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La notte di Dino Campana

di Carlo Bo

 

Pubblicato su "Resine",

numero doppio n. 58-59,

Marco Sabatelli Editore, Savona, 1994

 

Dagli Atti del Convegno di studi svoltosi a Genova e a La Spezia dal 11 al 13 Giugno 1992.
 
C'è nella storia della poesia italiana del Novecento un caso che prima ha stupito e disorientato e poi generato una serie di equivoci: è il caso di Dino Campana. I motivi maggiori di questo difficile approccio vanno ricercati soprattutto nella leggenda che fin da principio ha accompagnato l'opera di questo poeta. Campana era per natura un irregolare, uno che difficilmente trovava una sua vera identificazione e che nella vita quotidiana non riuscì mai a prospettarsi una sistemazione appena soddisfacente. All'origine c'è la malattia che ha avvelenato la sua esistenza, una malattia che era già della sua famiglia e che allora aveva un solo nome, la follia.
 
Nato in una famiglia della piccola borghesia, a Marradi, il 20 agosto 1885, Campana neppure nella stagione degli studi riuscì a trovare un ordine interiore. Arrivato all'università dopo aver conosciuto il collegio a Faenza, Cam­pana si iscrive alla facoltà di chimica ma non porterà mai a termine la sua carriera. In realtà il suo unico punto di riferimento era la poesia e alla passione poetica ha poi dedicato e sacrificato la tormentata serie delle sue giornate, tra disperazione ed esaltazione.
La follia, la vita inquieta e vagabonda, il disordine dell'esistenza sono quindi alla base della sua leggenda. Una leggenda da poeta maledetto che doveva servire soprattutto ai suoi lettori, meglio, ai suoi spettatori, se si accetta la comoda ipotesi dello spettacolo e del progressivo aumento delle sue piccole rappresentazioni in pubblico. Alludo a una delle immagini più abusate, quella del poeta che cerca di vendere il suo libro, Canti orfici (1914), nei caffè fiorentini ma scegliendo i compratori più degni a suo giudizio e poi togliendo le pagine che, sempre a suo giudizio, non avrebbero potuto comprendere.
A questa immagine va unita subito dopo quella del vagabondo, del poeta che parte per l'avventura e fa dei viaggi lontani, sempre in cerca di ciò che la sua anima non gli avrebbe permesso di avere.
 
Terza immagine: lo scrittore fuori della tribù, il poeta che viene accolto con sufficienza, quando con grande disagio, dagli scrittori di professione. Memorabile il suo soggiorno fiorentino: Campana aveva creduto con l'entusiasmo della gioventù di trovare se non dei complici, almeno dei compagni attenti nei frequentatori dei famosi caffè fiorentini, ma il successo non venne e forse non ci fu neppure una accoglienza affettuosa che pure rientrava nei suoi sogni. Ebbe delle promesse e soltanto queste.
Un manoscritto (Il più lungo giorno) affidato a Soffici, che era allora uno dei lumi della nuova letteratura venne smarrito e Campana dovette ricostruire quello che sarebbe poi diventato un suo libro, quei Canti orfici che un amico del suo paese, Ravagli, gli pubblicò dopo grande insistenza e sembra anche minacce. Naturalmente gli spiriti più provveduti si accorsero della novità di questa poesia. De Robertis, Giovanni Boine ed Emilio Cecchi fanno parte di questo piccolo gruppo di estimatori. Comunque, la sua fama non superò un cerchio ristretto di lettori e molti anni dopo nel negozio di un cartolaio di Marradi si potevano recuperare molti esemplari intonsi del libro.
 
Si potrebbe dire che perfino la data di pubblicazione, il 1914, non gli sia stata favorevole. Il vecchio mondo stava per crollare, la stessa letteratura d'avanguardia stava per subire il grave affronto del tempo, insomma il libro è apparso in un momento di confusione e di distruzione. E, altro elemento di grande importanza, la sua verità contrastava con la ragione media della poesia che allora andava di moda. Questo risultato ebbe un'influenza negativa sullo stato d'animo di Campana che, a quattro anni di distanza, verrà ricoverato nel manicomio di Firenze, Castel Pulci.
Nella sua storia entrano allora gli anni della dolorosa segregazione e del silenzio. Infatti Campana morirà in manicomio quattordici anni dopo, nel 1932. Un medico che si piccava di letteratura, Pariani, cercò di riportare Cam­pana se non nel dominio della poesia, almeno nei territori della memoria, senza però ricavarne molto. Campana ricordava del poeta che era stato le disavventure fiorentine e la fragilità della sua voce. In quel lungo tempo di sonno e di rari sogni, il suo vero mondo sembrava essersi dissolto.
 
Anche questo contribuì ad arricchire la leggenda, epperò a un certo punto si è creduto opportuno avvicinare il suo destino a quello di Rimbaud. In realtà c'era solo un punto di contatto, il bisogno di fuggire, l'idea del viaggio, l'abbandono del mondo civile; ma i modi del distacco, a guardare bene, sono molto diversi. Rimbaud abbandona la letteratura e se ne va in Africa a fare dei mestieri poco puliti, come il commercio delle armi; Campana nell'arco dei suoi viaggi trova alla fine soltanto il naufragio della follia.
 
Rim­baud aveva fatto una scelta, Campana è una vittima. Ma una vittima che non ha mai dato, come ha fatto Rimbaud, un addio alla poesia e alla letteratura. Il francese è, da un certo punto di vista, un disertore, Campana è un soldato che muore sul campo di battaglia. Rimbaud opta per la vita così com'è, Cam­pana fino a quando non entra a Castel Pulci continua a battersi e per la poesia e contro una vita che non aveva avuto mai nulla da offrirgli in termini di tranquillità e di pacificazione. Perfino la strada dell'amore (l'incontro con Sibilla Aleramo) si trasformerà in un'ennesima, o meglio, nell'eterna sconfitta.
 
Ma il destino così doloroso di Dino Campana risponde precisamente, e in maniera unica tra di noi, a un problema sollevato dal giovane Hugo, verso il 1834. La domanda di questo quasi sconosciuto Hugo era: «jusqu'à quel point le chant appartient à la voix, et la poesie au poète?». Domanda di un'inesauribile novità e contro cui nulla hanno potuto le innumerevoli esperienze poe­tiche in più di un secolo, anzi direi che rimane confermata dalle maggiori audacie degli esempi più osati: l'autorizzano Baudelaire au fond de l'inconnu, Rimbaud e la teoria dei surrealisti. Noi sappiamo i nomi che mancano; quello di Dino Campana va fatto senza timore.
 
Come succede tutte le volte in cui una immagine superiore o appena maggiore è impegnata, si è scivolato sul centro del segreto per accontentarsi dei rilievi esteriori della figura, per limitarsi ad esagerare al posto d'indizi, di no­tizie quelle che in realtà non sono che delle conseguenze, dei movimenti riflessi e ormai senza vita. Così nel caso di Campana anche i più fortunati, e quei critici più attenti alle misure del proprio lavoro, non sono riusciti a trascurare del tutto i suggerimenti dell'avventura terrena del poeta, non si sono liberati dalla memoria minore delle stagioni e insomma da quell'aria di leggenda o anche di storia che costituisce il peggior impedimento alla sicura conoscenza.
 
Ora nel caso particolare di Campana più che altrove bisognava tener conto delle allusioni, dell'algebra in soluzione dei fatti e delle parole in un unico discorso, lungo faticoso e interrotto. E solo all'angolo di quest'ultimo aggettivo era giusto parlare di una conseguenza, che è stata la parte più crudele della sua vita e quella naturalmente che ha conquistato tutta la luce disponibile. Anche qui avrebbe giovato di più tenersi al testo e abolire la suggestione dello spettacolo: infatti al punto della sua frase e al punto che manca al suo intero discorso avremmo riconosciuto — lo stesso, se non meglio — il suo volto, quel Campana che ha impressionato le nostre memorie.
 
Campana si stende come un esempio alla timida — ma finora non abbiamo ancora misurato del tutto la forza della sua verità — domanda del nuovo Hugo. In lui memoria e presenza, il poeta e l'uomo, sono schiavi di un messaggio, di una poesia. Sembra, la sua vita, un improvviso e illogico moto di fiamma mentre a ben guardare appare come la più puntuale delle obbedienze, un'obbedienza indiretta, subita e infine costretta nel sangue: ma anche qui, nel giorno più desolato e condannato, si coglie il peso d'un mistero, la presenza aperta d'una voce che conosce una vittima e un iniziato nello stesso tempo.
 
In simili esempi vita e parola si corrispondono precisamente, si compenetrano e nei momenti più felici della loro aderenza non si riesce a distinguere nettamente una supremazia di valori e neppure le azioni separate. Gerard de Nerval e Dino Campana rispondono a questa totale condizione di vita e in tutt'e due la follia — se pure diversa — ha costituito un inciampo a sorprendere il senso della loro presenza e a calcolarne — d'accordo, là fin dove ci è possibile — la rete segreta dei rapporti. Le leggende del fol délicieux e del fauno non sono servite che a intorbidare le acque, e cioè a trasportare le operazioni sempre in altra sede, a confondere l'intervento delle notizie e dei documenti.
 
Ora la misura della follia può essere valida, e se sì, da che momento? Domande di cui tutti vedono l'estrema importanza. E forse il non tenerne conto è il modo più onesto di dar loro tutto il loro posto, d'accettare tutti i suggerimenti. Se non è concesso in tale grande e quasi ignorata famiglia di poeti far una questione di vita e di libro, se sappiamo di doverci tenere alla frase distesa e completa, finché è reperibile, della sua musica, uno studio attento e diretto nell'interno della lettera ci darà chiaro l'equivalente delle notizie, quel rapporto umano che non si può restituire con gli elementi esteriori d'una storia, ormai vuota e prima fatale, irriconoscibile. La storia letteraria ha servito e ben poco nel caso di Nerval: e qui non è stata meno attiva che altrove. Non so dove ci potrebbe portare per Campana.
 
E intanto il titolo di Canti orfici qualcosa ci può suggerire, qualcosa della figura spirituale del poeta: anche se nella peggiore delle ipotesi fosse stato scelto per abitudine letteraria, i limiti stessi della lettera offrivano una notizia irriducibile e di un significato preciso. Sarebbe bastato l'aiuto della prima memoria, della storia delle letterature e magari del semplice Tommaseo. Un carattere religioso appariva, e si badi che si insiste soprattutto sulla necessità originale d'una tale poesia, sulla natura assolutamente spontanea e primitiva (e nell'aggettivo si colga l'opposizione fatta all'altro di mistica, che involontariamente avrebbe potuto suscitare l'angolo aperto del «carattere religioso») del poeta. Non siamo — beninteso — tanto ingenui e disonesti da pretendere letterarietà di Campana e, d'altronde, non abbiamo nessuna ragione per dare un posto definitivo alle intenzioni del suo titolo.
 
Certo pare non ci debba essere ironia, quell'ironia che non sopporterebbe affatto la concezione della sua possibile, evidente, ma fin dove rintracciabile?, cultura e tanto meno l'integrità della sua natura; inoltre lo sostiene la sua sincerità e quella mancanza che gli riconosciamo senza dubbi d'una qualunque abilità letteraria. C'è forse dell'obbedienza al gusto della sua immagine spirituale, un atto di riconoscimento verso dei modelli personali e infine il segno tradito del proprio dovere: specialmente se nella decisione sono mancate tali cifre, queste preoccupazioni.
 
È più facile tradirsi nel momento in cui tutto sembra disposto a un'altra fatica e volto ad altri desideri. Dunque, magari involontariamente, Campana consegnandosi al desiderio della sua voce superiore, si consegna a una nostra speciale attenzione: limitandosi, come fa e sia pure per motivi semplicemente letterari, a una ragione ben precisa e diversa — unica direi in questa nostra ultima letteratura — si consegna con un proprio messaggio da tradurre, e a cui sarà fedele fino all'ultimo, anzi al di là dei nostri confini.
 
Con questa cifra ci spieghiamo anche la distanza che il titolo ha con il resto: sembra una misura esagerata ed è invece necessaria al totale spiegamento delle parole che incontreremo: quasi una lente d'ingrandimento giustificato. Altezza del titolo che spiega benissimo l'assoluta necessità della parola in lui, una parola estremamente gonfia e mai definita: la parola inquieta di Campana obbligata sempre a uno stato migliore di metamorfosi e riferita sensibilmente — nel senso che apre la forza da cui è creata — all'essenza dello spirito realmente suo.
 
E con questo rapporto immediato tocchiamo un'altra giustificazione del titolo. Ma non ci si stanchi di scandagliarlo: provatelo nell'eco dei suoi elementi. Ancora involontariamente, se volete, ma Campana qualcosa cede alla comune accezione del termine canti. Dove si possono nello stesso tempo sorprendere due attitudini del poeta, una di valore universale e l'altra relativa, chiusa nel movimento particolare delle sue composizioni poetiche. Il canto suppone un movimento attivo d'iniziata libertà.
 
Si ricordi come vada bene per lo stesso Leopardi (pensate alla preziosa osservazione di Boine: «dove la poesia com­pare, scompare il dolore», e la faceva proprio riferendosi al poeta dei Canti): se non che per Campana il calcolo deve essere tenuto in modo del tutto particolare; e cioè in lui la libertà si fa strada, e sin da principio, con una irruenza a cui nessuno ci ha abituato e che tradisce certamente un'altra presenza d'ordine superiore (ed ecco la prima attitudine, che ha la sua risposta esteriore nell'immagine del Campana terreno, del fauno nel senso aperto della sua avventura dai colori rimbaldini) ma si aggiunga che lui diventa di colpo schiavo di quella libertà più forte, straordinariamente robusta.
 
Perciò restano invertiti i termini dell'avventura per lui: parte da un ordine superiore per ridursi inevitabilmente e senz'altro soccorso a un disordine relativo (terreno): si perde nella forza della sua voce spiegata: nella voce che alla fine diventa per lui insopportabile e irriconoscibile: e insisto sull'ultimo aggettivo, data la presenza di un mistero tanto vivo e così urgente da togliere ogni altra preoccupazione e da volere un'assoluta fedeltà.
 
L'altra attitudine relativa cade nella trama, della materia usata dalla sua poesia e penso a quelle ripetizioni, a quelle parole che inciampano allo stesso punto e pare non debbano avere altro esito che i loro stessi colori mentre in realtà sono la misura d'un canto interno, verticale, di cui la maggior parte delle allusioni si perde nel buio, nel silenzio in tal modo evocato.
 
Ma la migliore spiegazione la fornisce l'aggettivo, che pertanto non si limita a rendere inequivocabile lo spazio stesso del termine, ma raggiunge l'intenzione spirituale dello scrittore: ci dà notizia del messaggio di cui è schiava la vita della sua memoria e l'altra, questa vita apparente. Ora una simile posizione — così staccata e tanto sollevata sopra la storia delle altre comuni operazioni — mette Campana a un lavoro, per cui non vale il sussidio dei giuochi e le migliori rettoriche. Nessuno potrà negare che questa è la vera attitudine di Campana: qualcosa di più del poeta, o meglio quello speciale poeta che ha fatto spesso — e non sempre a ragione — pensare al mistico.
 
Di quelli spiriti che secondo la parola di Novalis «vanno verso l'interno», agli argini di una voce più alta, di incontrastata superiorità, que habla de den­tro, ma così San Juan de la Cruz alludeva a ben altro. Se non che per Campana occorre dire subito che nessuno di questi assunti è chiaro e preciso, che proprio al momento di confessarsi s'è taciuto, si è perduto nel bianco che gli offriva la carta; non sappiamo nulla del suo messaggio, si può supporre che dietro all'urgenza delle sue gonfie parole ci fossero, ma praticamente nessuna notizia probante, appena delle riduzioni, dei movimenti composti letterariamente.
 
Forse ci sarebbe permesso dire che Campana ha tradito, che nel tenersi a una misura puramente artistica, ha perduto la conoscenza di una zona, di cui da noi egli sarebbe stato l'inventore; e a questo appunto ci spinge un po' l'evidente intenzione della sua figura spirituale, e quella posizione prometeica in cui s'è stabilito così decisamente e a volte con prepotenza.
 
Ma dal momento che non esiste neppure il minimo tradimento — se pure rimane continuamente da svelare, sottovoce e alla pelle — Campana può sembrarci senza vere notizie, un poeta reperibile soprattutto in un ordine di arte. Esternamente, e cioè per i suoi modi espressivi e per la piega che dà alle sue parole, va accanto a Nerval, a Rimbaud, insomma nella linea della poesia orfica: esternamente, ché in realtà fin dove scrive non pretende nulla di più, non sottintende una chiave e un altro vocabolario; perciò non è catalogabile in questo senso se non per la forma, sennò il suo silenzio si è spinto fin qui, ha allagato tutto. Ma l'accostamento sussiste se si scende a osservare il grado d'assoluto a cui è sottoposta questa poesia, lo sforzo inumano e tragico con cui ha una volta per sempre attaccato le regioni del suo spirito.
 
Si sente che deve arrivare a qualcosa, quel qualcosa che per lui è rimasto nel margine anticipato della sua pagina, che in lui tutto è teso a una definitiva liberazione ma si resta in questo sforzo estremo, in un movimento scentrato e spezzato, senza legami (in un paese senza memoria, magari ritrovabile se anche senza possibilità di carta, di cifre). La malattia ha tolto il tempo della sconfitta a Campana e quella necessità della sottomissione che Racine, Baudelaire, Nerval hanno sofferto: la condizione dello scacco eterno. In questo senso Campana appare non domo, ancora senza leggi; sembrerebbe ancor oggi irraggiungibile se da tanto, dalla stagione dei Canti non si fosse smarrito nel­la sua «infrenabile notte».
 
Questa notte che è continuamente vicina al suo spirito e che il poeta non si stanca d'invocare. La «sorda lotta notturna» è una cifra preziosissima per Campana.
 
Chi le taciturne porte
guarda che la Notte
ha aperte sull'infinito?
Chinan l'ore: col sogno vanito
china la pallida Sorte.
 
Chi è l'estremo limite a cui batte Campana: non ha ulteriore soluzione. E sembra per sua confessione che di là appunto derivi, che quello sia il suo paese. La morte è sempre il termine delle sue invocazioni, e tiene il posto che soffoca il dolore e apre la pace della morte. Campana è nato al di là dei nostri confini: ci appare a volte irreale ma a riprovare ci si accorge che la sua è una realtà ben diversa dalla nostra, e che infine verso di lei è stato d'una straordinaria fedeltà.
 
Senza divertimento, è uno spirito impegnato nel tempo assoluto di tutti i suoi giorni: non trovo una pagina che alluda, neanche nei sottintesi o nelle pieghe involontarie del discorso a un giuoco, a uno spazio gratuito: tutto si svolge dentro a un cerchio ben chiuso e sorvegliato. Fedeltà che si traduce nell'impiego e nella scelta limitata delle parole: è evidente che in lui le parole cadono in un'aria d'assoluta necessità, spesso sopportano diversità di clima, differenze d'ambiente per una impossibilità fisica a staccarsi da quell'ideale superiore che urge alla sua memoria.
 
Questa insistita invocazione alle notte, questa permanenza esterna nel viola, che è il suo colore, è la somma delle sue confessioni, la somma dei suoi interessi traditi. Nella linea di questi poeti mistificatori, Campana obbedisce perfettamente alla loro misura di mistificazione inferiore, appena aderente allo sviluppo etimologico ma in cui nessuna condizione d'ordine spirituale viene sfiorata. Nel riportare tutto il mondo possibile alla creazione del loro sacrificano a una legge d'inevitabile egoismo (e l'egoismo cade al momento stesso da cui si inizia una nuova soluzione personale) ma rispettano gli altrui domini, non barano.
 
D'altronde un egoismo esigente soprattutto per chi lo esercita abolisce ogni calcolo di dubbia natura e favorisce la deduzione immediata — illogica, irrazionale — del mistero inseguito. Perciò poeti come Campana, come Éluard sembrano monocordi e infine non sempre esenti da una speciale monotonia che è in realtà vita felice e regolata della memoria.
Nell'ambito della prova pratica, la ripetizione ci fa vedere a che cosa serve e qual era il suo compito: impedire cioè il punto morto della melodia, la sospensione che minaccia un Chopin e che in un ordine letterario da tanto è diventata un'insopportabile moda.
 
Meticoloso nel suo apparente disordine: provatelo anche là dove può sembrare a prima vista più facile, nel senso d'adesione a un modo approvato dalla tecnica e dalla storia della poesia: provatelo, e quel modo risulterà come un voluto controcanto, uno smaliziato uso (abuso) di certi strumenti (non so fino a che punto questa interpretazione potrebbe servirmi per la petite promenade du poète, dove davvero il giuoco sembra spinto troppo in là, nei numeri — come chiari — d'uno scherzo comune, d'una parola di tutti). Guardate come incomincia La sera di fiera:
Il cuore stasera mi disse non sai?
che nella migliore delle ipotesi potrebbe far pensare a un echeggiatore del Pa­scoli più battuto e non abbandona senz'altro questa piega ma infine arriva alla sua naturale preoccupazione — e qui non si tratta che di memoria cosciente riconosciuta.
 
... non sai?
Era la notte
di fiera della perfida Babele
salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
in lubrici fischi grotteschi
e tintinnare d'angeliche campanelle
... ... ...
 
che è ricadere in Campana, quel Campana per cui la notte è uno specialissimo denominatore comune, e il resto è una condizione qualunque dell'operazione, è un elemento utilizzabile, un componente. La sua musica (Boine ebbe ragione a indicare nei Canti orfici il «gorgo canoro» e la vittoria della musica sui discorsi), lo raggiunte in qualsiasi momento: è la sua aria terrena. Non ha altra soluzione di vita.
 
La memoria del cuore di ciascuno di noi sa riprendere ogni volta con tutta coscienza e penetrazione d'intelligenza il Viaggio a Montevideo, che forse è una delle cose meglio dosate artisticamente e dove al di fuori dei consigli d'una scuola e con un'interpretazione che dimostra l'impegno a fondo, la giustificazione d'una novità assoluta — in quanto non nasce sulla guida di un disegno ma come una creatura formata e razionale soltanto nella presenza totale del­le qualità del poeta (e qualità in Campana corrisponde a presenza primitiva) — il Nostro illustra nuovamente la scoperta baudelairiana dei profumi, dei colori e dei suoni in relazione:
 
Io vidi dal ponte della nave
i colli di Spagna
svanire nel verde
dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando
come una melodia
d'ignota scena fanciulla sola come una melodia
blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ala
varcaron lentamente in un azzurreggiare...
Lontani tinti dei varii colori
dai più lontani silenzii
ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro;
... ... ...
 
Ma pezzo d'una ancor spiegabile composizione armonica che prelude all'altro di valore assoluto di Piazza Sarzano. Qui Campana ha raggiunto il suo testo: qui veramente la sua poesia sopporta la definizione generale scoperta da Éluard: «l'appel des choses per leur nom»: gli oggetti hanno una vita dalla memoria ma staccata, sono in una condizione eterna, già soluti in, una ormai aperta incognita algebrica.
 
Su di loro cade una luce immobile, uguale e ordinata come il passo di danza del «fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente»; e il rapporto delle ore e delle stagioni viene consegnato naturalmente, come una realtà che si offre in movimenti irreali, in quanto nessuno saprebbe secondo le nostre cifre segnarne i passaggi e si conclude nel testo con una parola ormai vuota d'una dolorosa condizione umana: «È la notte mediterranea», in cui non scorgo nessuno stupore, l'indicazione di una sorpresa.
 
Se non che questo è il Campana che uno potrebbe, visto che è ordinato e pacato, tradurre per classico: e un Campana che ha assolto la prima parte del suo compito. Ce n'è però un altro, un Campana impegnato in un'altra verità, per meglio dire, di cui nulla di preciso sappiamo e che soltanto vediamo muoversi in movimenti nuovi e rivoluzionari: quello che venuto alla superficie ha sorpreso e meravigliato e scandalizzato.
 
Come nell'ali rosse dei fanali
bianca e rosa nell'ombra del fanale
che bianca e lieve e tremula salì...
Ora di già nel rosso del fanale
era già l'ombra faticosamente
bianca...
Bianca quando nel rosso del fanale
bianca lontana faticosamente
l'eco attonita rise un irreale
riso: e che l'eco faticosamente
e bianca e lieve e attonita salì...
 
È Campana che non riesce più a parlare, che sente sfaldarsi le parole in un'ansia maggiore, in una ricerca sconosciuta e tremenda. La ripetizione è ormai ridotta a un inciampo, a un incidente d'ordine intellettuale. Sono parole che non lo soddisfano, che inutilmente tentano una via di convinzione mentre ricadono necessariamente un minuto dopo, come nel cerchio di un'insistenza disperata. Parole che salgono in un'assenza di respiro e segno di impotenza, di una presenza irraggiungibile. Tempo dell'attività di Campana che è una fedele immagine del suo dolore, della sua tragica pena d'uomo.
 
S'avvicina l'ora della morte totale dell'io, e quasi ci fa pensare a una solu­zione d'ordine mistico se anche nulla in Campana viene a sostituire l'io, nul­la segue all'onda del silenzio. O almeno non ne sappiamo di più. Non gli va altra voce che quella di Hugo, questa sua ultima immagine:
 
Une bouche voulant boire un peu d'eau qui fuit,
fut-ce au creux de la main fatale de la nuit.
Della sua infrenabile notte.
 
Nel 1984 Sebastiano Vassalli ha pubblicato da Einaudi una vita rivisitata di Campana (L'anno della cometa) e in effetti questa paziente e scrupolosa rievocazione è una miniera per il lettore che di Campana conosce solo la leg­genda. Contemporaneamente è uscita la prima edizione commentata dei Canti, curata da Fiorenza Ceragioli. Se Vassalli ha cercato di restituirci l'uomo, la Ceragioli ci ha dato la prima immagine completa ed attendibile del poeta. Sulla prima edizione di Ravagli la studiosa fiorentina ha annotato con intelligenza ciò che poteva apparire oscuro, ciò che resta fino ad oggi dubbio, e ha sistemato il lavoro che prima di lei fedelissimi di Campana come Enrico Falqui e il figlio di Giuseppe De Robertis, Domenico, avevano fatto con amore.
 
Si spera così che Campana esca dalla leggenda che in parte lui stesso aveva contribuito a nutrire e poi è servita di comodo pretesto ai lettori per evitare le difficoltà del resto. Non che Campana sia mai stato dimenticato, neppure sottovalutato. Possiamo dire che già nei dieci anni seguiti alla sua morte la critica nuova si era esercitata sui Canti, grandi poeti come Montale e Unga­retti non avevano certo taciuto il suo valore e infine ci fu un ritorno in forze con il sostegno delle ultime scoperte e delle nuove suggestioni. Tuttavia si ha l'impressione che l'anno del primo centenario della nascita rappresenti il primo atto completo di questo arduo lavoro di ricognizione e di definizione.
 
Ma quale posto occupa Campana nel cielo poetico del Novecento? Uno dei primi, non ci sono dubbi, e, proprio perché il travaglio è stato grande e l'opera non è stata compiuta, uno dei più dotati di fascino. Mi direte: allo­ra vale sempre la leggenda? No, solo che il suo destino di poeta non disfatto e non placato resta come una stella nella parte più oscura e segreta del cielo. In parole più semplici, chi legge Campana non può non avvertire che c'è sempre qualcosa che va al di là del suo dettato e che il peso della poesia non è stato mai del tutto liberato. Campana vive ancora oggi, a distanza di settant'anni dai Canti orfici, come una sorta di Prometeo incatenato, mostra una forza che poi non riesce a sprigionare, si sente che sta per dire l'ultima parola ma non ci riesce.
 
La poesia gli è rimasta nel sangue e in qualche modo ha finito per blocca lo se non per paralizzarlo definitivamente. La malattia ha dato una sua paro­la ultima, ma anch'essa non ci serve né ci aiuta, e questo perché il male del­l'anima non era una soluzione ma una condanna. Questo sì.
 
Ecco che allora ci troviamo di fronte due immagini che si completano a vicenda: quello dell'innamorato della poesia, di chi per la poesia è pronto a perdere la propria vita e l'altra del vinto, ma un vinto che non accetta la sua sconfitta.
Nessun altro poeta gli resiste accanto e non perché inferiore, no, no, nes­suno gli resiste perché non è stato toccato così in profondità da questo senti­mento del «fare», da questa passione del cambiare la vita in poesia. C'è in Campana una sproporzione insuperabile per ciò che aveva tentato di fare e quel discorso rozzo che gli è rimasto nel cuore e che non ha potuto né espri­mere del tutto né far tacere del tutto.