Marcello Verdenelli Giampaolo Vincenzi

 

«LA SUA CRITICA MI HA RIDATO IL SENSO DELLA REALTÀ»

 

Bibliografia campaniana ragionata dal 1912

 

Edilazio 2011

 

 

Prefazione Gabriel Cacho Millet

 

Ha scritto Jorge Luis Borges: l’essenza di un poeta non risiede nelle sue idee, né nelle sue metafore o nei suoi concetti: tutto ciò è secondario, quasi inconsistente. L’importante è la voce del poeta, il respiro dei suoi versi, e, nel nostro caso, la voce di quel Dino Campana morto, quasi dimenticato non lontano da Firenze in manicomio, a 47 anni. La sua voce, racchiusa in un solo libro dove «canta – scrisse Montale nel 1928 – una vena di poesia, talora torbida e incoerente, ma profonda e tale da assicurare un posto assai alto al povero Campana» nel paradiso della lirica contemporanea.

 

Nelle quasi duemila voci sulla vita e l’opera di Campana qui raccolte con rigore e immane fatica da Marcello Verdenelli e Giampaolo Vincenzi, è possibile trovare, dal 1912 ad oggi, quelle di chi ha raccontato di aver preso un caffè insieme a Campana, forse nel locale di un cugino a Firenze, dove il Poeta, sul marciapiede, invitava i passanti ad assaggiare l’alta qualità della bevanda; oppure di chi mentendo, come la marradese intervistata da un prestigioso giornalista, dichiarò di aver visto Campana arrivare insieme al padre dal Manicomio di Imola nel 1906; ciò era un po’ difficile, poiché quando il “mat” comparve, lei non aveva più di 40 giorni di vita.

Oppure la voce di chi dice di averlo visto a Bologna prendere per la coda un cagnolino e scagliarlo contro una ragazza, oppure strappare dai Canti Orfici le pagine che l’eventuale acquirente non avrebbe capito, o ancora di chi comincia a riconoscere in quel libricino di veste meschina «un po’ di poesia», e di chi segnala che i Canti, appena ristampati da Vallecchi nel 1928, «hanno rivelato a molti che ancora non lo conoscevano un poeta, certo diseguale, ma ricco di profonda e drammatica ispirazione», aggiungendo – e chi lo dice è ancora e nientemeno che Montale in un’altra sua annotazione del 1929 – che il Marradese certamente è «da porsi tra i poeti più originali e vivi dell’ultimo triennio» accanto a Palazzeschi, a Ungaretti e a Saba.

Non manca chi lo segnali come il «Rimbaud italiano» e chi confessi di essere incuriosito soltanto dalla sua follia e non dalla sua poesia e chi l’ha visto come un visionario o un visivo, oppure tutte e due le cose insieme, oppure come un vagabondo sperso sulla terra e per mare, un “povero pazzo”, un mito-simbolo della poesia dell’eterno ritorno, o come l’autore di un libro sulla «grande metafora della onnipresenza umile e solenne della vita». Verdenelli e Vincenzi hanno cercato, in questo ammasso di voci, la voce, l’intonazione, la respirazione del Poeta di Marradi, perché è indubbio che i Canti Orfici che oggi noi leggiamo non sono più quelli che Campana ricompose in breve tempo sui monti di Marradi, nei primi mesi del 1914.

Quei Canti, insieme all’avventura terrena del “cantore”, sono stati letti o meglio riscritti da quella marea informe di lettori e testimoni che i curatori hanno finemente rilevato. Ragionare su ciò che quelle duemila voci racchiudono sul poetare e andare del Poeta orfico, significa sostanzialmente misurarsi con l’arricchimento (in certi casi l’impoverimento) che le annotazioni e le letture apportarono a un piccolo libro infinito e alla mitografia nata intorno al suo autore.

La funzione dei curatori, oltre a “separare la paglia dal grano”, è stata quindi quella che lo stesso Campana vide nel critico Renato Fondi nel 1915: «La sua critica mi ha ridato il senso della realtà».

 

Roma, 12 luglio 2010