Sebastiano Vassalli 

 

 

Vassalli, su Dino Campana molte falsità

 

di Cristina Taglietti

 

dal Corriere della sera, 15 Settembre 2005 

                                                

Chi ha paura di Dino Campana? A temere il poeta di Marradi sono ancora in molti secondo Sebastiano Vassalli che di Campana si occupa dalla fine degli anni Sessanta, quando cominciò a raccogliere documenti e a studiare carte in un lavoro culminato nel 1984 con il romanzo-biografia La notte della cometa. Da allora «restituire Campana alla sua vita» è stato per il romanziere una sorta di pensiero fisso che adesso si concretizza in un volume che raccoglie i Canti Orfici , le Poesie sparse , il Canto proletario-italo-francese, le lettere dal 1910 al 1931.

Le opere del libro, intitolato Dino Campana. Un po’ del mio sangue (Bur, pagine 300, euro 9), sono presentate da un’introduzione e chiuse da una nota biografica in cui Vassalli fa il punto su menzogne (molte) e verità accertate (poche) della vita del poeta. «Ciascuno, nel corso del tempo, si è costruito il suo Campana - spiega Vassalli -. Anche perché lui per primo raccontò su se stesso un sacco di menzogne, fatti assolutamente inverosimili. Una su tutte: che era stato dappertutto, che aveva girato il mondo, mentre nella sua vita aveva avuto una sola volta un passaporto speciale per Buenos Aires, una specie di trappola congegnata dai suoi genitori per liberarsi di lui e impedirgli di tornare in Italia. Il fatto che fosse andato a Istanbul, a Odessa è falso, anche perché era un’epoca in cui le frontiere erano davvero molto difficili da varcare.

L’unica frontiera che passa, a piedi, a vent’anni, è quella tra l’Italia e il Canton Ticino (passo di San Giacomo). Molti si sono rispecchiati in questa storia romantica, avventurosa, che invece era campata per aria. Io credo di aver restituito Campana alla sua vera storia, che non è altrettanto bella, anzi è cupa e triste, ma è la sua». Le chiavi per rileggere la biografia di Campana, secondo Vassalli, sono due: la famiglia e la sifilide. «Un’orrenda famiglia che inventò la sua pazzia e cercò di liberarsi di lui due volte. Prima di spedirlo in Argentina, quando aveva 21 anni, lo misero in manicomio, non in seguito a una visita medica, ma attraverso un gruppo di notabili del paese che andò in municipio e fece una dichiarazione giurata. Poi il padre lo andò a trovare, lo vide con la testa rasata e la casacca marrone, si impietosì e lo riportò a casa, mentre la madre lo avrebbe lasciato lì. Nel 1915, a trent’anni, invece, diventa davvero matto perché contrae la sifilide che distrugge il sistema nervoso.

Certo, non ci sono le cartelle cliniche, ma la malattia è comunque documentata attraverso le lettere di Sibilla Aleramo che venne contagiata e dovette curarsi per otto mesi. L’incontro con la Aleramo, nell’agosto 1916, è tutto sotto la stella avvelenata della follia. Lui è già malato, pieno di idee fisse e ossessioni. Per lui è l’unica storia d’amore della sua vita, per lei è l’unico grande incidente di percorso. Lui la insegue, la perseguita, lei fugge, ma riesce a liberarsi di lui soltanto nel ’56, a 82 anni, quando pubblica il carteggio». A nuocere a Campana, secondo Vassalli, furono più quelli che gli volevano bene di quelli che gli volevano male. «Per esempio Papini ne disse male finché visse, però, in fondo, era una sua opinione. Vallecchi invece, nel ’28, ripubblica i Canti Orfici e li ripulisce di tutte quelle cose che a lui sembravano sconvenienti, ma lo fa per amore. Poi c’è Enrico Falqui, altro benemerito degli studi campaniani, che pubblica gli inediti ma anche lui è convinto di doverlo correggere. Quindi emenda le lettere che nel mio libro, invece, sono riprodotte nella versione originale».

Poi c’è Carlo Pariani, lo psichiatra autore di quella che a lungo è stata considerata la biografia ufficiale: «Pariani non era il suo medico curante - dice Vassalli -. Era uno psichiatra, matto di suo, che voleva scrivere un libro su genio e follia. Gli unici due artisti in manicomio a quel tempo erano uno scultore cimiteriale che si chiamava Evaristo Boncinelli e Campana. Pariani andò da tutti e due. La verità è che, per toglierselo di torno, Campana gli racconta un sacco di balle che furono spacciate per vere.

Il libro non sarebbe mai uscito se Papini e Soffici non lo avessero fatto pubblicare da Vallecchi, di cui erano consulenti, trovando così il modo di chiudere definitivamente i conti con lui». Anche il paese natale di Campana, Marradi, ha avuto secondo Vassalli, grosse responsabilità nel creare il «Mat Campena». «Mi volevano matto per forza» scrisse il poeta, finendo per comportarsi davvero da folle per reazione alle persecuzioni dei suoi compaesani. A Marradi, secondo Vassalli, «hanno fatto cose orripilanti, come il Premio di poesia Dino Campana. Già a suo tempo dissi che sarebbe come intitolare a Pinelli una caserma della polizia. Una cosa di pessimo gusto.

Potrei capire se fosse un premio dedicato a quei poeti che non sono arrivati a un editore ufficiale, un po’ come capitò a lui, invece è proprio un’iniziativa per compagni di merende. Tra il premio e il Centro studi campaniani, che ha sede in comune, ogni estate si crea una compagnia di villeggianti.

È lì che si è formato quel partito marradese che tiene insieme tutte le falsità sulla vita di Campana, come: non è vero che fu perseguitato dai concittadini, i genitori erano brava gente, gli psichiatri hanno fatto quello che potevano per curarlo. Insomma lui era matto dalla nascita, Mat Campena».