STILE E SPIRITO DELLA POESIA DI DINO CAMPANA

 

di Aida Mastrangelo

Washington, D. C.

The Catholic University of America

 

Da: ITALICA

VOLUME XXVIII NUMBER 4

THE QUARTERLY BULLETIN OF THE

AMERICAN ASSOCIATION OF TEACHERS OF ITALIAN

DECEMBER 1951

 

Si torna a parlare dell’opera di un poeta che non si decide a farsi dimenticare. I dati più rilevanti della tragica vita di Dino Campana sono apparsi in un articolo di questa rivista l’anno scorso. Ora si vuole indagare i modi stilistici della sua opera e scrutare nei recessi dell’anima il quid del suo mondo spirituale. Il titolo stesso del suo unico volume di poesie ‘Canti Orfici’ suggerisce qualcosa della figura spirituale del poeta. Vi appare un carattere religioso che fa pensare ad Orfeo, ai misteri orfici, ad una potenza dionisiaca, ai miti cosmici. Vi si avverte la necessità originale di una tale poesia e la natura assolutamente spontanea e primitiva del poeta. Il termine Canti suppone un movimento attivo di iniziata liberta, la ricerca d’un’armonia definitiva e perfetta. L’altezza del titolo spiega benissimo l’assoluta necessità della parola in lui, una parola estremamente trasformatrice e mai definita: la parola inquieta di Campana obbligata sempre a uno stato migliore di metamorfosi e riferita sensibilmente all’essenza, allo spirito realmente suo.

Quest’essenza la spiega lui stesso: ‘‘la mia vita era tutta ‘un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso.’ Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero’’ (C. 21). Proprio a questo senso di stupore, di mistero, di lontananza del tempo, di favola mira costantemente Campana, e nei primi frammenti e impressioni è la sua più palese ambizione. Subito all’inizio dei Canti Orfici la prima prosa ‘‘La Notte’’ colpisce pel senso vasto, la immobilita delle figurazioni: il ricordo è trasformato in una favola, diventa mito:

 

Ricordo una vecchia citta, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona, e irritante: e del tempo fu sospeso il corso (C. 11).

 

Intorno a questi oggetti isolati, si forma un’aura di stupore, quasi di mistero. Però qui il tono scade e subentra la maniera.

Tuttavia si può sentirvi una grande nobiltà di forme, l’impeto dell’anima, |’intensità visiva, una vigorosa forza anche attraverso l’involucro letterario.

Nell’assunzione totale del dato biografico in questa atmosfera statica, alla quale egli giunge pili tardi, si può parlare di un classicismo di Campana, ma nella misura in cui è classico qualunque poeta che trasformi nella espressione la contingenza del proprio sentire. Allora la parola di Campana appare grave del carico di tutta la sua storia, dando una compattezza e densità alla pagina da obbligare a una lentissima lettura.

Questi sono eventi felici a cui giunge nell’evoluzione della sua arte poetica. Però in principio la ‘‘mitizzazione’’ a cui tende è assai pili spesso voglia e ambizione che necessita poetica. Nelle prime pagine dunque |’intento di fermare le immagini nella intemporalità del mito forza in modo ingrato il discorso poetico e tradisce il dato grezzo dietro la sovrapposizione trasfiguratrice. Di fatto nei primi tentativi non c’è trasfigurazione, ma solo immersione del dato biografico nella nebulosità ove si scambia pseudo-poesia per poesia. Certe volte il poeta sembra recitare sé stesso su un tono alto. La suggestione poetica quando non riesce a crearsi naturalmente nel giro del periodo viene enunciata direttamente e con una insistenza e una perentorietà che rivelano |’impotenza espressiva.

In questi casi la suggestione poetica invece di sorgere spontanea viene violentemente imposta, con l’uso di un linguaggio solenne, di movenze ieratiche, imperniato su dei termini e un’aggettivazione che costituivano il modulo letterario dell’epoca. Ricorrono frequenti le parole, “mito,” “mistico,” “mitica,” “magia,” “misterioso,” “mistero,” “l’eterna Chimera,” “le sfingi”: termini che hanno il potere di richiamare automaticamente |’atmosfera che lo scrittore richiede come negli esempi che seguono:

 

Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che domi- nava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente (C. 11).

Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza (C. 12).

La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso (C. 15).

Tutto era mistero per la mia fede... (C. 21).

L’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore (C. 26).

O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilita bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle Sfingi (C. 64).

 

Nello sforzo di raggiungere la trasfigurazione completa, quella sua febbre, quell’anelito infrenabile che è proprio di Campana, si manifesta nell’uso dell’aggettivo per esprimere il grande e il deforme. Gia nelle prime pagine e poi a intervalli costanti incontriamo: “enorme,” “solenne’’ “barbarico,” “primordiale,” “grottesco,” “catastrofico,” “colossale,” “bizzarro,” “mostruoso” :

 

Le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo (C. 55).

Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos (C. 60).

A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento (C. 25).

La montagna riprese il suo sogno catastrofico (C. 51).


Quando si sente venir meno la possibilità dell’espressione diretta e personale ci si sostiene con il richiamo all’opera d’arte, già espressione poetica di una storia e di un mondo. Ricorrono frequenti richiami a Leonardo da Vinci:


(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!) (C. 52).
O giovine suora della Gioconda (C. 33).
Le chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi (C. 21).

 

al Ghirlandaio:

 

Figura del Ghirlandaio: ultima figlia della poesia toscana che fu (C. 61).

 

a Michelangelo:

 

Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle (C. 56).

 

a Dante:

 

le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante (C. 56).

 

Delle volte si serve di certi particolari un poco estetizzanti, un poco manierati:


conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina... (C. 63);
fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia, (C. 12);

coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale (C. 14);

le bolognesi somigliavano allora a medaglie ... (C. 20);

dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’i- cone bizantina, come un mito arabesco ... (C. 23);

 

Qui si entra anche nei confini dannunziani. Dove non bastano le forze, |’ansia e la furia che sono alla radice del genio campaniano, si sfogano in ripetizioni, or felici ora infelici, a volte ossessionanti e mescolate come nei brani che seguono:

 

E sopra di lei, sulla matrona pensierosa negli occhi una tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle immagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei, pensierosa negli occhi giovani (C. 19).

Su queste ripetizioni nasce una mossa di ritmo; puri valori fonici:

Il] tempo è scorso, si è addensato, è scorso: cosi come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: (C. 64);

E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate (C. 157).

 

Quasi a tentare i suoni, donde poi veri e propri versi: De l’alba non ombre nei puri silenzii

 

De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre (C.69)

 

Sorgenti, sorgenti abbiam da ascoltare, Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare ... (C. 40)

Ondulava sul passo verginale
Ondulava la chioma musicale
Nello splendore del tiepido sole
Ondulava sul passo verginale
Crespa e nera la chioma musicale
Eran tre vergini e una grazia sola
E sei piedini in marcia militare (C. 23)

 

Quest ’ultimi sono versi toccati davvero dalla grazia, ove la materia è fatta senza più peso, consumata totalmente nella musiealita. E con le ripetizioni si producono anche le progressioni di quel suo comporre spazioso in prosa:

 

Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo mistero! Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribii indiane? Od era la morte? Od era la vita? (C. 125).

 

Alle volte le ripetizioni ribadiscono gli ossessivi colori:


Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca (C. 109)

 

Altre volte esse reggono l’onda del canto fino al delirio:

 

O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi (C. 22).

Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula sali: ... (C. 165)

 

Ora vediamo chi erano i suoi primi maestri. ‘‘Carducci mi piace molto; Pascoli, D’Annunzio.” Del Carducci ha l’icasticità, la freschezza impetuosa di accenti, il rapimento. Come Carducci, il suo spirito italico canta le bellezze italiche non appena il suo occhio si intrattiene su qualche cosa che viva d’antica storia: le piazze delle vecchie citta, i castelli turriti, i porti delle preziose repubbliche o la fresca Italia paesana, tra colli e pianure, corse dal ritmo perenne dei fiumi. Ogni suo canto è pieno di mito, la cui poesia è quasi un inno di gratitudine dell’universo perché ha posto |’uomo in un mondo cosi bello e cosi armonioso:

 

Genova: Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre già l’ombra dei lampioni verdi ne l’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? (C. 153).

 

Le Alpi:

 

Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le biance cattedrali levarsi congerie enormi di fede e di sogno colle mille punte nei cielo, vidi le Alpi levarsi ancora pit grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno (C. 21).

 

Bologna:

 

La vecchia città dotta e sacerdotale era avvolta di nebbie nel pomeriggio di dicembre. . . Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio (C. 113).

 

Firenze:

 

Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile (C. 93).

 

La Falterona:

 

La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana (C. 51).

 

Influenze dannunziane sono le inclinazioni all’estetismo, il potere di rievocazione, l’intensità musicale. Quando egli evoca miti o figure dell’arte in funzione mitica, accade di pensare all’estetismo superumano del D’Annunzio:


Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come in sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore (C. 26).

La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce (C. 61).

Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia cola un filo d’acqua in un incavo. II] vento allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con

occhi d’oro... L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinita delle morti! ... Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: cosi come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra (C. 63).

 

Del Pascoli ha le ripetizioni, le oziosità musicali:

 

Le vele le vele le vele

Che schioccano e frustano al vento

Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele


Che tesson e tesson: lamento

Volubil che l’onda che ammorza

Ne l’onda volubile smorza
Ne l’ultimo schianto crudele
Le vele le vele le vele (C. 119)

Intendi chi ancora ti culla
Intendi la dolce fanciulla
Che dice all’orecchio: Più Più (C. 40)

Il cuore stasera mi disse: non sai? (C. 42)


Il suo temperamento lirico ha qualche affinità con quello di Baudelaire, di Verlaine e di Rimbaud, raffinati evocatori di squisiti simboli e sensazioni, scopritori di nuove attinenze fra le cose, sovvertitori della sintassi ad esprimere caldi affetti e vivide immagini, imitando la musica e la pittura. Come Rimbaud, egli abolisce in qualche composizione tempo e spazio basandosi su di una contemporaneità suggerita dall’immagine (si veda ‘Arabesco- Olimpia’’ C. 12). Egli è fedele al suo gusto carducciano, a un  Carducci colto nei suoi umori più scattanti, ricercato poi, frugato con altro occhio, quello visionario di Rimbaud. Subite le prime influenze, se ne libera. Per via d’eliminazioni, egli giunge alla sostanza, all’essenza, alla purità. Il suo destino doloroso non gli permise di lasciare un messaggio. I momenti migliori di Campana vengono attraverso la realta non attraverso la letteratura. Egli non tende all’astratto né vuol creare ‘‘con mani modellatrici d’inesistente.’’ Non è un puro analogista né un metafisico. Ha piuttosto dell’aedo. Egli mira al canto aperto e spiegato, al colorito canto italico, con impegno di vita ed uno sforzo veramente sovrumani. La vera grandezza di Campana raggiunge una obbiettività e serenità che spalancano compatte e immacolate chiarezze, non soltanto nei frammenti di prosa descrittiva, già citata, ma anche nei versi delle sue poche poesie. Ecco ad esempio una perfetta quartina:

 

‘‘Firenze: Uffizi’’:

Azzurro l’arco dell’intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell’azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne. (C. 85)

 

E la calda classicità italiana delle ‘‘Immagini del Viaggio e della Montagna’’:


Pare la donna che siede pallida giovane ancora

Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:

Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte degli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.

E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.

Da selve oscure il torrente

Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce

Lambe ed involge aereo cilestrino .
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino (C. 69)


Note

 

1 Italica, XXVII, 1950, 321-26.

2 Dino Campana: Canti Orfici con note a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze, 1942.

3 L’iniziale C. indica l’opera già citata ed i numeri si riferiscono alle pagine.

4 L’iniziale I. si riferisce agli Jnediti Raccolti a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze, 1942.

5 Carlo Pariani: Vite non Romanzate di Dino Campana Scrittore e di Evaristo Boncinelli Scultore. Vallecchi, Firenze, 1938. p. 56.