di felicità” intravisto da Dino sul Mediterraneo, di quella sua folgorata, intuita e perduta “conoscenza eterna di poco tempo” che è “come stare sempre sulla riva di un giorno”(24) e che ancora e sempre, aprendo il suo libro, noi riceviamo come una promessa.


Note

1) Sono note le autodefinizioni campaniane di “ultimo avanzo dei barbari in Italia”, ovvero di “poeta germanicus” e di “uomo dei boschi”, quest'ultima usata con polemica autoironia nelle lettere a Novaro e a Papini: cfr. D.C., Souvenir d'un pendu - Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a c.. di G. Cacho Millet, Napoli, ESI, 1985, pp. 55, 116, 157.

2) L'espressione “poesia europea musicale colorita”, anch'essa autodefinitoria, appartiene ai colloqui di C. col medico Pariani a Castel Pulci (cfr. C. Pariani, Vite non romanzate di D.C. scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938, p. 25 (rist. come C. P., Vita non romanzata di D.C., a.c. di C. Ortesta, Milano, Guanda, 1978 e Milano, SE, 2002); per l’“anima che si libera”, cfr. lettera dei 6 gennaio 1914 e Prezzolini, accompagnante l'invio de La Chimera per "LaVoce" (Souvenir d'un pendu ecc. cit., p. 56).

3) Cfr. lettera dell'ottobre 1916 a Sibilla Aleramo, ivi, p. 202. Cfr. anche le note accuse al “Vate grammofono” nella lettera dei 24 dicembre 1917 a Carrà (ivi, p. 233).

4) Lettera dell'11 aprile 1930 a Binazzi, relativa alla discutibile ristampa 1928 degli Orfici, ivi, p. 242.

5) Cito dell'ed. Feltrinelli, J. W Goethe, Faust e Urfaust, a c. di G. V. Amoretti (rist. 1991); nella stessa Dedica [Zueignungl compaiono molti elementi dell'esperienza labirintica degli Orfici, e segnatamente del viaggio memoriale de La Notte, dalle rievocate “ondeggianti figure” sorte “dalle nebbie, dai vapori”, alle “molte care ombre” e al “primo amore” (Schwankende Gestalten […] aus Dunst und Nebel [ ... ] manche liebe Schatten [...] erste Lieb, ivi, p. 3).

6) D. C. La notte, in Canti orfici e altri scritti (cito dall'ed. Oscar Mondadori, Milano, 1972) p. 11.

7) D. C., Taccuinetto faentino, a c. di D. De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1960, p. 40.

8) Di contro alle ricorrenti "sparate" genericamente misogine di C. (ad es. nelle Storie, originariamente inviate a Novaro nella lettera dell'aprile 1916) e a quelle specifiche contro le "signorine" acculturate del suo tempo ne La Notte, cfr. l'accorata dichiarazione nella lettera del novembre 1917 a Giacinta Papini (Souvenir d'un pendu cit., p. 230): “Nessuno ha mai adorato e trovato parole per la donna come me”.

9) Espressione che chiude la lettera (in francese) del 18 gennaio 1916 a Boine (Souvenir d'un pendu cit., p. 233).

10) M. Cagiano de Azevedo, Saggio sul labirinto, Milano, Vita e Pensiero, 1958, pp. 19-20, collega il senso del sostantivo, che originariamente designava ii palazzo cretese di Cnosso, a quello di ipogeo e di caverna e così, con più estesa disamina, P. Santarcangeli nel suo Libro dei labirinti, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 31 e 115 segg.

11) P. Santarcangeli, op. cit., p. 33.

12) M. Cagiano de Azevedo, op. cit., p. 12.

13) R Santarcangeli, op. cit., p. 115, 151, 355. Dopo la catabasi de La Notte, l'anabasi purgatoriale de La Verna (“SALGO / ne lo spazio, fuori del tempo”: Canti Orfici ecc. cit., p. 29) prelude a sua volta alla discesa-salita entro Genova: rinvio qui al mio precedente intervento campaniano Sacrificio e conoscenza: elementi di simbologia nei «Canti Orfici", in questo stesso volume.

14) Santarcangeli, op. cit., p. 144; Cagiano de Azevedo, op. cit., p. 13; la sala del trono di Minosse, centro del labirinto, è identificata con la caverna sacra (Santarcangeli, op. cit., p. 97).

15) Cfr. ad es. Lettera da Genova, in "Aretusa", novembre 1945, e Litania, nel Passaggio d'Enea (il nome di Genova vi è invocato “sacralmente” per 90 volte, e il nome di Campana, nel trittico “Campana Montale Sbarbaro”, in rima con “Genova nome barbaro” compare ai vv. 56-57). Cfr. G. Caproni, Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989, pp. 180-187.

16) Labirinti simbolici sul pavimento delle chiese medievali, espressioni della via purgativa, erano detti appunto “Chemin de Jerusalem”, e “li si percorreva in ginocchio, cantando salmi penitenziali” (Santarcangeli, op. cit., p. 70): cfr. il pellegrinaggio rituale musulmano alla Mecca, che ha al centro la Kaaba, la pietra nera quadrata caduta dal cielo.

17) “Simbolo categoríale” è definito da E. Battisti (cit. in Santarcangeli, op. cit., pp. 108-109) al pari della stella e del disco solare; e archetipico, oltre che naturalmente da Jung, ad es. da Neumann (ivi, p. 150); cfr. anche gli studi di Kérenyi, Evans, Walters, Diels, Mathews, Eilmann ecc., ricordati da Cagiano de Azevedo in op. cit., pp. 3-12 e passim.

18) Cfr. P. Santarcangeli, op. cit., p. 188; Cagiano de Azevedo, op. cit., pp. 53-54. 19 Specialmente negli scritti di Sant'Ambrogio, mentre l'esagono è identificato con la morte: cfr. Santarcangeli, op. cit., p. 201. Il labirinto è rappresentato come torre sui vasi attici (ivi, p. 202): ma la stessa mitico-scritturale Torre di Babele è un labirinto delle lingue: cfr. i “la notte / di fiera della perfida Babele” che balena ne La sera di fiera dei Notturni, connessa alla “Lei che non è nata eppure è morta” (vv. 16-17 e 28, in Canti Orfici cit., p. 21).

20) La Notte, in Canti orfici cit., pp. 8 e 15 (“Venne la notte e fu compita la conquista dell'ancella”); come variante della ierogamia infera, cfr. A una troia dagli occhi ferrigni, Convito romano-egizio e soprattutto Furibondo, col finale “[...] fiero / Penetrai, nel fervore alta la fronte / Impugnando la gola della donna / Vittorioso nel mistico maniero / Nella mia patria antica nel gran nulla” (Quaderno, in Canti Orfici cit., pp. 91-95): si può ricordare che a partire dalla Bibbia l'espugnazione della città per antonomasia, appunto Gerusalemme, è equiparata allo stupro di una vergine; cfr. inoltre Genova, strr 4 e 6, Piazza Sarzano, La notte (Canti orfici, cit., pp. 65 e 67, 63, 12) e le complementari Poesia facile, Donna genovese, O l'anima vivente.... Piazza S. Giorgio, Crepuscolo mediterraneo). Ne La notte, v. anche la doppia figura finale della “donna matura addolcita da una vita d'amore” che governa “nelle chiuse aule”, e della “portinaia” che “guarda la porta d'argento” (Fine, ivi, p. 16).

21) “E il libro finisce nel più chiaro giorno di Genova e la discussione sull'arte mediterranea” (Taccuinetto faentino cit., XXII, p. 66); “traccia d'assassinio o di liturgico sagrifizio” era già stata definita l'epigrafle finale degli Orfici da Boine nella sua preveggente recensione sulla "Riviera ligure", agosto 1915 (poi in Plausi e botte). Per il simbolismo del cuore e dello specchio autoconoscitivo (ma anche lunare e femminile) posto al centro del labirinto, cfr. R. Guénon, Symboles fondamentaux de la science sacrée, Paris 1962 (trad. it. Milano, Adelphi, 1975) p. 216, e Santarcangeli, op. cit., p. 199.

22) Cfr. Santarcangeli, op. cit., p. 170) che ricorda come, nella discesa labirintica agli Inferi presso i Maya, il sacrificante venga arso nella regione del fuoco, e che il cuore del dio Quetzalcoatl simboleggiato da una grande gemma, “dopo essere stato arso si trasforma nel pianeta Venere” (ivi, p. 189) ribadendo il legame dei motivo con l'eros terrestre-celeste. Anche Azevedo (op. cit., p. 54) rammenta che Teseo, secondo Plutarco e altre fonti classiche, prima della sua impresa avrebbe ricevuto dall'oracolo il consiglio di mettersi sotto la protezione di Afrodite.

23) Santarcangeli, op. cit., pp. 138-141 (sono ricordati i labirinti scoperti da Baer, Jelisseiev, Aspelin e altri in Germania, Russia, Svezia, Finlandia, Lapponia). 24 Cfr. rispettivamente O siciliana proterva opulente matrona (str. 7 di Genova). in Canti orfici cit., p. 68; lettera del 2 maggio 1916 a Cecchi, in Souvenir d'un pendu cit., p. 169; L’infanzia nasce ... (frammento del 1917 circa) in Canti orfici cit., p. 168.