Un pacco di libri

di Bino Binazzi

 

Bologna, 14 Luglio 1915

Non si può esimerci – anche oggi che pure ci son tante cose da fare e da pensare - dal parlar di libri. Ne nascano tanti; ed è impossibile che fra tanti qualcuno non richiami la nostra attenzione o perché porta un nome d’amico o perchè nuovo parto di qualche scrittore già prediletto o-anche- perché giuntoci per posta con tanto di dedica a noi.... “illustri” ... Oh Dio! – il giovincello furbo sa che noi, volendo potremmo dar mano al soffietto su per le colonne di un giornale ove si esplica la nostra – non precisamente « illustre » – fatica quotidiana. Quanti libri anche durante questo periodo in cui il turbamento dei classici « otia » non potrebbe esser maggiore! E non intendo di mettere in conto tutti quelli occasionali sulla Dalmazia qui, sulla barbarie là, sul Belgio sotto, sul Trentino sopra ecc.ecc. Si intende parlare di libri di pura fantasia.

L’Italia, come si sa, è stata sempre la terra dei poeti.... e oggi poi, dopo le facilitazioni e le riduzioni accordate a chi voglia viaggia re per il paese della Gloria dell’amico Marinetti, che dispensa gli scrittori anche da una sommaria nozione sintattica, la fioritura è ultra abbondante.

Un burlone mi preconizzava giorni addietro che nel secolo ventunesimo saranno apposte delle lapidi per indicare allo stupore dei passanti quelle rare case ove non sarà nato o non avrà almeno abitato qualche scrittore di questo primo strabiliante principio di secolo.

Vedremo.... Cioè non vedremo, e sarà meglio per noi.

Ma intanto, deposto per un momento il pensiero del grigio-verde e della sciabola brunita come se l’ultimo comunicato di Cadorna l’avessimo letto in qualche trattato di storia, occupiamoci un pò di questo pacco di libri che aspetta, a dir vero, ormai da troppo tempo.

Cominciamo da un giovane che, a Firenze, ho avuto il piacere di incontrare più d’un anno fa, nell’assisa di soldatino di fanteria. Ho assistito in seguito a tutti i progressi della sua carriera militare: caporale, sergente, sottotenente.... Adesso egli deve trovarsi già al fronte. Don Nicolino Moscardelli, abruzzese puro sangue, giovanissimo; uno di quegli ufficiali rosei, che figuran così bene in alta tenuta dinanzi alle vetrine e alle specchiere dei caffè principali delle cento città... ai tempi della pacifica guarnigione; ma che al momento opportuno sanno combattere come arcangeli o morire come eroi.

Naturalmente si augura di tutto cuore a Moscardelli di vivere e di vivere a lungo; per tante ragioni, fra cui non è ultima la speranza che gli amici hanno concepito di lui come poeta. In questo volume che egli intitola «Abbeveratoio» (1) è racchiusa l’essenza di un’anima squisita. Son cose leggiere, «frutti d’ipersensibilità» come si dice oggi; in ultima analisi si tratta di una sorta d’arcadia tutta nuova ; e per questo assai simpatica. Si vede subito che don Nicolino è un ammiratore di Palazzeschi : se non che l’apparente «leggerezza» del fiorentino rivela a tratti gli abissi dell’infinito e copre di un velo delicato e gemmato una tragedia delle più profonde. Di qui la grande distanza. Del resto, sarei tentato, se non sapessi per prova che i poeti son molto permalosi, di augurare a Moscardelli di non provar mai simili torture.... anche se ciò ridondi a svantaggio della sua grandezza di poeta.

Non è mica una ricompensa adeguata l’ammirazione e la simpatia di qualche intelligente?...

A parte questo, il libro di Moscardelli si legge volentieri : accarezza dolcemente la nostra fantasia, ci fa rivivere certe melanconie di crepuscoli abruzzesi ; e ci fa sobbalzare l’anima di piccoli stupori, di piccoli sorrisi, di sensazioni ultre delicate. Scrivendo di questo libro mi sento che potrei dirne molto bene anche se avessi tempo e spazio (e opportunità) per intrattemermivi più a lungo. Ma, c’è la guerra... Finiamo dunque citando a caso qualche strofa. Non c’è bisogno di andare alla scelta, il libro è pieno di piccole gemme.

 

... In un giorno di sole

andrò incontro a Me stesso

lontano lontano

presso le fontane fresche

nei tramonti fiammei

negli orti placidi.

Perchè egli mi ha lasciato il suo cuore

il cuore che gli appartiene

il cuore che potrebbe morire

il cuore che gli debbo restituire.

 

Dopol’ufficiale che combatte facciamo posto all’irredento. C’è il segno di una maggiore vigoria.; il presagio di voli più robusti in questo «Polline» (2) di Leonello Fiumi. Fiumi è un figlio dell’alpestre terra di Trento.

 

Son tuo germoglio terra indomita di Trento.

 

Ma ancora la lirica di questo diciannovenne, gonfia un pò troppo le gote; e l’enfasi nuoce alla ispirazione. Egli deriva direttamente da D’Annunzio ; e, forse, è un bene; tanto più che ho detto deriva il che è assai diverso da imita.

Il Fiumi rivela già bene una sua personale fisionomia. E’ un entusiasta; deve essere anche (beatissimo lui!) ricco. La vita gli deve essere stata madre e non matrigna, per questo egli canta la felicità.

Nessun poeta d’Italia dispone di una tavolozza così ricca di colore come quella di questo giovine, se si tolga Soffici o Campana. Il suo verso libero si foggia in perfette orchestre ; il che rivela in lui una perizia tecnica e un istinto di musicalità che manca a quasi tutti i liberisti più conosciuti; non dico ai migliori.

Osservate la potenza coloristica e musicale di queste strofe : E’ un impressione di mercato in piazza delle erbe a Verona :

 

Bella così la stridente contesa

di quei crocchi d’arancie

coll’atonia bruna delle noci secche

presso cui vibrano

un giallo di cadmio

vivo

sonoro.,

le arancie

come un chiaccherio!

E accanto agli agrumi,

una chiazza di suciumi

un banco d’appassiti volumi

che disformi e maculosi

imitan le faccine delle case!

carni a blocchi vermigli :

Ortaggi in verdi grovigli

scapigliati....

 

Fiumi farà molto certamente. Peccato che la leggiadria di questo volume sia come oppressa da un grosso mattone di prosa sul verso libero, ove il giovine, evidentemente ignaro di quanto s’è detto e s’è fatto a proposito di liberismo in Italia, ripete cose fruste e passate da molto tempo in giudicato. Specie dopo il libro magistrale del compianto Lucini.

Eppoi perchè temeva, come liberista, di esser confuso coi futuristi? Se avesse seguito anche all’ingrosso il così detto «moto futurista» avrebbe visto che Marinetti e compagni hanno dichiarato sorpassato il verso libero dalle «parole in libertà». Tant’è vero che i liberisti, Palazzeschi compreso, dovettero staccarsi dal gruppo.

Un’altra cosa mi dispiace, a me personalmente, è la tendenza alla gerarchia che il F dimostra in questo medesimo scritto. Perchè far valere un nome? Per carità ! leviamoci questo pregiudizio imperatorio. Proclamiamo pure l’anarchia nei campi delle lettere.

Non c’è bisogno del primo poeta del poeta capo. Basta che vi siano grandi correnti di poesia. E scritti hanno diritto ugualmente d’esser notati nel firmamento... dell’arte. Giacchè ci liberammo dalle tirannie carducciane e crociane non ricominciamo a isterilirci nell’adorazione monoteistica di una formula di retorica. E’ di cattivo gusto ; mi creda il giovine e forte poeta.

Le gerarchie in fatto d’arte non hanno diritto di stabilire i posteri. Allora si fa la giustizia : innanzi si fanno soltanto delle corbellerie. Mi accorgo di divagar troppo... Dovrei parler ora di Epicedi (3) di Francesco Meriano : ma credo che basti citar qualche cosa : Sentite che gioia luminosa:

Ma dalla terra sorge un’improvvisa

pianta di luce; frutti portentosi

si spaccano, piovendo luminosi

chicchi nel grembo della notte uccisa.

Superbi emerocali

Sono i fiori dei fuochi artificiali

 

Il Meriano è anche lui giovanissimo, si e no, vent’anni ; e le liriche che ha dato in questi ultimi tempi alle riviste rappresentano, di fronte a questi «epicedi», un bel superamento. Meriano è un lavoratore alacre e un talento vivissimo. Un innesto piemontese sviluppatosi tra gli incanti del golfo di Napoli... Scrive di tutto : lirica, novellistica..., critica. E pubblica troppo e troppo in fretta. Creda a me il Meriano. C’è il caso di doversene pentire. C’è da accorgersi, a uno svolto, d’aver paragonato i fastidiosi squittii d’un geppio coi frasconi al grido d’un aquilotto reale, o d’aver accomunato, con un gesto di rosea impertinenza, uomini di profonda cultura e di fortissimo talento a giovincelli vivaci, felici perfezionatori delle lepidezze stenterellesche.

Dovrei parlare ora di Lebretk, di Catalano, di tanti. Ma come si fa ? Lo spazio è breve e la fretta è molta. Sarà per altri tempi e per opere maggiori.

 

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Tratteniamoci piuttosto sopra due volumi di indiscutibile superiorità. Del primo basta citar l’autore: Giovanni Papini. Questo volume che s’intitola Maschilità, rivela ancora una volta le grandi doti dello scrittore fiorentino. C’è di tutto: lirica, critica, polemica; e perfino spunti di storia letteraria. C’è davvero in tutto una forza maschile che trasporta. Una prosa fresca, robusta e viva che si snoda e canta come un torrente d’Appennino, rispecchiando la selvaggia natura circostante e l’infinità azzurra del cielo E’ uno dei più bei libri della vasta e interessante produzione papiniana. Accenniamo ora alle Risultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi. Piero Jahier è un poeta che al posto della classica corona febea è costretto a portare... indovinate? il berretto colla ruota aligera dell’applicato ferroviario. Jahier è uno di quei poeti che, alle prese colla durezza della vita per anni ed anni, han saputo combattere e vincere. La sua vita di impiegato gli ha suggerito questo libro. Un vero documento.

Gino Bianchi meriterebbe di prestare il suo nome, scialbo come una pagina protocollare, all’archetipo dell’impiegato; come Lazzarillo della novella picaresca ha prestato il suo al tipo di ragazzettaccio mendicante e Perpetua al tipo della serva di prete.

Lo strano stile di questo libro, tra il burocratico e il biblico, è una cosa notevolissima ; e conferisce molto al tonoironiuco onde è pervaso tutto il volume.

Se non che quella sequenza di periodi aritmici, tutti di egual misura, talvolta genera monotonia che non riescono ad avvivare neppure certe brevi batture digressionali, quasi sempre vivaci ; ma qualche volta troppo volute.

In questo libro il trillo ironico talvolta si muta in grido di spasimo umano. Anche l’«homo burocraticus» ha un’anima, e un’anima che sanguina....

Il Jahier è un poeta che entra già agguerrito nell’arringo letterario. Prima ha vissuto e lottato. Ora canta una vittoria. Per questo sopratutto mi piace.

Oltre questo libro ricorderò sempre di lui alcune liriche apparse su per riviste. Nominerò l’«Isola rossa» e, la più recente, «Con Claudel».

So che vi son molti che dicon male dell’opera sua. E’ destino. Chi entra nell’arringo letterario è costretto a pagare un simile pedaggio agli imbecilli.