Spirali Edizioni, Milano, 1987 

 

 

Chi porta il falco deve tenere la mano in tal maniera e tanto ferma da portarlo dolcemente. Infatti se lo porta rigidamente o muove la mano, il falco si inquieterà e si agiterà per il cattivo portamento e gli si indeboliranno le cosce e le reni. E non solo si richiede che il falconiere sappia portare come conviene, ma anche che abbia esercizio e pratica e sappia fare tutto ciò che è utile al falco attraverso la scienza che avrà appreso da questo nostro libro, affinché in teoria ed in pratica sia esperto ed esercitato.

                                                                                                                                                       Federico II di Svevia

 

 

sparse le sue poesie intorno a sé con disprezzo

come tocchi di carne cruda.

 

                     J. Seifert

 

 


 

 

Dino Campana e la funzione dell'Anomalo

 

 

"Quando tornai a Marradi mi ridevano"

                                    (D. Campana) (*)

 

È trascorso mezzo secolo dalla sua morte ma lo scontento e infelice Dino Campana (1885-1932) — che, riportano le biografie, fu pessimo studente ("Io studiavo chimica per errore; non ci capivo nulla..."), bohémien vocazionale, girovago in Svizzera Francia Belgio Germania Russia e Sudamerica, venditore di stelle filanti, gaucho e portiere, carbonaio e minatore, fuochista e stalliere, suonatore di triangolo e d'organetto, saltimbanco e pompiere, disadattato permanente, ospite prima provvisorio e poi definitivo, (dal 1918 al 1° marzo 1932, giorno della sua morte) dell'istituzione manicomiale — ha concluso il suo "voyage au bout de la nuit" prendendosi perfino il lusso di precedere il quasi coetaneo Ungaretti (1888-1970) nell'inaugurare la storia della maggiore poesia italiana del Novecento, connotata dalla pietra miliare dei Canti orfici, precedenti di due anni l'ungarettiano Il porto sepolto (1916). Una storia, quella della poesia italiana del ventesimo secolo, dove Campana, questo vociano-lacerbiano irregolare il cui fascino romantico è disperso da conseguenziale e amaro patetismo, sembra essere rimasto estraneo come un'anomalia, coi furori e le "mirabili difformità" d'uno sconosciuto, maculato animale, magari troppo solitario e selvaggio, chiuso e neutralizzato in un serraglio domestico e rassicurante.

 

*Tutte le frasi di Campana citate nel presente capitolo sono tratte dal volume di C. Pariani Vite romanzate di Dino Campana scrittore e Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938. Le citazioni dei versi campaniani sono tratte dal volume Canti orfici e altri scritti (a cura di C. Bo e A. Bongiorno), Milano, Mondadori, 1972.

Un inquieto ibrido, Campana, di cui E. Cecchi, con una punta d'irrisolto dissidio psicologico, scrive: "Non so di che specie egli fosse; se superiore o inferiore alla comune nostra; certo è ch'era di altra specie"2. Un dissimile, il poeta di Marradi, sul quale occorrerebbe — riprendendo un'ipotesi sul ruolo dell'Outsider posta da G. Deleuze — "definire una funzione speciale, che non si confonde né con la salute né con la malattia: la funzione dell'Anomalo. L'Anomalo si trova sempre alla frontiera, sul margine di una banda o di una molteplicità; ne fa sì parte, ma la fa anche passare in un'altra molteplicità, la fa divenire, traccia una linea intermedia. Così è l’" outsider"3.

Al margine, anche perché all’"inizio", del movimento della grande letteratura del secolo, Campana è oggi luogo non solo referenziale ma privilegiatamente d'avvio della poesia italiana novecentesca ed è anche altro da questa; e la sua opera è una linea d'allaccio fra biografia e poesia, di fuga svariante fra epigonismo e progressione, fra un'identificazione dell'arte con la vita di conio romantico-maledettistico-scapigliato e un'attualità approssimata dal poeta nell'attraversamento d'una sorta di tunnel nullificante che solo un vero "anomalo" poteva percorrere pagando di persona e senza alcuna riserva, patendo irrisione, emarginazione, disprezzo e follia: diventando "tutto per gli altri e niente per se stesso".

Così Campana ripeterà allo psichiatra e protocollatore dei suoi discorsi di sconfitto, C. Pariani, che l'aveva in cura al manicomio di Castel Pulci (Badia a Settimo): "Ero una volta scrittore ma ho dovuto smettere per la mente indebolita. Non connetto le idee, non seguo... Ora bisogna mi occupi di affari più importanti".

Troppo facile o meramente agiografico sarebbe intanto ripetere il risaputo paragone con Rimbaud, che, prossimo al marradese come modello comportamentale, è certo ben lontano dall'ingenuità disarmata di Campana, il quale, più che a un Rimbaud risulterà vicino, lui furibondo promeneur e "vagabondo delle stelle" in cammino fatale verso lo scacco, a taluni riottosi personaggi di Jack London.

È quello di Campana, nietzschiano "uomo senza centro" vissuto per la forma e per l'espressione, il vagabondaggio di un poeta che, riposando nel sedimento del romanticismo ottocentesco ma già postromantico nei suoi risultati impressionistici, tenta di gettare un ponte fra due secoli la cui successione culturale verrà interrotta dalle guerre della prima metà del Novecento. Guerre dopo le quali non è stata più possibile in Italia una poesia come quella campaniana, germinata nella penombra decadente fra romanticismo e novecentismo, al calore delle grandi suggestioni simbolistiche e di quelle, più immediate, della metafisica mutuata da Schopenhauer Nietzsche Weininger. Questa poesia è stata poi esclusa, fino a oggi, dall'incalzare egemonico di scuole che, eleggendo alfine in Saba (questi, si sa, pregiudizialmente non riteneva Campana un poeta) il massimo modello della poesia novecentesca, hanno accantonato l'opera campaniana nel ciarpame con etichette carducciane. Tanto che oggi, in Italia, se si vuole ricercare un altro esempio di poesia-immagine totalmente orfica, visiva e al tempo stesso srealizzante, bisogna giungere non tanto — come è stato posto — agli Onofri Sinisgalli Gatto Parronchi quanto fino all'ultimo Zanzotto e, specialmente, al dimenticato Lorenzo Calogero, un altro poeta in sospetto di follia, "caso" letterario all'inizio degli anni sessanta, epoca della pubblicazione del primo volume delle sue poesie.

Simbolismo e metafisica concertati nell'orfismo — intendendo questo nel senso della mitizzazione della parola lirica, evocativa e misteriosofica, pressocché magica, oltre che del già riconosciuto gusto pittorico di Campana, scrittore non soltanto vociano ma anche probabile orecchiante del movimento artistico francese dell'Orfismo, sorto nel 1912 e caratterizzato dall'uso peculiare del colore a scapito della figuratività sono i contrassegni d'una poesia che in Campana è per lo più "in prosa". Questa è distinta, in generale, com'è stato più volte scritto e come, del resto, in vario modo, possono distinguersi i componimenti di tutti i poeti (pertanto diverrebbe oggi opportuno affrancare la libera scrittura di Campana, che — ha osservato G. Contini — rivela una "scarsissima apparecchiatura retorica"4 assieme a una ribollente, disordinata quanto straordinaria gamma di emozioni e suggestioni psicologico-culturali, dalla prigione di figure stilistico-retoriche insufficienti a esprimere, da sole, il movimento della poesia), dalla convergenza delle anomalie e antinomie logiche, semantiche e combinatorie, dall'onomatopea e dall'omoteleuto, dall'anafora e dall'epifora, dall'allitterazione e dall'anadiplosi, dall'ossimoro e dalla sinestesia, dal chiasmo e dal tropo, dall'iterazione e dalla ripetizione. Ma, più in particolare, la poesia di Campana si riconosce, nelle sue disposizioni impressionistiche ed espressionistiche, per la tensione trans-storica verso l'immagine assoluta e onnitestuale, distruttrice di significati e autosignificante, produttrice di "pensieri misteriosi" appoggiati al paesaggio e alla memoria ma sensibilizzati soltanto dall'oltrepassamento del reale, cioè dal metafisico. In tal senso, al pari dei soggetti, sempre esplicitamente polemici contro impressionismo e fauvisme, delle tele dechirichiane del periodo metafisico e anche "seicentesco", i Canti orfici, che compongono, in imprevedibili equilibri e in un patetico desiderio di bellezza, impressionismo, espressionismo e metafisica, sono un inno al mito poetico da parte del dilettante di liberate suggestioni estetiche e culturali, del puro poeta e anarchico individualista. Ciò senza esprimere necessariamente — come detta il sottotitolo (Die Tragödie des letzten Germanen in Italien) — la "tragedia degli ultimi Germani in Italia", ossia di alcuni intellettuali borghesi proletarizzati e piccolo-borghesi prefascisti, suggestionati dalle mitologie barbarico-teutoniche e guglielmine.

Dentro e fuori tali coordinate, i Canti orfici, prose liriche e versificazioni semantico-musicali, mimano la dialettica poetografica fra Viaggio e Notte, luoghi privilegiati della cartografia culturale dell'anima romantica intrigata col sogno e con l'esaltazione febbrile: ciò che mostrano il poema in tre parti La notte con le sette poesie della sezione I notturni, la prosa diaristica dedicata al pellegrinaggio attraverso la Verna, i dieci componimenti in poesia e in prosa (tra cui Viaggio a Montevideo e La giornata di un nevrastenico), la parte intitolata Varie e frammenti, composta di due frammenti e otto testi, compreso il bellissimo Genova.

Viaggiare nella notte e vegliare i propri sogni e spettri: tra questi due imperativi volontaristici (romantici), Campana prende a percorrere, come detta l'avvio, la notte sull'ala del sogno inquietato dalla memoria: "Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita...". La città è Faenza, sorvegliata alle sue porte dalla favolosa custode della prima giovinezza del poeta, la "torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani" battuto dalle prostitute, mentre nella campagna, fra la "rete dei canali", ragazze dalle "acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi".

"Odore pirico di sera di fiera", "girandole di fuoco", "gravezza rossa nell'aria", "visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa" sono le prime impressioni di viaggio riportate nei Canti orfici, che coi Versi sparsi, le poesie di Quaderno e i Taccuini, abbozzi e carte varie tessono una fitta trama impressionistica, dove le immagini si susseguono tassellandosi come in una teca, in intarsi lenti, laboriosi e ingenui. La notte, prima parola dell'opera del poeta, "la notte chiomata di muti canti" (fra le immagini e i temi metafisici che ritorneranno in De Chirico e Savinio) s'intreccia con la rossa città ardente sulla pianura, con un barbagliante canneto, con una nenia tenue ("afona"), con una torpida campagna, con "un tocco di campana argentino e dolce in lontananza", con una balenante "torre barbara", con una piazzetta desolata ed enigmatica, trascrizione delle "piazze" dechirichiane, con un'arida fontana, con una donna dalla risata "incosciente", con un vecchio dallo sguardo "assurdo lucente vuoto", con un'ombra ilare, con una matrona dal "profilo di montone", con una forma di donna "poggiata sui gomiti come una Sfinge" (echeggiante la baudelairiana La beauté: "Je trône dans l'azur comme un sphinx incompris") senza sorriso né lacrima, con una bianca tenda fatta di trine che ravvivano immagini tremule e candide; con la pettinatura "fumosa" di un'ostessa, con una "melodia selvaggia" che percorre incessantemente i Canti orfici, con un'ancella somigliante a un'icona bizantina, con chitarre dall'alito metallico, con "dolci spettri".

In La chimera, Giardino autunnale, La speranza, L'invetriata, Il canto della tenebra, La sera di fiera, La petite promenade du poète è l'impressionismo della "fronte fulgente" d'una fanciulla pallida, di "labbra sinuose", di un "volto notturno", dei firmamenti immobili, di una fanfara straziata, di fischi osceni e grotteschi...

La Verna poi è il diario, in undici parti, del viaggio nella notte inteso come percorso interiore, divenuto "sogno catastrofico" di nostalgia: dove il gusto visivo del poeta trova ulteriori occasioni e scenari sempre assai densi, con ampi sfondi e immagini dalla fresca maniera artigianale, sublimata a tratti nel cesello e nel ricciolo barocco. Frequente, quando il barocco campaniano s'imbarbarisce, l'accensione espressionistica ed esacerbata (cfr. Firenze e La giornata di un nevrastenico): ma ciò nell'ambito d'una dialettica sempre ricondotta all'impressionismo, specie nella gemmazione onomatopeica delle assonanze (cfr. Batte botte).

L'ultima parte dei Canti orfici, cioè Varie e frammenti, risulta il luogo più rilevante per la verifica del sostanziale frammentismo impressionistico del poeta, impegnato a intonare in una congerie di spezzoni e schegge il mondo e il proprio Io frantumati, a comporre in un mosaico tonale i torsi impressivi e i segmenti linguistici ricavati dal "dérèglement de tous les sens" (cfr. Rimbaud) condotto fino in fondo. Così in Genova, l'ultimo componimento dei Canti orfici, poema-scenario in sette quadri.

Le aggiunte ai Canti orfici presentano un cromatismo concentrato ora nell'effetto espressivo-espressionistico ("Amo le vecchie troie/ Gonfie lievitate di sperma/ Che cadono come rospi a quattro zampe sopra la coltrice rossa/ E aspettano e sbuffano e ansimano/ Flaccide come mantici", cfr. Notturno teppista; "Ho una lama lucente/ Che vince lo splendore dei vostri occhi,/ Che fredda vorace vuol spegnere/ Il suo splendore nella gola vostra", cfr. Spada barbarica; "Coi tuoi piccoli occhi bestiali/ Mi guardi e taci e aspetti e poi ti stringi/ E mi riguardi e taci. La tua carne/ Goffa e pesante dorme intorpidita", cfr. A una troia dagli occhi ferrigni; "O greca dal nero profilo/ O bocca rossa come una ferita/ O troia incommensurabile/ Ed amo le tue pose schife/ O triglia condita al ragù/ Di gelsomino biacca e baccalà,/ O romana delinquente ferina/ E te capra languida greca/ Dal profilo come bambagia./ E dall'occhio velato e pecorile!", cfr. Specie di serenata agra falsa e melodrammatica; "Due forme ho già viste aggirarsi/ Sotto la forca dell'impiccato/ Ed una geme e piange/ E l'altra bramisce e impreca", cfr. Le figlie dell'impiccato; "Stride la troia perversa al quadrivio/ [...]/ Saltella una cocotte cavalletta/ Da un marciapiede a un altro tutta verde/ E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram", cfr. O poesia poesia poesia; "Una parola-dinamite fetida/ Che immelmi lo scarlatto del vostro sangue porcino/ E vi stritoli la spina dorsale/ E moriate nel viscidume melmoso delle vostre midolla", cfr. Nella pampa giallastra il treno ardente; "E’ l’ora che il gatto rognoso/ Che il mare nemico spruzzò sulla spiaggia/ Guarda con occhi vuoti il nero giuoco delle onde", cfr. Il porto che si addorme, il porto il porto; "Essendo una carogna in decomposizione abbraccio l'universo. Guardate il mio cromatismo, i miei verdi e violetti [ ...]. A volte infilo una camicia rossa per spaventare i passeri", cfr. Biologia; "Nella chiesa del mio paese gli arcipreti cantano con voce di bue", cfr. Prospectus III), ora su impressionistiche, svelte dissolvenze o sembianze ("L'oro e l'azzurro dei tramonti decrepiti si è cambiato in verde", cfr. A Mario Novaro; "Le coscie bronzine s'imbiancano e gli occhi son madreperla", cfr. Convito romano-egizio; "I suoi capelli portavano l'odore dell'infinito", cfr. Ambiente per un dramma; "Ermafrodito baciò le sue labbra allo specchio/ In un quadro profondo/ Nerastro appare rosea, biaccosa la carne di lui sullo sfondo", cfr. Ermafrodito; "Nel grigio del mattino tra la nebbia/ Sull'acqua gialla d'un mare fluviale/ Appare la città grigia e velata", cfr. Buenos Aires; "Dell'alterna tua chiesa azzurra e bianca/ Là dove aurora fiammea s'affranca/ Da un arco eburneo, a magici confini/ Genova Genova Genova", cfr. O l'anima vivente delle cose; "Io me n'andavo nella sera ambigua/ Nell'alito salso umano/ Tra nimbi screziati sfuggenti", cfr. Pei vichi fondi tra il palpito rosso; "L'occhio più verde, il rosso che scivola/ Sul rosso marciapiede che si piega", cfr. Impietrata di sangue; "Dei fiori bianchi e rossi sono fioriti mentre l'acqua cola per conche verdi", cfr. Se penso a un tramonto...).

In faustiano dissidio, espressionismo ed impressionismo fanno scintillare, nella ribollente dispersione delle forme, una poesia molto elaborata, con aggettivazione sperimentale ad esito drammatico e allucinatorio, con un gioco semantico mosso dal processo incantatore o ipnotico dell'iterazione e della ripetizione: una poesia collocabile tra estetica vociana ("con" Sbarbaro e Rebora, ma non "fra" questi) e miti nordici e mediterranei (o dannunziani), spesso disintegrati e ricomposti nell'orfismo picaresco, liberati nella loro temperamentale, talvolta gioiosa misura. Avverte però il poeta-picaro: "Volavano uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza gioia".

Viaggiare è, per Campana, ripercorrere per orfiche vie "il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli"; è partire "battendo la tenebra" come "uccelli d'oro"; è farsi portare in sogno da un dechirichiano treno fiammeggiante nella notte, che romba indemoniato (cfr. Sogno di prigione). Viaggiare è anche ripetere il mito mediterraneo del "ritorno", mito della conoscenza che, dopo l'avventura dell'itinerario notturno, vuole guadagnare la certezza dell'essere: un essere sempre coincidente col nulla.

Così in Furibondo (in Quaderno), testo novecentesco di respiro europeo, pieno quanto Notturno teppista (in Versi sparsi) di echi futuristici e di convinta adesione a una poetica come moto conoscitivo dell'essere, resa convulsamente dalla disarticolazione sintattica dei versi liberi, rimati e assonanzati irregolarmente, e dagli endecasillabi sciolti che mimano il campaniano nomadismo; al particolare viaggio di Campana: "Poi cominciai a viaggiare... viaggiavo molto" — spiega a Pariani. "Ero spinto da una specie di mania di vagabondaggio. Una specie di instabilità mi spingeva a cambiare continuamente...".

Viaggio e fuga, la poesia di Campana è completata dal delirio del poeta rifugiato nel manicomio di Castel Pulci, dove, dichiarandosi "veramente" pazzo, spiega allo psichiatra Pariani come il cadavere di Lenin possa essere mantenuto intatto "con mezzi magnetici speciali, per mezzo della radiofonia". Con ciò profetizzando l'allora prossimo e oggi presente, assoluto, potere dei media nel nostro tempo: "Sono una stazione telegrafica", "Sono occupato in comunicazioni! [...]. È una forma di suggestione che esercito tra Continenti. La scrivo tutta io la stampa. Rappresento dei fatti impossibili. Io sono il soggetto guerra. Son io che faccio sposare le principesse, le principesse sono l'industria dei morti [...]. Sono in una trafila suggestiva, devo riflettere tutti i soggetti della stampa. Tutta la stampa è tutta scritta sul mio tema [...]. La mia vita è di parlare continuamente [...]. Faccio il pagliaccio del governo per mandarlo avanti. Io devo provocare il terremoto al Giappone per risolvere le questioni italiane, l'Italia è tutta in falso dalla prima all'ultima parola [...]. Se prendono un popolare o un socialista e lo mettono a capo del governo, provocano il terremoto, questo stato assurdo provoca il terremoto [...]. Si formano stati caotici che provocano terremoti ed il terremoto è una sepoltura dei morti, c'è qualche moto pittoresco qua e là per fare degli effetti"; "Non invecchio mai perché la suggestione la può anche ringiovanire cento duecento tremila anni di vita, qualunque età"; "Scrivo tutta la stampa dalla mattina alla sera, lavoro enormemente, presto ai giornali dei temi umoristici per scrivere fatti strampalati. Stampo dei quintali di carta tutti i giorni"; "Io non vivo. Vivo in stato di suggestione continua, sono ipnotico in alto grado, sono tutto pieno di correnti magnetiche [...]. Sto a seppellire i morti e bisogna che sfrutti i terremoti"; "Sento sempre delle voci"; "Sto benissimo qui a far ballare l'Italia in questo modo [...]. Con la macchina dell'introspezione posso rifare l'esistenza del soggetto stesso, inserire la vita di nuovo nel corpo suggestionato. Faccio sposare tutte le principesse d'Europa sotto falso nome; hanno dei figli fatti a macchina, figli che non hanno vita; si può suggestionarle, produrre la natalità artificiale perché sono quasi tutte sterili"; "Io ho sposato centinaia di donne per mezzo della suggestione"; "C'è il mezzo di ringiovanire, di rivivere; c'è la suggestione. La suggestione può influire sul carattere, può arrestare lo sviluppo del tempo"; "Sono indotto da una corrente suggestiva che mi propone continuamente dei soggetti di varietà. La mia vitalità è completamente estinta e viene mantenuta con suggestioni vitali [...]. La suggestione regna largamente in Italia e fa ottimi affari. Io sono un solitario e non mi piace ammetterla"; "Idee e pensieri mi vengono trasmessi".

Delirio, paradossalemetaforizzazione, sofisticamistificazione? In ogni caso, i seguaci di Marconi, suggestionatori e Signori dell'Effimero, non mancheranno di vendicarsi. Racconta Campana a Pariani (la sua logorrea diviene un candido, potente traslato poetico e non soltanto poetico): "Nel 1916 venne Marconi a Genova. Io ero sui monti e facevo delle poesie. Attrassi l'attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettica". È di conseguenza che, con Rimbaud e più terribilmente di questo, aggiunge: "Io stesso non so parlare né scrivere più, sono nel giro suggestivo".

Di qui la fine del "bambino culturale" ("Essi furono tutti coperti dal sangue del bambino": è il verso di Whitman in fondo ai Canti orfici), del "barbaro germanico", del poeta divenuto come dice Campana a Pariani, - "una figura di fantasia, uno che non muore mai". Nel frattempo, mai come in Campana schizofrenia e ipocondria, compagne selvagge della vita dei poeti, si erano fatte così crudeli e impassibili; così "astute": "Io faccio l'orso, lo strambo solo con quelli che non hanno gli elementi di sensibilità per cui ci si possa intendere"5.

Una biografia di Dino Campana assai ampia e attendibile anche se, ai fini d'una maggiore scorrevolezza, priva di indicazioni per verificare quanto in essa affermato viene proposta da Sebastiano Vassalli in La notte della cometa (Torino, Einaudi, 1984), titolo non improprio se si pensa che l'autore tenta di far coincidere una sua ipotesi di morte dell'arte con un momento inquietante dell'inizio del secolo, precisamente la notte fra il 18 e il 19 maggio del 1910 in cui s'annunciava la fine del mondo a causa del passaggio sulla terra della coda venefica della cometa di Halley. Così Campana, che secondo Vassalli è l'ultimo vero poeta della modernità, finisce anche per mutuare, nel nostro impoetico secolo pur inflazionato di poesie pitture musiche e molteplici attività artistiche, la cometa che ha bruciato nella sua coda gassosa ogni ulteriore possibilità dell'uomo d'appartenere alla poesia e alfine di essere, come lo fu Campana, tutto della poesia. Poeta e romanziere, Vassalli nell'occasione ha scritto una storia avvincente quanto un buon romanzo, aggiungendovi quella partecipazione affettiva che è quasi empatia, e quindi ha traslato una possibile autobiografia veritiera del poeta ove questi avesse potuto scriverla. Di alta qualità lettereraria, il testo vassalliano è strutturato in una sorta di alacre, fervorosa e fitta costruzione "a nido d'ape", a capitoletti o lasse ritmiche, a piani sfaccettati come quelli d'un trasparente minerale, a itinerari labirintici e stacchi documentali che rendono giustizia a molti episodi oscuri o "leggendari" della vita del poeta e sono vere e proprie stazioni d'inverno e riposo del "puro artista", luminose d'amaro miele. Così l'infelice e bistrattato Dino può, nel bel libro di Vassalli, trovare il suo più somigliante ritratto e, se possibile, finalmente riconoscersi un poco. Piuttosto precisa la tesi vassalliana: non c'è posto nella storia e nel mondo per quanti siano in contraddizione col cammino e le sorti, sempre magnifiche e progressive, della storia e del mondo: non c'è, per il puro artista, nessuna possibilità d'esistere nel proprio presente: per lui non vige presente che non sia di emarginazione, dileggio, persecuzione, sacrificio, morte e silenzio...

Com'era giusto, Vassalli prende a seguire la pista muovendo da Marradi, il paese natio di Campana, che vi conobbe solo sofferenza e dove finì per essere quel che si dice lo "scemo del paese". Qui, dove oggi non si trova più un solo documento riguardante il poeta, si bandisce da alcuni anni un premio letterario intitolato a Campana, tarda resipiscenza, forse, da parte di quel mondo culturale che, come già avevano fatto la famiglia del poeta e gli abitatori di Marradi, aveva trattato Dino al pari d'un appestato. Un mondo che, se riapparisse adesso un nuovo Campana, probabilmente riserverebbe a questi lo stesso trattamento subito dal primo dall'ambiente culturale del suo tempo (e ciò sia posto contro le illusioni e i falsi miti perseguiti dal malcostume premiocratico). Chi sono stati coloro che hanno di fatto impedito un riconoscimento del poeta, in quanto tale unico cigno dentro un serraglio di pappagalli? Vassalli si diverte a metterli in fila come disseccati coleotteri nella teca. Primi fra tutti la madre e il padre di Dino, che volevano a tutti i costi "sistemare" quel loro figlio scapestrato e "si quetarono soltanto quando lo seppero rinchiuso in manicomio per sempre"; lo zio Torquato che "gli compose l'epigrafe e gliela fece scrivere sotto dettatura"; Papini e Soffici sopra tutto, intellettuali alla moda; la "dannunziana Rina Faccio, Amorale anagrammata (Aleramo) in arte: che nell'estate del 1917, quando tutti i maschi italiani erano al fronte, faceva il conto dei mesi trascorsi 'in stato di santità' e ne incolpava Campana" (p. 8); il critico Bino Binazzi che pensò bene di "lanciare" Campana come Il Poeta Pazzo, tanto più poeta quanto più pazzo; lo psichiatra Pariani, individuo ambiguo e molesto che lungamente tormentò il poeta per carpirne le confidenze e trascriverle in un mediocre libro sul rapporto tra genio e follia; il critico cattolico Enrico Falqui che, piamente, non solo censurò le lettere di Campana ma le corresse pure; l'editore Attilio Vallecchi che purgò i Canti orfici di alcune parti considerate oscene; e poi altri. Ma tutti, ora — per riprendere la parte di un verso di Whitman citato dallo stesso Campana —, "coperti del sangue del fanciullo", ossia del puro poeta, questo appartenente "ad una specie diversa, 'primitiva', 'barbara', da sempre estinta oppure sempre in grado di rinascere come quella dell'araba fenice"; la specie dei poeti autentici, che non sono mai i letterati "ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri" (p. 9). E certo il concetto espresso da Vassalli è meno romantico e ben più realistico di quanto non appaia...

Attraverso infanzia e maturità, il poeta viene accompagnato dal suo biografo che ne analizza i rapporti coi genitori, dal precoce abbandono della madre che lo trascurò dopo la nascita del figlio secondogenito Manlio, all'abbandono del padre, uomo pusillanime e insicuro, probabilmente minato da nevropatia; dal periodo della scuola elementare a quello disordinato dell'università come studente di chimica; dai primi rapporti con l'istituzione manicomiale sollecitati dalla madre Fanny Luti che nelle frequenti liti col figlio grida d'avere partorito l'Anticristo, ai vagabondaggi e alle fughe che lo conducono in Europa e Sudamerica; dalle prime ubriacature di vino che lo portano anche in carcere e probabilmente ne pregiudicheranno una possibilità giovanile di carriera militare; dalla vita povera e felice come svagato studente di chimica a Firenze (che tuttavia per Campana rimarrà sempre — cita Vassalli — "focolaio di càncheri", calderone verminoso d'una "massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi", p. 64) all'esilio da una città troppo difficile e inospitale, al ritorno dopo alcuni anni recando i suoi Canti, scritti in pochi mesi e con grande felicità, a chi non lo considera che un mentecatto, un poveraccio, un "uomo dei boschi" (Carrà)...

In questa fase della sua vita, la miseria del poeta è inenarrabile. Egli “cammina scalzo per risparmiare le scarpe [...]. Dorme all'asilo notturno [...]. Tenta di offrirsi ai turisti per spiegargli Firenze nella loro lingua ma viene rifiutato a causa dell'aspetto [...l mangia alla ‘Società per il pane quotidiano’” (p. 160). Trattato con disprezzo da Papini e con disgustato sussiego da Soffici (il quale ha smarrito la copia unica del manoscritto dei Canti orfici e malgrado le insistenze pietose di Dino non si è mai degnato di cercarlo), ignorato da Prezzolini, volgarmente sfottuto dai futuristi di passaggio a Firenze (Carrà, Boccioni, Cangiullo, Marinetti), ormai allo stremo delle forze Campana torna a Marradi da dove, dopo un po', scrive a Papini tentando di riallacciare rapporti con un potere da cui capisce d'essere stato ormai bandito. Deciso fino al parossismo, malgrado Papini e Soffici, a pubblicare, Campana vi riesce dopo avere riscritto a memoria, in un disumano sforzo di concentrazione, i Canti orfici. Così stampa il libro grazie anche all'interessamento d'un tale cavalier Bandini che paga gran parte delle spese al tipografo Bruno Ravagli. I Canti escono dalla tipografia e Campana s'affretta a spedirli ai maggiori nomi della cultura italiana: Croce, Verga, Ojetti, Prezzolini, gli stessi Papini e Soffici.

Quest'ultimo, che pure ha il manoscritto originale chiuso da tempo in un armadio, legge i Canti per la prima volta e ne rimane colpito. Lo stesso Papini ne ricava grande sorpresa. Chi l'avrebbe mai detto che un figuro così, uno con le gambe ercoline e l'aspetto da carrettiere, uno con la “pidocchiera”…?! Quando un po' di luce sembrerebbe finalmente illuminare la buia e disperata esistenza del poeta, avviene il tracollo. La sifilide contratta anni prima prende a manifestare i suoi devastanti effetti nel fisico già provato di Dino. Cominciano le fissazioni sulle ingiustizie patite dall'ambiente letterario fiorentino. Scrive a Soffici ("Le scrivo perché mi mandi il famoso manoscritto che mai e poi mai le perdonerò di avermi sequestrato") e poi a Papini: "Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò". Successivamente, riacquistata un po' di salute, tenta di trovarsi un'occupazione e per questo chiede aiuto ad amici e conoscenti, ma senza esito. A E. Cecchi che gli scrive d'aver recensito i Canti su "La Tribuna" risponde se può magari aiutarlo a fargli vendere le centinaia di copie del libro rimastegli in deposito...

Il fatidico incontro con Sibilla Aleramo, quarantenne scrittrice con già all'attivo fra i suoi amanti — vuol ricordare Vassalli — "quasi tutta la letteratura italiana vivente, buona parte delle arti figurative, qualche rappresentante del teatro e un numero imprecisato di aviatori, cavallerizzi, rivoluzionari e banchieri" (p. 198), avviene il 3 agosto 1916. Il poeta ha trentun anni. Mai amore fu più devastante, avvelenato sempre dalla gelosia di Dino, che finirà per vedere in Sibilla l'"incarnazione dell'empia anima femminile" e accusarla "di averlo circuito con l'amore carnale per carpirgli quel "puro accento di poesia" che lui solo, in Italia, possiede; di voler prostituire "il puro spirito della poesia italiana" ai suoi amanti Papini, Prezzolini, Soffici, Cena, Marinetti, Boine, Bastianelli, Carrà... (p. 205).

La separazione fra i due si trascina per qualche anno, dopodiché Dino tornerà, e stavolta per sempre, in manicomio, dove, "tra un elettrochoc e l'altro" (p. 224), mentre Vallecchi ristampa un'edizione manipolata dei Canti orfici (1928), palesa evidenti segni di guarigione, tanto che i medici del manicomio di Castel Pulci cominciano a credere di poterlo dimettere entro il 1932. Senonché, alla fine di febbraio di quell'anno, il poeta s'ammala e muore. La malattia e la morte del poeta rimangono misteriose quanto lo fu la sua vita...

Ecco, in breve, la parabola biografica d'un uomo del quale, nell'opera di Vassalli, è stato probabilmente scritto tutto ciò che era possibile sapere ancora. D'altra parte è anche ovvio che tale biografia è solo la punta dell'iceberg. A noi, suoi contemporanei distanziati, Campana continua a nascondere qualcosa: forse il "senso" della sua follia. Una follia che è anche esilio dal proprio tempo, inappartenenza a un mondo culturale che venerava i Papini e i Prezzolini e nemmeno lontanamente prevedeva nei suoi ranghi l'esistenza di uno come Campana. Oggi è invece Dino Campana che col suo dramma d'inadattabile e inappartenente fa baluginare di un'ultima luce riflessa quelle due stelle spente della cultura fiorentina, due potenti che per l'infelice marradese avrebbero potuto fare molto e non fecero assolutamente niente, anzi. Oggi Dino ne prolunga una memoria altrimenti pressoché obsoleta...

In conclusione, chi fu Dino Campana? Un poeta radicale vittima delle proprie radici e uno che al centro della cultura aveva posto esclusivamente la scrittura di poesia: perciò un outsider rispetto al dominio culturale, e per questo, quindi, nient'altro che un clown o un pazzo. Rompere col proprio tempo fu il minimo ch'egli poté fare: pagarne al massimo prezzo lo scotto fu la normale conseguenza.


 

note

 

1 Titolo del famoso romanzo di L. F. Céline — altro autore "nomade" e "outsider", scriba del Viaggio e della Notte —, uscito lo stesso anno della morte di Campana. 

2 "L'Approdo", gennaio-marzo 1952. Poi in Letteratura italiana del Novecento (a cura di P. Citati), Milano Mondadori, 1972, p. 727.

3 G. Deleuze-C. Parnet, Conversazioni (1977), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1980, p. 51.

4 Letteratura dell'Italia unita. 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 713.

5 Lettera (1915) di Campana a M. Novaro, cfr. C. Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana (a cura di C. Ortesta), Milano, Guanda, 1978, p. 129.