Voce

di DinoCampana

 

di

Francesco Monterosso

 

Paese Sera 18 Luglio1952

 


 

Ringrazio l'amico Paolo Magnani di avermi inviato questo rarissimo documento, scritto da Franco Matacotta nel 1952 con lo pseudonimo di Francesco Monterosso.

(p.p.)


 

AI PRIMI DI GENNAIO 1918, Il poeta Dino Campana, il vagabondo, il ribelle, il cosidetto folle, esaurite tutte le possibilità di resistenza alla drammatica battaglia della sua vita e della sua poesia, entrava nel manicomio di Castelpulci, a trentatrè anni di età. Mai s'era dato ancora nella storia delle nostre lettere un destino tanto tragico e tanto precocemente concluso. La nostra letteratura è stata sempre di solare equilibrio. Nemmeno la rapinosa e voluttuosa follia del Tasso valse a spezzare questa fatalità olimpica del nostro orizzonte poetico. Campana è stato, davvero, il primo ingresso delle ombre e delle Furie nei giardini chiari e sereni delle nostre lettere.

Era nato a Marradi nel 1885, figlio di un maestro elementare. Aveva avuto una « infanzia meravigliosa ». Il padre l'aveva mandato giovinetto a Bologna a studiare chimica. Ma Dino alla chimica aveva preferito la poesia. « Io studiavo chimica per errore, non capivo nulla. Non la capivo affatto » —  dirà più tardi. Incapace di trovare una qualsiasi sistemazione pratica, s'era dato, all'età di ventenni, al più dissennato vagabondaggio. Le cronache lo dicono viaggiatore per lontani paesi, dalla Russia all'Argentina, saltimbanco, tenitore di un tiro a bersaglio, suonatore di organetto, carbonaio nei bastimenti mercantili, fuochista, poliziotto e pompiere. Ma sebbene, a distanza di anni, possa divenir lecito dubitare della estensione di questi viaggi e che le peregrinazioni argentine come quelle tra i Bossiaki siano null'altro che « fantasie », per usare una sua parola chiarificatrice, tuttavia il sospetto nulla toglie alla grondante bellezza delle sue pagine, vive oggidì come nessun'altra cosa è viva della prima parte del nostro secolo letterario, D'Annunzio compreso.

Di questa straordinaria vitalità sono prova le edizioni dei « Canti Orfici » che via via si susseguono. E' recente l'edizione curata da Enrico Falqui: che dovrebbe essere definitiva e che vale come commemorazione del ventesimo anniversario della morte del grande poeta toscano. Il volume raccoglie anche le liriche e le prose del « Taccuino », già dato alle stampe da Franco Matacotta, pagine che sono le estreme  lasciateci da Campana prima di essere definitivamente internato.

Che cosa sia questa « pazzia » Campaniana è ancor oggi impossibile  dire. Un amico, che non solo credette nel genio di Dino ma gli fu prodigo di vigilanza amorevole come nessun altro, dico Bino Binazzi, la definì « un semplice esaurimento nervoso, per il quale ci vorrebbe una buona ingestione di fosfati  ». (Dalle « Lettere di Bino Binazzi »). La scienza ha parlato di schizofrenia et similia. Ma la pazzia dei poeti è cosa ardua da indagare. Per Campana, assolutamente impossibile. Perchè non possiamo senza difficoltà separare quel tanto di patologico che questa pazzia conteneva, da quell'altra parte che vorremmo chiamare « volontaristica », e che è stata in Campana forse predominante. Non sappiamo, voglio dire, fino a che punto il poeta condusse e guidò, come un cavaliere, il cavallo della sua follia. Certo, egli fu l'ultimo solenne grido della poesia e della anima italiana prima che il falò della prima guerra mondiale ardesse nel cielo. Egli ha pagato il conto di tutte le grasse estetiche borghesi, che si sono trascinate lungo le strade della cultura nostrana fino a trentanni addietro. E' stato il capro espiatorio del mondo post-dannunziano: crepuscolarismo, simbolismo, futurismo, cubismo, si sono fusi nel crogiolo del suo canto: e alla fine, dalla confusione del primo quarto del nostro secolo letterario, è uscito un poeta nuovo, che te-neva alto in mano i canti di Francesco Villon.

Partito dalla « torre barbara dell'infanzia che custodisce i sogni, muove, colla velocità del cataclisma, all'assalto della « illusione universale ». Creature di nuovi miti, orfico risuscitatore della antica bellezza animale mediterranea, alla fine del viaggio le Chimere prendono sopra di lui il sopravvento e lo folgorano. Canta le sorgenti della vita, ma via via egli si accorge che il suo canto primordiale altro non è che un 'tramonto strano,. L'infanzia, col suo mito di purezza, s'è risolta, al contatto colla realtà quotidiana, un terribile inganno. La vita è un « miasma umano », l'umanità è « stanca e imputridita », e l'uomo vive in una paurosa solitudine, la solitudine della propria colpa. Bisogna salvarsi e purificarsi: questa è la legge suprema. L'uomo di Campana esce allora dalla sua torre e muove incontro al mondo per salvare gli altri uomini. Ma non vi riesce e si uccide.

E' la stessa sorte, anche ee su un piano diverso, del Lemmonio Boreo del Soffici e dell'Uomo finito del Papini. Storia dei Don Chisciotte che partono da cime favolose alla conquista del mondo quotidiano e si ritrovano provvisti solo di solitudine e d'impotenza. Ma Campana ha avuto, a differenza degli altri due, la coscienza lucidissima di questa impotenza: e da grande poeta non ha cessato un attimo di combattere le sue battaglie contro i mulini, perdendo di avventura in avventura parte delle proprie ali. Tra le parodie del Govoni, il crepuscolarismo dell'Onofri, le manie scandalistiche del Papini, lo estetismo del Soffici e il Monoplane du Pape di Marinetti, ecco levarsi, e divinamente resistere in mezzo all'etere letterario, la voce pura e limpida di Dino Campana. Una voce che resiste ancor oggi: che è ancor oggi carica delle voci migliori della nostra razza e del nostro popolo, la voce dei senzapatria, dei senzafamiglia, dei senzalavoro, dei senzatetto, dell'emigrante che dovunque passa lascia il segno di una sua patria superiore e più eterna, qual è la patria degli uomini che lavorano e soffrono. Non per nulla Campana chiamò « proletario » il suo grande Canto all'Italia.

Nell'estate del 1917. Dino è di nuovo a Marradi. L'amore nel quale ha creduto, lo ha abbandonato a se stesso. Rassegnato ormai nella solitudine dei propri ricordi e rappacificato colle sue montagne c le vere montagne dei solitari ›, fra le quali ha compiuto c stupefacenti scoperte. le montagne dell'Appennino, dalla linea severa e musicale, che segnò dopo Dante e Michelangelo lo spirito dei nostri migliori, attende che il suo tragico destino si compia. In una lettera grida: « Sono agli estremi. Non sono pazzo. Anderò col mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra, non esisterò più, ammesso pure che esista. Non voglio essere più poeta. Neppure le acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla e infinita è la mia desolazione » .

Il giorno di Capodanno del 1918, scrive le seguenti parole: « L'infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacchè in una strana eco s'immobilizza e s'allontana dai giorni; anzi nasce proprio da una cosa specchiata con le ridenti righe gialle e con i campanili: conoscenza eterna (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre sulla riva di un giorno (Dal Carteggio Intimo) ».

 

FRANCESCO MONTEROSSO