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Silvio Ramat

 

 Campana nella tradizione novecentesca

 

Intervento al Convegno tenutosi al Vieusseux nel 1973

 

di Silvio Ramat     

 

Dino Campana oggi, atti del Convegno tenutosi al Gabinetto Vieusseux, a Firenze, il 18 e 19 marzo 1973

 

 

Per quanto possa sembrare di una banalità assoluta, il rilievo preliminare s'impone: a voler impostare cioè un discorso su Campana nella tradizione novecentesca, è necessario che rendiamo conto dell'esistenza dell'uno e dell'altra. Dino Campana: quale possiamo proporlo, vivo di là dai termini di una meccanica registrazione d'anagrafe che, del resto, non fu pacifica né senza margine d'errore, se Papini e Pancrazi, ancora nella seconda edizione — 1925 — del loro repertorio Poeti d'oggi, facevano risalire la nascita dell'autore dei Canti orfici, — già segregato, co­me si leggeva, nel manicomio di «Castel Pucci», — al 1889, anziché al 1885; dimodoché Campana si trovava antologizzato fra i Baldini e i Fracchia, invece che tra i suoi effettivi coetanei Moretti, Palazzeschi, Onofri e Re­bora. (Magari a proposito dello sbaglio di datazione, sug­gerisce qualcosa, tra fatalità e coincidenza, il fatto che quel 1889 è lo stesso anno in cui aveva preso a manife­starsi la pazzia nel grande precursore, la pazzia di Nietzsche).

E, una volta posto il problema Campana, la tradi­zione (poetica) novecentesca: la quale ovviamente non è che cominci a sussistere di là dalla fisica soglia del ventesimo secolo, quasi come un dono e un destino spontanei: ma beninteso avrà urgenza, per istituirsi riconoscersi evol­versi, di trovare le proprie originali strutture mitiche, di dentro il linguaggio a cui tali strutture rinviano e appar­tengono. Dimostrando così, in via di principio, che è oltrepassato quello stadio d'interna dissonanza fra retorica e invenzione, apparso già tipico dei maggiori esempi di recente classicità (Pascoli, D'Annunzio).

Ebbene, non è illecito sostenere che una tradizione poe­tica novecentesca prenda coscienza di sé in maniera deci­siva e con decisivo scarto rispetto al suo passato prossimo (crepuscolare e futurista, vociano e rondesco) nel mo­mento stesso in cui i cosiddetti poeti nuovi si accorgono della presenza di Campana. Ovvero, se ne accorgono non più come di un elemento pittoresco e anomalo, come di un dato episodico e raro, sia pure intenso e forte al punto da meritarsi una stabile inclusione in quella ideale “anto­logia”  moderna che ciascuna generazione sceglie ed ag­giorna nella propria mente critica ed emotiva.

Prendere diversamente atto del valore di Campana implicherà piut­tosto, per i lettori (i poeti e i critici) nuovi, un impulso a interrogare radicalmente le forme espressive del tempo: e c'è una stagione (che si apre verso il '30: in concomi­tanza con la rilettura dei Canti orfici propiziata dalla ri­stampa bene o male procuratane da Bino Binazzi nel '28), una stagione a partire dalla quale il libro di Campana co­mincia ad emergere, a imporsi all'attenzione di lettori (poeti e critici, va ripetuto per cogliere il germe di un processo osmotico che andrà infittendosi dopo il '30) che rappresentano le due generazioni letterarie successive — la seconda e la terza, del Novecento, a seguire il fertile schema di Macrì. Il libro di Campana s'avvia dunque ad emergere con la forza di una rivelazione, che a poco a poco favorisce il debito spostamento d'interesse dal per­sonaggio all'opera, dall'aneddotica frammentaria e corriva in direzione della contestualità integrale: in breve, dalla favola alla storia (e quindi anche alla filologia).

G. De Robertis, sulla «Voce», alla fine del '14; Boine, sulla «Riviera Ligure», nell'agosto del '15; Cecchi, sulla «Tribuna», nel febbraio del medesimo anno: questi erano stati gli indubbi promotori di un'acquisizione dei Can­ti orfici al novero della lirica «autentica».
«Campana è poeta vero», concludeva la scheda derobertisiana, dopo aver ravvisato nei Canti orfici «tanta poesia da compen­sare la fatica del leggere», «A traverso difficoltà e an­dirivieni accademici e antiquati».
Data e clima della re­censione spiegano a sufficienza come mai il direttore del­la «Voce» vedesse nel testo di Campana non «la rivela­zione di un mondo poetico nuovo», ma piuttosto la spia di un «temperamento d'artista di forza e d'istinto davvero notevole», che rimanda contro ogni «spirito deca­dente» e «sensibilità atroce» a «un'ispirazione diversa e più sana: a Carducci». C'è sicuramente una matrice crociana, in tale distinzione, in certo accogliere e rifiutare derobertisiano («Lasciamo stare certa sensibilità esaspe­rata che la moda ha portato, e i tratti pittorici risaltanti, e le luci carnose»), matrice elusa peraltro fin d'ora in una discreta disponibilità ad accedere alla trama di «que­ste particolarità non peregrine», se poi vogliamo giungere «a sentirvi dentro un'ansia commossa, con battiti di sil­labe fatte canore».

È questa, ancora, né potrebbe stori­camente darsi altrimenti, una lettura d'impressione, con­dotta nell'orbita di quel frammentismo vociano che, si sa, mentre è formula abusata, generica o erronea, per la poesia dell'epoca, riesce più calzante per alcuni esemplari di pro­sa, anche critica.

Dall'altra parte, il «plauso» di Boine. «Plauso» infi­ne alla «vera pazzia» di Campana, contrapposta alle esi­bizioni d'angoscia e d'anarchismo (pensava Boine ai futu­risti?), alle pseudofollie che l'arte contemporanea ma­nifestava in un singolare empito d'esaltazione.

Al gusto di «prosa piena» (geniale intuizione di De Robertis, che peraltro finiva un po' troppo bruscamente per annetterla al modello carducciano), Boine sostituisce altre preferenze, altre origini, citando per primo poemi che sarebbero divenuti celebri, Genova e, più ampiamente, Viaggio a Montevideo: «Poiché ci sono le fonti di tutto», scriveva l’autore del Peccato, «certo sarà facile assegnarle anche a questa smarrita e decadente musicalità (Samain e compagni). Dico semmai che questa sorta di decadenza mi piace qui che di più non si può e che la stessa rozzezza violenta, la stessa primitività impetuosa con cui è come in assalto qui in più luoghi realizzata (cfr. Quiere usted hierba mate? [Boine cita l'incipit di Pampa, ma vi ag­giunge di suo il sostantivo hierba]) dimostra che non è d'accatto, risponde ad un intimo bisogno e del vecchio malfranzese non ha che l'apparenza.

S'attaglia cioè con spontaneità al mondo d'incubo e di libertà che il poeta s'è foggiato, alla risolutezza vagabonda di anima senza speranze, di là da ogni tradizione, di là da ogni acquieta­mento, nave ebbra e disancorata, gabbiano tra raffica e cavalloni.

Passano qui di mezzo, i rombi delle lonta­nanze; sei dove? Alle Antille, sei in Argentina; il viaggio non è qui coi luoghi e i  films ma cogli abbandoni e gli acquisti, colle liberazioni: - è una spirituale categoria di perdizione e di disradicamento».

C'è, nelle quattro pagine boiniane, il seme di quella che è stata poi la passione novecentesca per il Campana nomade e sradicato: passione criticamente rischiosa, a non saperla ridurre per intero alla concretezza dei testi; ma c'è anche una indicazione sostanziale del retroterra culturale ed estetico dello smarrimento campaniano: sicché l'obbiettiva consistenza europea dell'autore e del libro dovranno integrarsi, in un'ulteriormente complessa pro­spettiva di lettura, con la radice autoctona carducciana reperita da De Robertis e dopo, al di là della recisa ne­gazione del Gargiulo che pensava piuttosto a D'Annunzio (il suo «Ma neanche per sogno!», del 1933), prospet­tiva riesaminata e approfondita, come è abbastanza noto, da Contini ('37), dal medesimo De Robertis (negli studi, fondamentali, del '47 e del '50); dal giovane Sereni, che peraltro nel '42 metteva in risalto, col nome di Carducci, la liberazione da Carducci (e da D'Annunzio) a cui tende Campana; o da Bigongiari, che nel '64, rintraccia, iniziando dagli effetti della metrica «barbara», una «congiun­tura» Carducci-Campana. Nomi che non esauriscono il quadro, naturalmente, poiché basterebbe tener conto che la questione tornerà a interessare i due ultimi ed ottimi monografisti campaniani, il Bonifazi e il Galimberti, (per non dire del conciso profilo tracciato dall'Ulivi o, pri­ma ancora, della monografia del Bonalumi).

Campana, si sa, è stato un poeta che, riguardo alle proprie fonti, ha confuso (spesso, io suppongo, involonta­riamente) gli interpreti, anche i più affezionati. La famo­sa frase di taccuino sull'augurabile «cafonismo molto carducciano» è bifronte; i cenni a D'Annunzio (magari declassato a beneficio di Nietzsche) come a colui che più d’ogni altro sa invecchiare una donna o un paesaggio: le noticine sulla scarsa genialità dei futuristi o la drastica sentenza «Povera nostra poesia!» in risposta all'interro­gativo: «Su qual terreno potrebbero intendersi p. es. Baudelaire e Palazzeschi?».
Sono meritorie pertanto le ri­cognizioni del Galimberti sul milieu dannunziano (e in particolare sul dimenticato Angelo Conti) e del Bonifazi sulla presumibile “ragione”' nietzscheana che sembra con­testualmente in grado di conferire unitarietà ad osser­vazioni teoretico-umorali che rimarrebbero, altrimenti, sparse e fortuite.

In entrambi i casi, la critica recente ha dunque manifestato l'esigenza di restituire Campana a una situazione culturale oggettiva, da cui il poeta era in parte trasceso, in parte assorbito, ma da cui anche perce­piva tutto il peso di una “condizione” — come direm­mo noi oggi —, che gli era, al contempo, di autorizza­zione e di freno. Così era nell'obbiettivamente giusto Parronchi, quando nel '53, scrivendo su « Genova » e il “senso dei colori” nella poesia di Campana, metteva in , evidenza alla base della costruzione cromatica campaniana, nel citato poema, la stessa scomposizione dei piani e dei colori cui miravano le tensioni cubista e futurista, per quanto i Canti orfici procedano ben oltre, sotto la spinta di una ricomposizione che denuncia i suoi fondamenti classici.

Sono, quelli fomiti qui sopra, tanti (o pochi) esempi di quell'ambiguità, fra ingenua ed esperta, tra folgorante e pausata, tra rarefatta e densa di polisemie, che la scrit­tura di Campana rivela alla critica e che in gran parte dipende proprio da un'ambiguità della cultura retrostante ai Canti orfici. D'altronde, la strada del Novecento è tale, voglio dire che è movimento e mutazione adulta, solo a partire dalla fase in cui il caso e l'irrazionale vengono ad assommarsi in un organismo mentale — lirico o cri­tico che sia, nell'esplicazione — che dimostra di aver varcato per energia di ragionamento ogni stupore di tem­pra vociana, ogni pura gestualità di scuola futurista, ogni impressionismo eccentrico di tipo sofficiano, ogni pedagogisnio letterario nel quale poteva capitare di cogliere personaggi di animi e volontà perfino antitetici (Papini o Saba), accomunati nell'intenzione di autoproporsi ciascu­no a modello di comportamento, di etica viva. Né rappre­senta un'alternativa a tutto questo ventaglio d'ipotesi o soluzioni il costume rondesco, se guardiamo ai pigri li­vellamenti suggeriti per lo più dal gusto ch'esso volle indi­care, sicché tanta polemica condotta in nome del passato eletto (Leopardi, Manzoni) non conserva vitalità tranne in qualche circostanza sporadica che ben conosciamo ma che davvero pare astraibile dalla compagine di un discorso comune, di un lavoro concorde e progressivo.

Di là dai confini di una selezione operabile (e sovente operata) sulla scorta dei presunti diritti del gusto, quando il Novecento ritornerà sui Canti orfici in occasione della ristampa del '28, la grande scoperta che interviene a se­gnare il salto qualitativo rispetto alla lettura vociana di un De Robertis è la scoperta del libro come entità in­tricata ma compatta e organica. Perfino un critico come Sergio Solmi, di cui la formazione (o perlomeno la componente) crociana è a questa data assai palese, concederà qualcosa a una tal nozione, scrivendo: «Pochi poeti contemporanei, crediamo, si prestano meglio di Dino Campana alle citazioni staccate. E veramente, se di lui so­pravvivessero soltanto alcuni frammenti, lo storico dell’avvenire potrebbe idealmente ricostruire sulla loro scorta un grandioso organismo di poesia. Fedeli al nostro me­todo, di rintracciare nell'opera letteraria l'intimo principio unitario e operativo dell'ispirazione che vi si manifesta, [ispirazione che, come a Boine, pare a Solmi legata a un «senso continuo di perdizione e d'abbandono»] non ci lasceremo tentare dai comodi dualismi, facendo di Campana un grande poeta rovinato dalla follia, e scindendo con un taglio troppo netto quanto nella sua opera è espressione raggiunta da quanto non è che ebbro vaneggiamento e incoerente frenesia [e già Boine aveva accennato per certe celebri iterazioni di Genova, a «uno spet­trale intrico di macabra sarabanda che non è possibile fuori trame un qualunque normale costrutto»; oppure a un «impaccio» nel «parlare» campaniano]. II fatto è, prosegue Solmi, «che la potenza evocativa di Cam­pana [«strapotenza bizzarra di lirica», secondo Boine] non si scioglie che a stento dall'atmosfera febbrile che ne costituisce il fondo».

Sono parole del '28, anno capitale per la critica campaniana: quello in cui anche in «Solaria» ci fu spazio per Campana (ne scrisse Alberto Consiglio), mentre Crémieux inseriva il nostro poeta in un Panorama de la littérature italienne edito a Parigi, e Berto Ricci intanto, sul «Selvaggio», ne accreditava quell'immagine appunto un po' “selvaggia” (fra maleducazione e «teppismo») che è parte precipua della lunga leggenda campaniana: imma­gine destinata ultimamente a riaffacciarsi nella storiografia del Novecento, quantunque totalmente sottratta alla leg­genda ormai, se pensiamo a quale Campana figura nel «Parnaso» di Sanguineti.

Ma tornando sui nostri passi: fra il '14-15 e il '28, che cosa aveva significato l'autore, che cosa l'opera? Pochissimo l'opera, si direbbe (scorrendo l’elenco bibliografico fornito dal Galimberti, peraltro debitore confesso a Enrico Falqui per i cinque sesti del suo catalogo); qualcosa di più, certamente, l'au­tore. E tuttavia anche i contributi più seri o più poetica­mente ricchi alla conoscenza dell'uomo Campana (un uomo, rammentiamolo, già morto al mondo, già definitivamente recluso ed escluso), anche questi contributi, che si debbono a Cecchi (1916) e alla Aleramo ('19); a Sbarbaro (1921) e a Giuseppe Raimondi ('24) — e la linea ideal­mente porterebbe a quelli di Soffici (1930), di Fallacara ('37), di Cecchi e di Luigi Bartolini ('38) — rappresen­tano di fatto, lo vogliano o no, una varia sollecitazione al mito Campana.

Sembra insomma che la poesia del Nove­cento esiti dinanzi a quella voce e a quel testo che più di ogni altro contemporaneo ha ragioni intrinseche in grado di spingere quella poesia nuova (che ha già cono­sciuto Allegria di naufragi Ossi di seppia, il primo vo­lume del Canzoniere di Saba e la stagione indubbiamen­te più alta del lavoro di Cardarelli) a costituirsi come tra­dizione: che vuoi dire a interrogare e interrogarsi, a definirsi nel tempo attraverso radicali elezioni e radicali dinieghi, scoprendo e suscitando gli archetipi capaci di illuminare formalmente il processo genetico.

Ed ecco allora l'intuizione dei Canti orfici come libro, da proporsi e accettare integralmente. Come nel simbolo archetipo coesistono propellenti drammatici, il positivo e il negativo, così in nessun testo del giovane secolo il positivo e il negativo paiono congiunti indissolubil­mente come in quello di Campana. Chi per primo, e come, colse l'entità organica dell'opera?

È probabile che si sia trattato di una scoperta a più voci e concorde, certamente preparata ed esplosa nell'area di un ermetismo non anco­ra qualificato — né riqualificatesi a sua volta — come tale. A voler cercare tracce sensibili del linguaggio di Cam­pana, e dei suoi spettacoli di visivo o di visionario (anti­cipo qui le due notissime chiavi di lettura, suggerite en­trambe nel '37, rispettivamente da Contini e da Bo, pro­poste formulate in un dissenso occasionale che non risulta insanabile, come dimostrarono poi Montale nel '42; e ancora G. De Robertis nel '47 e nel '50, facendo scatu­rire il «visionario» nella tensione suprema del «visivo», stabilita poi col massimo di  “scientificità” dallo studio di Parronchi), queste tracce le troveremo senza dubbio via via più frequenti nei libri posteriori al '30, frutto della generazione più nuova, appunto: come Isola di Alfonso Gatto o La barca di Mario Luzi (bisognerebbe in ogni modo considerare di che specie siano echi o tracce).
Con­cepire i Canti orfici come libro fu assai verosimilmente una professione — man mano evolutasi da intuitiva in critica — connessa a quel medesimo tema e problema del Libro agitato da Mallarmé e infine risoltosi in una pesan­te condanna filosofica e pratica per lui stesso. Ora, il no­stro Novecento era materialmente contesto di una serie di opere “relative”, al frammentismo psicologico crepu­scolare avendo fatto séguito quel suo apparente contrario che fu il frammentismo futurista, mentre, contro questo e quello, il vocianesimo profondamente manifestava ciò che con vocabolo frusto si chiama crisi di valori ed è comun­que la percezione di una dismisura fra qualità ideologica e quantità esistenziale in un mondo che si trasforma.

Il primo Ungaretti visse all'interno di un tal oggettivo dive­nire, che il primo Montale cercò ancora di bloccare in formule transtemporali, sperimentando a lungo indivi­duali e precarie facoltà di resistenza della umana natura contro lo strapotere della natura cosmica. E i due risul­tati di spicco nell'aurora novecentesca, i Frammenti lirici di Rebora (1913) e Viarissimo di Sbarbaro (1914), aveva­no svelato un'analoga radice storica, svolgendo l'uno — il grande libro reboriano — l'ipotesi di una funzionali­tà che trascende la quotidiana coscienza dell'uomo, fun­zionalità insita in ciò che — scienza o ragione — par oltraggiosa negazione dell'antica e buona natura dell'esse­re; e invece fissando l'altro volume, quello sbarbariano, l'inconciliabilità del dissidio tra una vita ideale, colma quanto può esserlo l'utopia, e un'altra, evidente forma di vita spinta dagli uomini consociati fino ai limiti insopporta­bili del suo contrario, fino a quella non-vita di fronte alla quale il vagabondo “io” di Pianissimo si chiude in un irri­mediabile cinismo. Opere dunque, entrambe, pienamente “relative”, nel senso che denotano un movimento e una trama orizzontale in cui si raccordano o si scontrano due forze in presenza virtualmente alla pari. E certo, in que­st'ambito, nessun titolo del primo Novecento è libro co­me i Frammenti lirici, a dispetto del sostantivo; perché Rebora veramente “esaurisce” un tema, dopo averne frugato le pieghe più fonde: e lo risolve.

Si tratta però di una soluzione che sollecita un àmbito ormai oltre l'ope­ra, in una proiezione che conduce a Dio e al silenzio del poeta (come testimonierà puntualmente il futuro dell'uomo Rebora, del servo di Dio don Clemente Rebora).

Tutt'altro additavano i Canti orfici, seppure anche ad essi (salvo poche eccezioni) avesse fatto séguito il silenzio dello scrittore, silenzio tragico, viste le circostanze alie­nanti.

Ma il libro di Campana, nato nell'identica stagione di quelli di Sbarbaro e di Rebora (e mentre partiva la lirica “naufraga” del giovane Ungaretti), il libro di Campana giungeva a prospettarsi come assoluto, all'intelligenza let­teraria degli anni Trenta, in virtù del proprio spessore d'ombra, della propria luce notturna, del suo irrisolto ritmo verticale — cioè abissale, nella doppia dimensione del gouffre che perde e dell'immedesimazione nel rito misterico « notturno » che salva. Campana come equiva­lente di Mallarmé, quindi? Campana come modello pie­gato, pretestualmente e pretestuosamente, a surrogare una carenza di radici storiche?

No, giacché il suo libro, con­trariamente a quello della disperata illusione mallarméana, non si costruisce per eternare se stesso, la propria sa­cralità oggettuale che colma, soddisfa e decide all'infinito la possibilità integrale del dicibile, la poesia stessa. No, giacché il libro di Campana accetta invece per sé la con­dizione strumentale, strumentale in rapporto ai suoi con­tenuti, che sperimentano fino al punto di rottura l'eter nabilità dell'uomo che orficamente mette a prova la sua sete-essenza, e che cerca di serbare a quel «giro del ritor­no eterno vertiginoso» appreso in Nietzsche tutta la sua carica positiva: in modo che il naturalismo sviluppi la sua faccia salvifica; se no, è la dannazione, se l'essere ri­mane prigioniero di quell'eterno giro (che, per caso, è un sintagma quasi leopardiano).

A Nietzsche dovremo sempre far capo, certamente, per comprendere cosa smuovesse nella fantasia di Campana la dialettica fra il dionisiaco e l'apollineo. Dopo la prima indicazione di Solmi, nessuno meglio del Bonifazi ha teso concreto, con precisi riscontri, questo guardare da parte di Campana all'autore di Così parlò Zetratbustra e, in particolare, a quello della Nascita della tragedia.
Ma per riprendere il motivo dei libro, e per sottolineare che sia­mo a un livello differente da quello mallarméano, c'è una frase di Nietzsche che non trovo mai citata in riferimento a Campana e che invece in questa circostanza potrebbe servirci.
In Umano, troppo umano (perciò 1878-79), nel paragrafo II libro diventato quasi un uomo si legge: « È cosa che non finisce mai di sorprendere uno scrittore il fatto che il libro, non appena si sia staccato da lui, con­tinui a vivere una vita per conto proprio; per lui è come se la parte distaccata di un insetto proseguisse il suo cam­mino. Forse egli lo dimentica quasi del tutto, forse si eleva al di sopra delle idee espresse nel libro, forse anche non lo capisce più e ha perduto le ali con le quali volava allora, quando concepì quel libro: intanto quello si cerca i suoi lettori, infiamma esistenze e allieta, spaventa, ge­nera nuove opere, diviene l'anima di proponimenti e di azioni insomma: vive come un essere dotato di spirito e anima e tuttavia non è un uomo. La sorte più felice sarà toccata all'autore che, da vecchio, potrà dire che tutto ciò che è stato in lui di pensieri e di sentimenti vivi­ficanti, nobilitanti, rischiaranti, continua a vivere nei suoi scritti, e che egli stesso ormai non rappresenta che la grigia cenere, mentre dappertutto il fuoco viene salvato e propagato. Se poi si considera che ogni azione di un uo­mo, non soltanto un libro, diventa in qualche modo moti­vo di altre azioni, decisioni, pensieri, che tutto ciò che accade si annoda in modo indissolubile con tutto ciò che accadrà, si conosce la sola vera immortalità [sottolinea­tura di Nietzsche, questa; mie le altre] che ci sia, quella del movimento: ciò che una volta ha mosso, è incluso ed eternato nella catena totale dell'essere, come un insetto nell'ambra ».

Non solo quello che ho sottolineato offre singolari anticipazioni della tematica “notturna” campaniana; ma riesce significativa, del passo riportato, quella nozione di libro come entità in movimento e che provoca movimento.

In Campana c'è tutto questo, e inoltre si fa reale l’ipotesi nietzscheana (il «forse anche non lo capisce più” detto dello scrittore che non è ancorato in eterno alla disposizione fantastico-creativa da cui sgorgò l’opera, è – riferito a Campana – riconducibile per esempio a quelle confidenze da lui fatte a Castel Pulci al dottor Pariani, confidenze spesso “di là” dallibro, incapaci di spiegarne certi momenti: proprio perché adesso Campana, il suo libro, «forse anche non lo capisce più»).

Canti orfici immaginiamoli allora come un libro che nietzscheanamente è «quasi un uomo». E soprattutto come libro che provoca, che si fa mezzo ad altro, ossia non a qualcosa che gli sia estrinseco, bensi, l'abbiamo os­servato, a quello che gli sta dentro come tema. Un tema che ha sembianza e irrequietezza del fuoco, del fuoco not­turno che si ritaglia nei domini dell'ombra. Quella che Nietzsche chiamava «l'orribile intimità della natura» è la naturale telluricità entro cui deve penetrare l'occhio del poeta; non v'è dubbio che a un siffatto imperativo nietzscheano Campana voglia obbedire.
Ma come: inerme o armato, e semmai di quali accorgimenti tattici, dovrà il poeta addentrarsi in tale missione? Qui il discorso torna alla dotazione naturale dell'autore dei Canti orfici, ai sensi di Campana, insomma; e alla sua cultura.

E su questo nodo ha lavorato, ininterrottamente, la lettura intra­presa nel quarto decennio del secolo: concorde sull'accettazione del libro, magari, senza pretender più discrimina­zioni interne all'opera fra istanti di “forma” conseguita e tempi “caotici”; magari decidendo con saggezza che la cosìddetta non-poesia rendeva qualcosa in funzione della cosìddetta poesia (in termini non esteriori di “genere lette­rario”: G. De Robertis, credo per primo, aveva indicato che non solo in altezza certi poemi in prosa superavano, nei Canti orfici, quelli versificati).

Se il libro è «quasi un uomo», vale il reciproco: e l'attenzione mira di nuovo alle fonti.
Si è ricordato in anticipo il 1937, coi due modi di analisi, di Contini e di Bo, che, palesemente nell'un caso e nell'altro, puntano proprio alla definizione di una individualità poetica in rapporto alla sua condizione culturale. Campana, secondo la premessa di Contini, polemica verso i «mistici idola­tri», «non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa»; e se «C'è un particolare che sembrerebbe stare a prova del carattere visionario di  Campana», ossia la «brevità delle notazioni», «esse consegue» di fatto «a quella particolare intensità e concentrazione dello spettacolo; il quale è un'effettiva rievoca­zione di viaggiatore... tutt'al contrario di quanto accade in Rimbaud, nelle llluminations prosastiche soprattut­to... ». Per Contini, l'evidenza della «sicurezza»della «plasticità dell'esecutore» spicca fino dall'esordio, in chiave di memoria, de La notte; sicché «la fase magico-balbettata» della sua poesia [formula poi assolutamente rifiutata e rimossa da Parronchi, per il quale «il discorso di Campana rimase nell'essenza profondamente articolato e continuo»; ma qui Contini si appoggia alla stessa pionieristica citazione di Boine, le «affannose “variazioni musicali”... di qualche parte di Genova »]... Per un tem­peramento oggettivo come quello di Campana... poteva valere positivamente solo in una sua forma di fiaba... ».

Contini non adduce nomi, neppure Carducci, a sostegno dell'attitudine visiva del suo Campana; semmai esclude la legittimità di troppo facili ascendenze. E su questo, su questa distanza da Rimbaud (come pure da quel Verlaine che Campana confessava essergli molto caro), non si verifica una divergenza all'interno della generazione dei lettori degli anni Trenta. Lo scarto, che sembrerà a lungo isolare il profilo fornito da Contini rispetto ad altro tipo di lettura, generalmente più accetto, lo scarto nasce ad esempio non appena Contini sostiene che «Lo sbaglio di Campana consiste... nel caricare d'oscurità indecifrabile il viaggio, ricavarne com'egli dice “figurazioni”: allora sul­la trama, nettamente spaziale in lui, dell'evocazione poetica prende il sopravvento, tendenzialmente temporale, la trama della lussuria, trasfigurata in inutili simboli» — il riferimento è ancora a La notte — (minor eco avrà, pur se discutibile e discussa, la caratterizzazione «pienamente crepuscolare» che dà Contini de L'invetriata, «per la sua piaga rossa languente e per altro»: veramente c'è, in quel testo, molto d'«altro» che spingerebbe in senso opposto, verso la lirica del presagio e quasi di un corre­lativo oggettivo, che sta idealmente proprio nella zona d'invenzione del decennio in cui s'inscrive lo studio continiano).

«S'intese», scriveva Contini avviandosi a concludere, «S'intese la libertà di Campana», nella generazione dei suoi coetanei che «soggiacque al suo fascino». Non s'inte­sero però «le leggi della sua lirica, ch'egli stesso non riuscì a formulare in uno stile»; ebbene alla critica nuova toccheràil compito di fare quello che Campana non seppe: «liberare l’uomo d’ordine che era in lui», in «Questo anarchico», in «questo “bohémien” ».
E’ in alternativa a una tale indicazione (probabilmente abbastanza equa per quel che concerne il fondo “d'ordine”: quello di Cam­pana, come giudicherà fra molti anni Parronchi, è «tutt'altro che un istinto di rivoluzione»; tra le ascendenze, vogliamo ricordarci, per affinità, dell'itinerario di Apollinaire? ) che s'imposta la cosìddetta qualificazione  “ermetica” di Campana. Del suo libro che séguita ad essere giustamente considerato nella sua specie di “libro unico”, anche dopo che Falqui e Matacotta avranno accresciuto i corpi contestuali di nuovi elementi; o dopo che altri, come Giuliano Innamorati, avranno dato notizia di varianti e abbozzi: preliminari, lettere, documenti varî che giovano a per­fezionare la figura di un poeta, di una poesia.
Troppo poco avventurosa parve in sostanza la linea continiana, in un àmbito che aveva ragioni fondate per elaborare e vi­vere una idea di creazione (in osmosi critico-lirica) come estrema avventura sospesa fra dizione e silenzio e che trovava nel tempo e nel clima politico (più che circostan­te, inviluppante i dati negativi, da doversi rovesciare nella proposta neoterica, sinceramente e avidamente sperimentata, di una «letteratura come vita», quale si esprimeva nell'omonimo discorso di Bo, appena l'anno dopo, il 1938.
D'accordo certamente sulla mancata finora definizione del­lo stile campaniano, la generazione dell'ermetismo ripren­de perciò in esame il tema della libertà di Campana, non li­mitandosi a un acquisto di quanto i testimoni diretti ne avevano scritto lungo gli anni Dieci. Accanto al Campana della «infrenabile notte» quale esce dalle pagine di Bo, corre l'obbligo di registrare, fra il '38 e il 39, almeno le prese di posizione di Luzi e di Ulivi, di Pratolini e del giovanissimo Jacobbi nelle quali traluce una solidarietà di fondo con l'impostazione di Bo.

A riconfrontare dopo trentacinque anni le due letture che polarizzarono lun­gamente il problema Campana, sembra di poter affermare che mentre quella di Contini si spiega entro il criterio — a lunga scadenza storiografico — di una ricogniaione per campioni eloquenti della nostra lirica dal '10 in là (Rebora, Campana, Cardarelli, Ungaretti, Montale: i ca­pitoli iniziali, poi, del volume Esercizi di lettura], l'interpretazione di Bo risulta di gran lunga più  “ideologica”, mossa com'è dalla necessità, provata da una larga sezione generazionale (benché Contini e Bo siano coetanei...), di motivare, attraverso l'identificazione di precedenti esemplari, la propria difficile poetica, la propria difficile ma indifferibile tensione a totalizzare la “condizione” lette­raria. Mette insomma conto di ripetere che risalire a Cam­pana significava, per Bo e i suoi sodali d'allora, rifarsi a interrogazioni esistenziali, primarie, da rivivere a uno stadio anteriore all'intromissione arbitraria della lima rondesca: così come rifarsi alla maggior prosa campaniana (La notte, La Verna, Pampa) voleva dire distin­guere tali modelli dal «capitolo», alle cui proporzioni fra l'altro certi isolati brani di prosa di Campana sembra­vano sbadatamente assimilati ante litteram nella ricor­data antologia di Papini e Pancrazi.

Quel che Bo cerca di individuare e di ripercorrere in Campana — anzi, dobbiamo dire: nel suo libro — è il percorso di un destino, che diventa, ai posteri, oggettivo quanto più si sprofonda nei vortici della pura soggetti­vità. Bo rievocava subito una domanda fondamentale po­stasi dal giovane Hugo nel 1834: «fino a che punto il canto appartiene alla voce, e la poesia al poeta?». Ebbe­ne, per Bo, il Baudelaire «au fond de l'inconnu», Rimbaud e la teoria surrealista sono altrettante conferme della vitalità di questa domanda, e di un problema che investe anche la personalità di Campana. Il raggio dei rimandi nominali si estende, nell'analisi di Bo, dal «Goethe orfi­co» a Nerval e agli altri sopra citati. Laddove per Con­tini l'errore di Campana cominciava quando egli, per così dire, si faceva schiavo delle generiche implicazioni dell'intitolazione imposta al libro, Bo punta su questo medesi­mo titolo (e, ovviamente, in particolar modo sull'aggetti­vo).

«E intanto», egli scrive, «il titolo stesso qualcosa poteva suggerire, qualcosa della figura spirituale del poeta: anche se nella peggiore delle ipotesi fosse stato scelto per abitudine letteraria, i limiti stessi della lettera offrivano una notizia irriducibile e di un significato preciso... Un carattere religioso appariva, e si badi ch'io insisto soprat­tutto sulla necessità originale d'una tale poesia, sulla natura assolutamente spontanea e primitiva (e nell'aggettivo si colga l'opposizione fatta all'altro di mistica, che in­volontariamente avrebbe potuto suscitare l'angolo aperto del “carattere religioso”) del poeta».
Un titolo che può certo apparire come «una lente d'ingrandimento giustifi­cato» di quel che il testo reca, poiché Bo non nega affatto la letterarietà campaniana; tuttavia, anche la scelta del sostantivo e canti», mentre concede qualcosa alla moda, «suppone un movimento attivo d'iniziata libertà». Si discuteva allora sul « Frontespizio » di un « ritorno al canto »; fra gli interventi, quello dell'artefice di una in­consueta qualità di canto: Betocchi.
Libertà che, mentre poteva sciogliere il dolore leopardiano, eccola «straordi­nariamente robusta» assoggettare Campana. È, in altre parole, il suo necessitante orfismo contesto di riti e miti liberatori, alla cui esperienza di celebrazione e consuma­zione, peraltro, il poeta-sacerdote, col libro a cui ha deciso di appartenere, non ha la libertà di sottrarsi. L'orfismo di Campana, che in partenza sembra associabile solo per nessi estrinseci alla tradizione orfica del simbolismo, si auten­tica e si realizza infine, spiccando nella zona novecentesca ch'è naturalmente sua, per intensità e dedizione esistenzia­le.
«Esternamente», dice Bo, «e cioè per i suoi modi espressivi e per la piega che da alle sue parole, va ac­canto a Nerval, a Rimbaud, insomma nella linea della poesia orfica: esternamente, ché in realtà fin dove scrive non pretende nulla di più, non sottintende una chiave e un altro vocabolario: [si ripensi invece al carico di «oscurità indecifrabile» deprecato da Contini] perciò non è catalogabile in questo senso se non per la forma, sennò il suo silenzio si è spinto fin qui, ha allagato tutto.

Ma l'accostamento sussiste se si scende a osservare il gra­do d'assoluto a cui è sottoposta questa poesia, lo sforzo inumano e tragico con cui ha una volta per sempre attac­cato le regioni del suo spirito. Si sente che deve arrivare a qualcosa, quel qualcosa che per lui è rimasto nel margine anticipato della sua pagina, che in lui tutto è teso a una definitiva liberazione ma si resta in questo sforzo estremo, in un movimento scentrato e spezzato senza legami... .La malattia ha tolto il tempo della sconfitta a Campana e quella necessità della sottomissione che Racine, Baudelaire, Nervai hanno sofferto; la condizione dello scacco eterno. In questo senso Campana appare non domo, an­cora senza leggi: sembrerebbe ancor oggi irraggiungibile se da tanto, dalla stagione dei Canti, non si fosse smarri­to netta sua “infrenabile notte”».

Di nuovo, quindi, in queste pagine che si bilanciano fra l’impulso a una “riparazione” tardiva e l’assunzione di una presenza, decisiva nell'indicazione che porge di una genesi e rigenerazione dell'uomo (quel che non avviene ne La notte, che è sul punto d'accadere ne La Verna, e in Pampa si, accade), di nuovo in queste pagine di Bo si fa sensibile la qualità del fictum iter rappresentato negli Orfici, la coincidenza, nella medesima costruzione oggettuale, di salvazione e condanna, l'abisso notturno inteso come totalità nell'uno e nell'altro senso — matrice e tom­ba —, sicché il canto della tenebra alleva la brace di una Conoscenza che il libro non può accogliere altro che co­me ipotesi assoluta.
E tanta vistosa contraddittorietà, di­scesa probabilmente per i rami di una cultura non angusta ma frettolosa, giovava adesso ad accreditare in re, nella fisicità propria del libro, quella natura contraddittoria della poesia (pronuncia, ripetiamolo, che ogni volta è una scommessa lanciata sull'orlo del silenzio, variante novecentesca dell'abisso di ieri) più presentita che dimostrata nella sperimentazione dell'ultima poesia italiana.

Al «luogo» geografico campaniano indicato da Contini («la re­gione emiliana dai contorni netti e dalle tinte sicuramente campite, Bologna e Faenza», dove «È facile osservare co­me la sua potenza di rappresentazione visuale si sfreni»), subentra così un «luogo» che è e non è, ponendosi come il nulla e come la pienezza, il vuoto e la miniera profonda dell'essere.

In effetti, l'articolo di Montale, apparso nel '42 — Falqui aveva ormai pubblicato tanto la nuova edizione dei Canti orfici quanto il volume degli Inediti — , dando cor­so alla formula della poesia campaniana come «poesia in fuga» — una formula poi ripresa volentieri e passiva­mente da troppi — quest'articolo veniva a situarsi su una linea esegetica diversa: la linea piuttosto (e la convergen­za è spiegabilissima) di Solmi, il quale in una nota sempre del '42 — altro anno capitale, col '28, nella fortuna cri­tica e finalmente filologica di Campana, mentre si realizza­va l'iniziativa, promossa da Bargellini per primo, di dare al poeta, nel decennale della morte, una degna sepoltura — faceva conto degli Inediti per restituire il poeta alla cosìddetta “aria del tempo”: «del quale egli fu ben fi­glio, come ogni vero poeta non può che essere, in carne e sangue, figlio del suo tempo».

Ora Solmi, in perfetta consonanza con Montale, che aveva parlato per gli Orfici di una poesia «che si disfa sempre sul punto di conclu­dere», raccomandando al lettore di «cogliere allo stato nascente la musica del poeta, viva un po' dovunque e so­prattutto» in certi arcani «abbozzi di mito» — , ora Solmi, varcando i per lui parziali limiti di quadro tentati sia da Gargiulo che da Contini, precisava che «L'altezza poetica di Campana s'afferma nel momento in cui la cristallinità della visione s'accende di quella sua trasparenza febbrile, in cui lo stesso colore si dilata e si intensifica, e la frase e la parola si sfanno in musica. In altre parole », soggiungeva Solmi accennando quasi una convergenza su posizioni “fiorentine” (per le quali, più che a Bo, bisogne­rebbe riferirci ormai ad alcuni spunti di metodo offerti dai primi saggi di Macrì), «Campana appare aver supe­rato lo stadio impressionistico e toscano [quello poi af­frontato con acume puntuale da Parronchi], il particolare “carduccianesimo” ch’egli stesso riconosceva inerente al suo fondamentale senso della forma, in quell'approfondi­mento della sensazione, di carattere “mistico”, che è proprio dell'esperienza decadentistica europea (intendendosi naturalmente, la parola decadentismo nel suo moderno significato storico) e che lo affratella; non solo nella leggenda, ai poètes maudits d'altre tradizioni ».

Fin qui, Solmi. E quanto alla tradizione novecentesca, non stupisce ch'essa si ravvisi in larga misura condizio­nata e nutrita dalla luminiscente notte di Campana, dalla fusione che per entro e attraverso il sogno orfico impos­sibile salda la solarità mediterranea coll'altro mito, quel­lo germanico-barbarico così asciuttamente puro e com­plesso a un tempo (nell'accoppiata mentale cara a Cam­pana, Nietzsche-Wagner); il naturale prodigio dell'eterno ritorno, per cui la civiltà della macchina riassume il re­spiro grandioso della «sanità delle prime cose» — tema recentemente ripreso da Bigongiari — e, rapportato al pol­so della città futuristica e nuova, è d'altronde un indice del sostrato irrazionale della ragione; e viceversa ad attestare come a nessuna irrazionalità manchi il soccorso di un filo provvidenziale — o di una logica trascendente il singolo — sta il fatto che Campana abbia condotto in porto il suo libro, nelle condizioni che sappiamo (e che ora la riscoperta e l'edizione scrupolosa curata da Dome­nico De Robertis del manoscritto consegnato a Papini e Soffici nel '13, II più lungo giorno, certifica con maggior evidenza che mai, seppure la distrazione dei lacerbiani non privò certo il poeta della possibilità di rifabbricare un libro sulle minute: quel libro, simile e diverso, che nel '14 si chiamerà Canti orfici).

Ancora nella lezione della dinamica oppositiva, colpisce e s'impone, di Cam­pana, la sua immaginazione di poeta che vive dentro e contro (cioè virtualmente prima ed oltre) il tempo fisico (il cosìddetto « tempo minore » su cui Bo insisteva).

Sa­rebbe ardito, per non dir peggio, credere a un'equiva­lenza piena tra giolittismo e fascismo, fra il tarato regime liberale, che Campana stesso ebbe a bollare in qualche suo appunto, e la dittatura dell’entre-deux-guerres a cui cor­risponde per la civile antitesi di una curiosità duttile e spregiudicata la stessa cultura letteraria che volle riconoscersi precorsa dal libro di Campana. Dal quale poté apprendere anche un altro essenziale argomento (che si col­loca, per ripetere un sintagma 1939 di Macrì, tra le «ra­gioni non formali della poesia»): vale a dire la sostanza culturale profonda di tutto quanto paia primario, natu­rale — si pensi al Leonardo «divino primitivo», che giustamente Bonifazi e Galimberti riconsegnano a Merežkovskij —; la cultura è un'origine, avanti di prospet­tarsi come etica e scopo che non potranno se non inve­rate una premessa che è natura. Così, i riferimenti con­tinui che, dalla metà degli anni Trenta, rinviano alla noche obscura e al no saber di San Juan de la Cruz (ieri già presente a Boine e, per affinità tematica, certo alle spalle del «mistico» e misterico libro dei Canti orfici) sembravano unificare in una prospettiva intemporale — in una ferma replica letteraria all'epoca sorda — il co­lore cupo della storia stessa e appunto la risposta nega­tiva che l'uomo libero le oppone: risposta tuttavia che può capovolgersi, secondo l'esempio di Campana, nel re­perimento della scintilla trattenuta in quella medesima notte e nella umana disponibilità a vederla, a coglierla. Si tratta — facendo salvi i naturali mutamenti che ren­dono irripetibile qualsiasi stagione o clima —, si tratta degli stessi movimenti virtuali e infine degli stessi espe­rimenti inventivi che caratterizzano, nel loro tempo, i discepoli confessi del “canto orfico”, fra i quali ci sarà chi, in un discorso appartenente già al nostro dopoguer­ra, farà precedere la citazione del testo de La chimera da queste parole: «E quando parve negata anche la possi­bilità di esprimersi, egli [Campana] ha creduto pura­mente suo compito di partecipare con gli uomini una su­perstite e desolata idea naturale della bellezza».
È Ma­rio Luzi a parlare in tali termini, postillando ancora: «Non pretendo che questo sia il luogo nel quale ci sia­mo meglio riconosciuti [che altro, si è detto, ha signifi­cato il poema in prosa, specialmente La notte, per la generazione di Luzi], ma certo in versi come questi abbiamo sentito confortato il bisogno di libertà e di movimento, l’aspirazione a una poesia che risultasse dagli elementi stessi della vita e del mondo interpretati libera­mente, e secondo quella fatale accidentalità che costitui­sce la nostra figura umana, quando non si voglia ridurla a una tesi, immobilizzarla in un'attitudine sia pure ideale».
A questo punto si era ormai di là dal cieco dilemma (attizzato per amor di patologia letteraria: ma biografie scrupolose come quella del Gerola aiutano a procedere oltre) che consiste nel chiedersi se la poesia sia condizio­ne alla follia o se, viceversa, lo stato di follia costituisca il terreno più favorevole all'espressione del poeta.
D'al­tronde al mito del folle si accompagnava quello, sottoli­neato primamente da G. De Robertis e da Boine, del povero (la povertà della stessa veste tipografica dell'edi­zione Ravagli aiutava!), sicché non era il caso di riesumare automaticamente canoni di lettura adoprati per Holderlin a suo tempo. Sempre più l'intrinseca energia del testo campaniano vinceva insomma la favola di certi suoi pretesi moventi; e contestualmente l'eros vi preva­leva sull'eroe, come la notte sul «poeta notturno» qua­le Campana si era definito ne La chimera, con professio­ne vagamente lucreziana.
Allora non possiamo che con­sentire con quanto scriverà Jacobbi, ricapitolando l'attua­lità di quest'autore e la forca irradiante dei Canti orfici, «primo libro» asserisce Jacobbi «completo della nostra esperienza poetica».
«Solo in Campana e con Campana la poesia prende il passo di quella compresenza della parola e dell'immagine reale, di quello sciogliersi di tutto l'uomo nel linguaggio, che è la suprema aspirazione dei moderni e che è stata poi provata e riprovata con alterne fortune nelle diverse formule della lirica pura, dell’ orfismo appunto, della prosa d'arte quando si staccò dall'im­pressionismo e dal saggio, e finalmente, con più coerenza, dell’ ermetismo.

Parabola soggetta a tutte le crisi storiche (e in questo dopoguerra ne ha attraversata una definitiva, con tutte le apparenze della morte) ma che rimane al centro dell’avventura del etico-estetica del nostro secolo.

Proprio sul piano della parola e dell'immagine or ora sfiorati, varrà la pena di portare un piccolo gruppo di esempi. Esempi, s'intenda, di quella prosa “notturna”, se così vogliamo chiamarla, e di quella lirica “chimerica” — per attenerci sempre alla nominale influenza di Cam­pana —, che si manifestano nella nostra letteratura, fra ermetismo e dintorni, dal '30 in avanti (ma non oltre il '43-45, direi). Certamente, assai prima qualcosa di orfi­camente campaniano si era rappreso nell'aria della nostra poesia. Basterà rifarci all'Ungaretti di Risvegli (1916): «Ogni mio momento | io l'ho vissuto |  un'altra volta | in un'epoca fonda | fuori di me»; oppure a una delle Leggende, Il Capitano (del '29), in cui il personaggio si sorprende «ad un rincorrere | Echi d'innanzi nascita»: per capire come il campaniano (e nietzscheano) «ricordo che non ricorda nulla» cominci a funzionare tempestivamente, nella fantasia di questo secolo, se non ancora secondo un ritmo continuato.

Lo stesso Solmi ha una Preghiera che per ardore sta fra Cardarelli, il nuovo Unga-retti e probabilmente Campana; del quale perfino Saba (scrivendo L'uomo, nel '28: la data dell'edizione Binazziè una mera coincidenza?) riadatta, ma, in apertura di strofa, una clausola dirimente de La notte: «Il tempo fu come sospeso».

Ma cercheremo con più frutto altrove: e piuttosto che soffermarci sulle «grida chimeriche negli atrî» (il Patio parmense, 1939, di Luzi) o sulla «invetriata di fiamma» (nel coevo Giro di vite di Bigongiari) oppure, di Parronchi, sugli «incensi» in segreto volo per le strade toccate dal passaggio di «lei per l'alta città trepida e lieve» —, meglio che a queste lampanti rimodulazioni liriche, sarà interessante accostarci a qualche esempio in prosa di quel­la stessa generazione. Come alle prose che in Isola di Gatto s'alternano ai versi, dove forse spontaneamente si contamina l'esempio campaniano con una diversa perso­nale mediterraneità, magari già innestata sul freschissimo tronco surrealista. «Notte dei fondaci marini, illuminata dalle lanterne; nell'umido della strada i carri pesanti sta­gnano al sonno delle vecchie guardie cadenti nel fuoco. Vita è questa avventura di uscire ubriachi nelle strade e ritrovare la città ben dura di silenzio, incatenata dal­l'inverno»; oppure: «La fronte [la fronte di Marlene, questa parziale reincarnazione di Manuelita], al sorgere dei capelli, si vuota in una pallida levità. | Nella strada oscura, Marlene, gelida ed intatta, avverte in tremiti il privilegio della sua gracilità e s'attenua a poco a poco, smemorata nelle lunghe giornate degli anni. Si sfiora e fi­gura davanti a se stessa, immobile, nel ricordo»; o an­cora, quest'equivalente di qualche scena bolognese dove più visivo ma anche «nevrastenico» era Campana; «So­no confuso, impacciato al boccale di schiuma. Nel chio­sco s'affila in spinta una bandiera e mi s'allarga in faccia. Mani grosse sulle mie spalle: vociarne e barrocciaio. | La piazza arde di vento nella folla gaia, mi vedo ilare, co­lorato».

C'era poi una prosa che riconvergeva sul lirismo chime­rico. Bigongiari l'attesta in una di quelle sue lettere o ca­pitoli dell'inedito romanzo Di Silvana a Miriam. Apria­mo questa del '39, nella quale gli spunti d'estrazione campaniana sono fitti e ossessivi, come lo è anche la tenuta febbrile della scrittura, coi suoi oggetti ricolmi di décor: « ...Una vena di lillà sale sul palazzo raffaellesco e spari­sce tortile in fumo, un'invetriata raggiante [la stessa!] declina gli sguardi come vi scivola la zampetta di corallo di un piccione [campaniano anche questo tocco], le pi­gne schiantano nel giardino un armistizio che durava a lei dalla nascita, alla fumea del sole sotto l'invetriata: allora Miriam, percorrerai l'occhio del tuo amico come un in­sulto? Così sui soffitti dorati [l'ambiente finale de La notte] il tempo sfuggito alla fortuna, stanziato dall'im­moto canale, replicava la sua sentina. Era quello l'alleato presso la bragera che illividiva le statue sulla balaustra, e da ultimo restava solo lo scoppiettio di una chitarra [La notte? Pampa?] sui vetri aranciati nella notte come un fatuo murmure di serpi. Tu ne eri più alta se una ciocca labirintica mischiava l'orecchio al cereo indulto di questa fine e il lobo colava come una lacrima di perdono. Quella notte confitta sul tuo singhiozzo che riodo, debbo ripe­terla a Miriam? I limoni sui vasi cozzano, nella notte smagliano in una luce di zolfo un caso chimerico». Natu­ralmente, siamo a Campana, ma anche oltre di lui, in queste preziose creazioni simboliche bigongiariane. Qui conta peraltro il rilievo delle consonanze, che sospingono tutte a un centro ideale campaniano, quello per cui l'oggetto è indizio luminescente che ci interroga e che noi interroghiamo.

L’indizio quale affiora nella prosa eponima de I visi di Parronchi, probabilmente del '38: «Qualcosa respira, poi tutto s'appanna sull'acque dove il rosa sbia­disce nel bianco livido e nelle più vaghe sfumature del verde, [precoce esercizio, si direbbe, del maturo studio sul “senso dei colori”] mentre sola dall'unico spalto sbrecciato che i tetti oscuri disegnano sul tramonto lo­goro e sontuoso, una fiaccola brilla, da una finestra deser­ta, che nessuna mano [il “Nessun Dio” di Pampa?] ha sospesa».

E se il centro è quello dei presagi, la loro ambiguità si conosce da ciò che svelano e dal molto che seguitano a celare. Il fondo orfico mantiene insomma la propria qua­lità di argomento virtuale di gnosi, custodendo ancora l'ineffabile. Come attesta quest'altra pagina schiettamente campaniana e “notturna”, l'ultima che citeremo, tratta dal punto pressappoco mediano della Biografia a Ebe di Luzi (la cui stesura si colloca sempre sul vertice del quarto decennio del secolo): «Una barca era ferma e il mare animato da un immobile fermento.


— Là — disse. Seguendo l'indice della mano [che non è quella di Dora Markus benché additi anch'essa una sorta di «patria vera»], soltanto la luce rimandata dal mare batteva nel cielo silenzioso. Nel profondo un'impercettibile piaga luminosa [un nuovo ricorso al motivo de L'invetriata] scalfiva la tenebra ancora immatura, dietro la testa appena ingrossata la casa umida svaniva. Le querci imbrunivano assorte in un cupo affanno e nell'aria l'odor dell'ozono saliva acremente [può equivalere come eccitante all'« odore pirico » de La notte”]. — La cometa — aggiunse. Come rientrammo in casa l'indugio di quella luce durissima sui rombi del pavimento deformava empiamente l'annottare consueto delle stanze e Maria stava genuflessa con la mano aggrappata allo spigolo della cassapanca. La porta di dietro stridette sui cardini e tendemmo l'orecchio per sentire se qualcuno entrasse. Gli anni poi si sono succeduti, nessuno è entrato allora e mai più. Forse dalla percossa silenziosa di un avvenimento rientrato poi nell'informe, dal clamore opaco di un gesto appena accennato e subito ritratto dal caso.