Introduzione ai Canti Orfici

 

di Gabriel Cacho Millet

 

 

Per l'edizione Anastatica del Centenario degli Orfici, curata dall'amico Dino Castrovilli, a Gabriel fu chiesta l'introduzione. Era l'occasione per tirare le somme, per un discorso finale su Dino Campana.

L’Introduzione, la Nota biografica e la Scelta bibliografica che qui si ristampa con lievi variazioni sono ricavate da Dino Campana, Il cantore vagabondo, a cura di Gabriel Cacho Millet, Vol. nº. 35 della Collana Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti, Edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano 2012, pp. 5-17, 167-171, 172-180.

  

INTRODUZIONE

 

Ogni qualvolta che leggo i Canti Orfici, non posso non chiedermi che cosa abbia che fare il poeta Dino Campana, autore di quel solo piccolo libro ineffabile, con quel poveretto di uguale nome, ingombrante ospite di manicomi, ospedali e carceri, segnalato nei registri delle   questure di mezza Italia come un fuorilegge. E mi viene voglia di dire: nulla.

Campana era diventato il pazzo di Marradi nel 1906, quando, a bollarlo tale, non era stato neppure un  semplice medico o uno psichiatra, ma il questore di Firenze che, dopo l'arresto a Genova nel marzo di quell’anno, aveva chiesto al sindaco di Marradi, di aver cura e di vigilare attentamente il Campana Dino perché a lui risultava "alquanto squilibrato". Da allora in poi colpevole o innocente, Campana sarà per sempre il pazzo o addirittura il “pazzo furioso”. Per lui ci sarà sempre un copione pronto. Che si comporti bene o male, lui, il figlio del maestro Giovanni, sarà sempre il colpevole. E tuttavia, questo fuorilegge non ha altro documento da presentare all’autorità pubblica per giustificare la sua esistenza che un esile libro di poesia della veste meschina intitolato, Canti Orfici, che egli vende nei caffè di Firenze e di Bologna a lire 2,50 con o senza dedica.

Nel poeta vagabondo, “creatore di luci, che pulsano a intermittenze drammatiche in un mondo sublimemente disorganico”, come ha scritto Geno Pampaloni, più che la sua poesia, è la leggenda ad avere la meglio nella diffusione del suo nome. Nondimeno, il poeta e lo “squilibrato” sembrano a tratti percorrere vie parallele. Qualcuno ha provato a svelare il mistero cercando un punto dove i due Campana si incontrano e apparentemente lo ha trovato in un noto brano della poesia Genova, per non pochi l'esempio più evidente della sua “confusione di spirito”, per altri, l'espressione più alta dell'inafferrabile, del suo conferire una dimensione infinita alle cose. 

 

     Per i vichi marini nell'ambigua  

     Sera cacciava il vento tra i fanali

     Preludii dal groviglio delle navi:

     I palazzi marini avevan bianchi

     Arabeschi nell'ombra illanguidita

     Ed andavamo io e la sera ambigua:

     Ed io gli occhi alzavo su ai mille

     E mille e mille occhi benevoli

     Delle chimere nei cieli:.....

     Quando,

     Melodiosamente

     D'alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia.

     Come dalla vicenda infaticabile

     De le nuvole e de le stelle dentro il cielo serale

     Dentro il vico marino in alto sale,……

     Dentro il vico ché rosse in alto sale

     Marino l'ali rosse dei fanali

     Rabescavano l'ombra illanguidita,......

     Che nel vico marino, in alto sale

     Che bianca e lieve e querula salì:……

     “Come nell'ali rosse dei fanali

     Bianca e rossa nell'ombra del fanale

     Che bianca e lieve e tremula salí:.....”

     Ora di già nel rosso del fanale

      Era già l'ombra faticosamente

      Bianca.....   

    

Errante per il mondo, raccoglie quanto ha visto memorizzandolo per poi fissarlo nel paesaggio italiano in qualche nota di canto. Dal brano di Genova citato ci si accorge subito che ciò che preme a Campana non sono soltanto gli effetti cromatici, ma anche  gli effetti melodici, o meglio ancora la musica delle parole. Al dottor Pariani che lo intervistava nel Manicomio fiorentino di Castel Pulci dove trascorse quattordici anni fino alla sua morte, confesserà dopo una lettura del poemetto “Piazza Sarzano”: “Sono note musicali che facevo io”.

In fondo, tutta l’opera di Campana è pervasa  d’una musica che lui ha evocato ne La notte: “Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno”. E così io mi sento autorizzato a sospettare che i Canti del grande cantore, non sono tanto da recitare ma piuttosto da solfeggiare.

Nell'introduzione al carteggio campaniano Lettere di un povero diavolo  (1903-1931) da me curato recentemente, ho provato a ricostruire la storia del manoscritto precedente agliOrficiIl più lungo giorno, venduto all'asta nel  2004 per centosettantacinquemila euro e pubblicato in una seconda edizione da Stefano Giovannuzzi. Nel 1973 quel quaderno fu pubblicato dopo che due anni prima era stato ritrovato dalla figlia di Soffici, Valeria, nella casa  del pittore a Poggio a Caiano. Mario Luzi consigliò allora all’editore Vallecchi di affidare la cura dell’edizione anastatica del testo a Domenico De Robertis. Quella splendida edizione in due volumi rappresentò in quegli anni uno spartiacque nella pubblicazione degli scritti  campaniani.

Nessuno sa quando Campana comincia a raccogliere le sue poesie su questo quaderno. Campana lo trovò quasi intatto molto probabilmente tra il materiale didattico del padre oppure dello zio Torquato, ambedue maestri.

Ciò che si sa con esattezza è la data di consegna del manoscritto e altre carte agli animatori della vita intellettuale e artistica di Firenze, Giovanni Papini e Ardengo Soffici, come rivela una lettera che Campana scrisse a Emilio Cecchi nel marzo 1916: “Venuto l’inverno andai a Firenze all'Acerba [sic] a trovare Papini che conoscevo di nome [ il 6 o 7 di dicembre 1913]. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo in un caffè [ il Caffè Chinese, alla stazione vecchia] e mi disse che non era tutto quello che si aspettava (?) ma era molto molto bene e m'invitò alle giubbe rosse per la sera. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po' parlavo troppo bene un po' tacevo. Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze. Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l'avrebbe stampato sull'Acerba. Ma non lo stampò. Io partii [per Marradi] non avendo più soldi”.

Siamo alla prima delle tre consegne. Campana riferisce, infatti, che la consegna definitiva del manoscritto e delle altre carte ebbe luogo “ il giorno in cui loro [ Soffici, Papini Marinetti, Boccioni, Carrà, Tavolato, Scarpelli...] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista, incassando cinque o seimila lire ”. La serata ebbe luogo al Teatro Verdi di Firenze il 12 dicembre 1913.

Trascorsi una decina di giorni, mentre attende dai suoi eventuali editori una buona parola, scrive da Marradi una cartolina a Papini, Soffici e Carrà “indimenticabili compagni”, inviando la sua piena solidarietà. Ma i "compagni" ancora futuristi tacciono. Offeso ma non più di tanto, scrive con distacco  a Papini e Soffici: “Li prego di usarmi la cortesia di lasciare i manoscritti miei che ho consegnato a loro presso l’amministrazione di Lacerba. Un uomo da me incaricato passerà a ritirarli.”. E’ il 4 febbraio 1914. A Papini restano gli altri manoscritti, mentre il quaderno de Il più lungo giorno passa nelle mani di Soffici che lo smarrisce durante un trasloco. Campana si rifugia quindi a Orticaia, sui monti di Marradi, portando con sé i manoscritti rimasti delle sue poesie e delle sue “novelle” e in qualche mese riscrive il libro, che intitolerà Canti Orfici.

All’amico marradese Luigi Bandini [“Gigino”] chiede poi di aiutarlo finanziariamente a pubblicarlo, affermando: “Se sei meno filisteo di quello che sembri, mi devi tu stesso aiutare per farlo pubblicare”. Propone anche a Bandini, di fare una sottoscrizione in paese, “a quota fissa di due lire e cinquanta, con diritto a una copia del libro una volta stampato. “Io dovevo aiutare nella colletta, racconta Bandini, e- questo era l’importante- essere il cassiere, ·perché –disse Dino- a me nessuno dei tuoi compaesani affiderebbe di certo due lire: nemmeno cinque soldi. Tu sei come loro (vigoroso sputo in terra) e ti stimano’. Così fu fatto. Ma duecento lire, a due e cinquanta per ciascuno, volevano dire trovare ottanta sottoscrittori. Troppi. Si arrivò, infatti, a poco più della metà: 44. Sospirando, il povero stampatore s’accontentò di quello che s’era potuto cavare fuori coi mezzi più originali di propaganda ad personam: centodieci lire!”.

Il 7 giugno 1914, Campana firma il contratto per la stampa e il tipografo Bruno Ravagli s'impegna a stamparlo “entro il mese di luglio”. A settembre, il libro è in vendita a Firenze, presso la Libreria Gonnelli. Nella vetrina, ricorda Soffici, “il mio sguardo fu attratto da un libro giallo dall’aspetto francese ma che non era francese, e sulla copertina del quale spiccava un titolo che subito mi piacque: Canti Orfici [...]. La gioia e lo stupore di quella scoperta si confusero nell’animo mio”. Soffici legge subito il libro “da cima a fondo”, osservando che a primavera del 1914 con una lettera Campana aveva richiesto il manoscritto e che lui gli aveva risposto di non poterglielo restituire, perché era andato perso i  n un trasloco dei suoi libri e delle sue carte “da una stanza a un’altra”, “confuso nel gran sottosopra”.

Fin qui il ricordo di Soffici corrisponde ai fatti, tranne un particolare: la data in cui dice di aver risposto a Campana, scusandosi, non fu nella primavera del 1914, bensì l’inizio dell’autunno dello stesso anno e più esattamente il 22 settembre. E’ di fondamentale importanza segnalare che Soffici riconosce la sua grave negligenza in questa lettera, a tutt’oggi inedita, quando i Canti Orfici erano stati riscritti, stampati e si trovavano in bella vista nelle librerie fiorentine. Questa lettera, in cui Soffici comunica la perdita del quaderno e loda il libro appena scoperto da Gonnelli, prova che Campana, scrivendo i Canti, ha fatto a meno de Il più lungo giorno. Domenico De Robertis osserva: “di ritorno sulle proprie carte si trattò certamente, e non di ritrovamento nella memoria”. Fu Campana stesso scrivendo a Cecchi e Giovanni Boine, a parlare per primo della riscrittura a memoria dei Canti Orfici, alimentando la mitografia sul suo manoscritto, per tutto il Novecento e fino ai nostri giorni.

Non mancò allora chi pensava che il manoscritto fosse stato smarrito di proposito, o anzi, “sequestrato”, temendo che potesse mettere in ombra la poesia di Soffici o quella di Papini, che Campana considerava scritta “da un contadino che avesse letto Baudelaire”!

Soffici non capì mai la ragione del silenzio di Campana dopo la prima richiesta del manoscritto, il 4 febbraio 1914, né come il poeta di Marradi avesse “così inesplicabilmente messo riparo alla sua negligenza”, pubblicando il libro senza che lui avesse restituito il manoscritto.Non si rese conto che i Canti Orfici rappresentavano una mutazione del registro della poetica dell’autore, e non già la mera conseguenza dello smarrimento dell’autografo.  Per capirlo gli sarebbe bastato esaminare il manoscritto, rimasto a casa sua, e costatare che non era ancora “il libro” o in ogni caso non è il libro finito. D’altronde era impensabile che Papini potesse stamparlo integralmente su “Lacerba” e più impensabile ancora se si considera che assieme al manoscritto Campana aveva consegnato a Papini altri autografi, di alcuni dei quali non conosciamo i titoli, e che Lui restituì all’autore dopo la  minaccia di accoltellamento, e altri che tenne con sé, individuati soltanto negli anni Settanta e da Ezio Rimondi definiti “Autografi lacerbiani”. Essi contengono le prime versioni inedite de Il Russo, Pampa, Lettera aperta a Manuelita Echegarray e Crepuscolo mediterraneo, da me edite nel  1996 nel volumetto Dolce illusorio Sud. Campana, nel 1914, non ritornò a chiedere il manoscritto e gli altri scritti dopo il 4 febbraio, perché possedeva altre carte sulle quali lavorò non più da “vate” guidato dal dannunziano “numero che governa i bei pensieri”, ma da “cantore” e da cantore di valenza orfica, che si affianca all’orfismo letterario francese e tedesco e all’orfismo pittorico. Salendo sui monti marradesi si proponeva di scrivere “il libro” vedendo, ad esempio, che il colore del suo canto attendeva ancora “di essere stremato sino alla folgorazione del bianco, oppure addensato e ricalcato sino al più nero bitume notturno” (Ruggero Jacobbi).

Era inseguendo un assoluto che aveva trasfigurato la sua voce, forse quell’assoluto assorbito da bambino suo malgrado, e che penosamente cercava lo zio Mario, lo zio pazzo che fu mandato via dal convento per via del suo delirio per il divino e che abitò poi a casa sua sotto la tutela dei suoi. L’assoluto dello zio Mario per il divino, in Dino è forse l’assoluto per la poesia, che è, ha scritto Leonardo Chiari, la sua religione.

Così i Canti Orfici non sono una semplice ricostruzione, ma il ripensamento più intenso e originale del poeta di Marradi. Né la materia dei Canti Orfici  è più o meno la stessa de Il più lungo giorno, ritoccata qua e là, come sentenziò Soffici, ma un libro che possiede una sua unità, che si apre come Die Tragödie des letzten Germanen in Italien (La tragedia dell'ultimo barbaro in Italia) e si chiude con due versi di Whitman, lasciando “tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo”, fanciullo col quale s’identifica quando scrive a Papini che la sua vita, come quella del boy sacrificato del suo epilogo, è “ce long assassinat” .

Il lettore si domanderà perché mai, se Campana non ebbe bisogno del manoscritto smarrito per  riscrivere i Canti, ne chiese la ristituzione a Papini e a Soffici  due anni più tardi, minacciando addirittura di usare “un buon coltello”.

Siamo nel 1916,  e Dino vuole ristampare i Canti, consigliato da Cecchi e da Binazzi i quali lo invitano a pubblicare i suoi “dolorosi frammenti” in una nuova scelta, con l’aggiunta delle ultime cose. Per questo Campana torna a chiedere notizie del quaderno e crede che “certe idiotaggini non c’erano nel manoscritto di Soffici” Ed è allora e soltanto allora che egli scrive violentemente a quelli che considera i sequestratori intenzionali del manoscritto.

Del resto,  si è confuso il Campana orfico, che nel '14 riscrive i Canti, certamente ferito dai silenzi e dalla scarsa stima che i suoi scritti inediti avevano suscitato in Papini e Soffici, con il Campana del '16 che a volte perde il controllo di sé, affidandosi all’istinto e constatando, come direbbe Ottone Rosai, “che presso la  Ditta Soffici - Papini and Compagni", c'è spionaggio e complicità di carne venduta".  Ed è così che Soffici  diventa "il sequestratore" da sfidare a duello, se non avesse restituito il manoscritto e le altre carte e Papini l’uomo da accoltellare.

E veniamo al libro riscritto ora sotto il segno di Orfeo. Innanzi tutto diciamo che la sola e unica volta in cui compare l’aggettivo “Orfico” è nel titolo. Ma Campana certamente ha conosciuto la lezione orfica, o meglio esoterica, studiando a fondo I Grandi Iniziati di Edoardo Schuré. Per Neuro Bonifazi, il poeta di Marradi non nomina mai direttamente l’orfismo, né Orfeo perché “Orfeo è lui stesso” un Orfeo folle, come lo definiva Sibilla Aleramo.  Lo studioso Stefano Drei, osserva che Campana aveva  in mente alcuni riferimenti preziosi come un esametro delle Georgiche letto al Liceo faentino, quello in cui si evoca la morte di Orfeo fatto a pezzi dalle Baccanti e che curiosamente coincide in parte con il verso di Whitman, che il poeta di Marradi manipola e converte in colophon dei suoi canti:“They were all torn and cover’d with the boy’s blood [erano tutti stracciati e coperti col sangue del ragazzo]”. A questo riferimento Drei associa altri come i versi orfici del sacerdote e poeta francese, Louis Cardonnel. Drei immagina che, “per qualche chimismo della memoria, questi riferimenti si siano condensati intorno al progetto di un titolo, un giorno in cui Dino si trovava seduto al tavolino di un caffè di Faenza che aveva la lira nell’insegna e che da Orfeo prendeva nome…”.

Questa ipotesi non mi pare così azzardata, anche se in ogni caso è sempre un’ipotesi.

Il libro si apre con un lungo poema in prosa, La notte, che forse non è altro, ha osservato Jacobbi, “che un simbolo riassuntivo dell’inconscio, di quell’inferno dell’anima e del desiderio cui la fantasia deve scendere, come Orfeo, per ritrovarvi l’immagine della sua verità e della sua corrosa speranza”. Oltre a rappresentare un testo capitale della lirica del Novecento nel quale Campana abolisce la distinzione tra poesia e prosa, La notte è il poema che più lo avvicina  all’intelligenza poetica del lettore contemporaneo. Egli può scendere nella notte del Poeta speditamente senza tenebre, chiedendosi soltanto: “Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte noi abbiamo gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità ?”.

Tuttavia, essendo io nato nel Sudamerica, ci sono  “canti” inspirati al paesaggio e a personaggi di quelle terre che sento più vicini, e a essi vorrei dedicare l’ultima parte di questa introduzione. Non posso non vedere il curioso viaggiatore passare in nave davanti alle coste dell’ Uruguay, avvistare Buenos Aires  dal Río de la Plata, cantare la pampa o parlare con la creola che si innamorò di lui a Bahía Blanca. 

Campana emigrò in Argentina verso la fine del 1907 perché là era, sono le sue parole, “più facile trovare da vivere”.

Una mattina d'ottobre del 1907 Campana vide “del continente nuovo la capitale marina”, mentre la nave avanzava lentamente su “un mare giallo” (le acque verdi dell'Atlantico che a tratti ingialliscono allo scontro con quelle melmose del Rio de la Plata). Vide pure i compatrioti, gli immigrati italiani, 'mascherati' da gauchos, “alla moda bonaerense”, che gettavano arance ai nuovi arrivati, mentre un ragazzo, “prole di libertà”, faceva un cenno di saluto, un gesto che soltanto egli sembrava vedere.

Campana arriva Buenos Aires con carte commendatizie per lavorare, quale laureando in Chimica, in una farmacia della Capitale, come conferma il fratello Manlio al critico e biografo Federico Ravagli, ma dopo quarantotto ore dello sbarco pianta in asso il titolare e, senza dare nessuna spiegazione, si unisce a una carovana di lavoratori in partenza per la pampa, cioè per la provincia di Buenos Aires (una lettera del rammaricato farmacista al padre del poeta lo conferma). 

A completare l’allusione del fratello alla pampa, terra che gli inspirò il poemetto omonimo, sono venuti alla luce di recente gli esami di Campana del 1911 per l’abilitazione all’insegnamento del francese nelle scuole del Regno. E se bene fu bocciato, come indica Paolo Maccari, lo scopritore dei documenti nella Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, l’esame dal titolo Le repentir, ha una sua importanza perché evoca gli ampi spazi, la vita libera che si respira nella pampa, che lo faranno presto ringiovanire. E parlando in questi termini, Campana allude ovviamente al Sudamerica, l’America dove  non si parla l’inglese, almeno per ora, e dove vorrebbe ritornare. E se vuole ritornare è perché ci è già stato. 

Laggiù Campana, peón de vía, sterratore nelle ferrovie, con compiti (ci si passi la metafora) orfici, affidatigli misteriosamente da quel “fantasma soleggiato di felicità” intravisto sul Mediterraneo e da un Nietzsche “arrivato alla libertà della ragione che non può sentirsi sulla terra che come un viandante”, ribatte “per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità attraverso i secoli”, legge in piedi, su un vagone scoperto, la storia dei “cavalieri” della pampa, gli indiani vivi e morti, scritta nel cielo.     

Sulle rive del Mediterraneo, anche se non nell'area da lui visualizzata come illusorio sud, è nato il Dio delle tre religioni monoteistiche; in quest'altro, invece non c'è “nessun Dio” che deturpi il cielo infinito con la sua ombra, neppure quel “dio sconosciuto” che i greci adoravano per non dimenticare nessuno. L'uomo è solo, libero e “riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile”.

Laggiù, “per la forza misteriosa di un mito barbaro”, si ricreano davanti ai suoi occhi “figurazioni di un'antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orgie”. Nella pampa ritrova “un istante il contatto colle forze del cosmo”. Là, una “creola adorabile” lo ama.

In Argentina egli non chiama in suo aiuto nessuno scrittore del posto. Leopoldo Lugones, lettore attento di Dante (e anche di d'Annunzio), aveva già pubblicato, nel 1906, La guerra   gaucha, ma Campana nel ricreare le gesta degli Indios, vivi e morti “che si lanciavano alla riconquista del loro dominio di libertà” (Pampa), non parla mai del gaucho, naturale nemico dell'Indio. Non c'è neppure traccia di letture del Martín Fierro (1872) di José Hernandez, che era un mito, più che un libro sulle avventure del gaucho. Durante il periodo argentino di Campana, soggiornò a Buenos Aires ancora una volta il verlainiano Rubén Darío, padre del modernismo ispanoamericano, dopo aver pubblicato due volumi di poesia che avrebbero interessato Campana: Cantos de vida y esperanza (1905) e El canto errante (1907). Campana sembra non averlo sentito mai nominare. Il solo autore del Nuovo Mondo che egli cita esplicitamente e dice di “adorare”, è il nordamericano Walt Whitman.

Lello Campana, cugino di Dino, figlio di Torquato, seppe da suo padre, che Dino portò con sé in questo viaggio una pistola belga calibro 38 e le Foglie d’erba (Leaves of Grass) di Whitman. Io non so a che cosa gli sia servita la pistola, ma da Le foglie d’erba più che di Baudelaire prese un po’ il ritmo e un po’ la singolare cadenza del Viaggio a Montevideo. Altre “foglie” del poeta nordamericano le serviranno più tardi, per confondersi con il boy “di cui era stato sparso il sangue innocente”, per chiudere tragicamente gli Orfici.

Le pagine più alte della sua poesia che qui si pubblicano sono il frutto delle sue letture orfiche sul mistero della pampa. Esse sono trasfigurazioni del paesaggio per opera di un umileobrero del riel, di un peón de vía, non di un turista venuto dal Vecchio Mondo a fotografare il Nuovo. Per lui nella pampa, “vasta patria”, la vita ritrova per “un istante il contatto colle forze del cosmo”. “La pampa: che cielo alto”, dirà Sibilla Aleramo, la poetessa con cui visse un unico e burrascoso amore.

Nella Lettera aperta a Manuelita Echegarray (il cognome corretto è Echegaray oppure Etchegaray) dipinge gli scenari della gente della mala vita, dei malfattori e dei ladri (lunfa) senza mai fare uso del loro gergo (lunfardo) che col passare del tempo si estende al linguaggio comune dell’uomo di Buenos Aires e non poche espressioni restaranno nel tango.

Sorprendentemente, in Fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici,Campana rifà il ritmo del tango, che aveva imparato suonando il pianoforte nei ritrovi e nei bordelli dei bassifondi di Buenos Aires quando non aveva denaro. Il tango che egli suona al pianoforte è già “il pensiero triste che si balla” (Discepolo), “la sincopata nenia” (Gadda), non più quello delle campagne (campero), che certamente ha udito quando dice ne La Notte: “Credetti di udire fremere le chitarre là nella capanna d'assi e di zingo sui terreni vaghi della città...”.

Le chitarre, “sui terreni vaghi della città”, raccontano “la mitologia orale del coraggio”, dell' “orillero”, direbbero Borges e Bioy Casares. In quell'area si muovono i “rigetti di quel mare”, il mare 'argentato' della pampa. Campana, nella Lettera aperta a Manuelita Etchegarray, scrive che “uomini feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente nella notte, tessevano attorno a me la storia della città giovane e feroce”. I “rigetti” di Campana sono giustamente quelli che umilmente “commemorano le chitarre” con un tango‑canción o una milonga e che il pianoforte di un caffè o di un bordello non possono più evocare, perché le loro gesta non sono più epiche e hanno luogo nel chiuso dei conventillos, nelle stanze ammobiliate della periferia: sono argomento da 'cronaca nera', non più temi per Borges o Bioy Casares, ma per Roberto Arlt. Entrati in città, si sono mescolati a quelli scesi dalle navi e insieme tessono ora la storia della città, “conquistatrice implacabile, ardente di un'acre febbre di denaro e di gioie immediate”.

E i Canti, questi Canti che fin qui ho cercato di presentare, non sono più gli stessi che “in varii intervalli della sua vita errante” scrisse sui monti tosco-romagnoli, un uomo di nome Dino Campana e che un pugno di persone,  a tratti con più fervore che arte, lesse nei primi vent'anni del secolo. E dicendo ciò penso a un verso memorabile di Jorge Luis Borges:“ chi legge le mie parole sta inventandole”. Per ciò mi pare lecito dire che i Canti Orfici e gli altri scritti, l'opera di Campana insomma, non è più la stessa che l’autore compose, perché, nel frattempo, generazioni di lettori, lettori anonimi e lettori di nome, come Emilio Cecchi, Giovanni Boine, Bino Binazzi o Giuseppe De Robertis, oppure come Carlo Bo, Contini ed Eugenio Montale, oppure come Mario Luzi, Pietro Bigongiari, Silvio Ramat,Marzio Pieri, Fiorenza Ceragioli, Neuro Bonifazi e altri, sono passati su di essi, rivelandone un senso, in altre parole, riscrivendoli.

Ma tale “riscrittura”, che può non coincidere con l'intenzione originaria dell'autore, non è, non può mai essere definitiva. Cosa leggeranno i lettori del domani, ad esempio,  nel diario  de La Verna, nella tragica storia de Il Russo, in quella Pampa trafitta di silenzioin quella sinfonia che è Genova? Nessuno può prevedere cosa riveleranno o ritroveranno  i lettori che verranno.

Per finire. Non molto tempo fa, a Roma, sono stato invitato a una lettura di poesie di Dino Campana. Ero seduto in prima fila, e voltandomi indietro vidi  che il pubblico era composto esclusivamente di giovani: alcuni con la testa rapata, bionda o nera, ma giovani. E allora conclusi che il poeta dei Canti Orfici, malgrado il suo piccolo libro abbia fatto cent’anni, era assolutamente contemporáneo, per nulla invecchiato.

Tornando a casa riflettevo sui pochi versi di Invio, una poesia  che Campana scrisse nella sua prima gioventù:

                    

                        L’acqua ha la criniera d’argento

                        L’amore è senza ritorno

                        Bianca cavalla dell’amore

                        Il tuo tosone dorato

                        Amore senza ritorno

                      

Poi, camminando ancora per una Roma notturna, ho tradotto solfeggiando quei versi nella mia lingua, lo spagnolo, più per sentire il suono che per capire il senso…

 

                        El agua tiene las crines de plata

                        El amor no vuelve

                        Blanca potra del amor

                        Tu vellón de oro

                        Amor que no vuelve.

 

       E mi son chiesto: ma chi, chi è l’autore di questi versi: Campana o García  Lorca?

                                                                                                                   

 


                                                                                         

Nota biografica

 

Dino Carlo Giuseppe Campana nasce a Marradi (Firenze), il 20 agosto 1885 da Giovanni (Marradi, 1856-1926) maestro elementare e Francesca Luti, detta Fanny (Carmignano, 1857-1925).

Tre anni dopo nasce Manlio (Ninni), il fratello minore del poeta. Nella stessa casa con zii e nonni abita lo zio Mario, che entrerà in convento. da cui sarà poi espulso per le sue idee balzane, tra le quali predomina “quella di fuggire da affidandosi alla provvidenza”. Sarà ricoverato nei manicomi di Imola e di San Salvi, anticipando lo stesso calvario che anni più tardi percorrerà il nipote poeta.

Della sua formazione scolastica sappiamo che fa le elementari a Marradi finchè, nel 1897 ingressa nell’Istituto salesiano di Faenza, Classe III ginnasiale, ma l’esame lo supera al Torricelli, ugualmente che la prova della Classe V. Al suo arrivo nell’ Istituto salesiano è ancora presente nella memoria degli studenti un incidente di tre anni prima, accadutogli al futuro Duce, Benito Mussolini, il quale era stato messo dai religiosi a dormire con i cani da guardia per aver ferito con un coltello alla mano un compagno durante una lite. Più positivo per Dino e suo fratello è l’incontro col poeta e senatore Giosue Carducci forse nel palazzo dei Conti Pasolini Zanelli di Faenza, prima di trasferirse a Carmagnola per seguire al Convitto Civico  la prima e seconda liceo. Al Torricelli era stato bocciato in prima e seconda sessione. Alla fine del 1902 si presenta da privatista  al Liceo D’Azeglio dove è promosso in seconda. Frequenta poi i corsi della terza Liceo al Baldessano di Carmagnola, dove è  promosso in seconda sessione.

Consigliato dallo zio Torquato, si iscrive nel 1903 all’Università di Bologna, Facoltà di Scienze, corso di laurea in chimica, ma alla fine del 1903 chiede il trasferimento all’Istituto Superiore di Firenze, e il passaggio dalla Facoltà di Chimica pura a Chimica farmaceutica (Chimica e Farmacia). Frequenta poco e con scarso interesse l’Università fiorentina finché decide di darsi alla carriera militare. Così il 4 gennaio 1904 è allievo ufficiale del 40° Reggimento di fanteria di stanza a Ravenna. e quattro mesi dopo, caporale. Ma il 4 agosto di quell’anno “cessa dalla qualità di allievo ufficiale per non aver superato gli esami al grado di sergente” ed è prosciolto dal servizio. Si trasferisce a Bologna, dove frequenta i corsi di Farmacia: Zoologia, Chimica organica, Fisica sperimentale, Mineralogia e Botanica ed è rimandato in Fisica sperimentale (27) che approva il 2 novembre 1905. Insoddisfatto, abbandona Bologna e la Chimica  e inizia nell’estate del 1906 la sua grande fuga: attraversa le Alpi e si reca in Svizzera, Francia, Belgio e addirittura in Sudamerica. In questa fuga del 1906 che cessa sulle porte del Manicomio di Imola, dove resta per due mesi con la diagnosi di ”demenza precoce”, egli s’identifica con Faust e ricorda che tutta la sua vita è stata “un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso”. Per questa affermazione si serve di un verso scritto da “un poeta al tempo dei Romanoff”, un lituano che scriveva in russo, di nome Jurghis Kazimirovic Baltrusajtis. Intanto, mentre Dino è ancora in manicomio, il padre scrive al Prof. Angelo Brugia, direttore del Manicomio di Imola: “Guardi di guarire mio figlio com’Ella guarì me” e qualche giorno più tardi chiede che Dino sia restituito alla famiglia. Senza questo gesto del padre i Canti Orfici non sarebbero stati mai scritti.

Negli anni successivi Campana subisce altri ricoveri in manicomio: al San Salvi di Firenze, all’Asile des Hommes Aliénés a Tournai, dove conosce il “Russo” al quale dedica un poema in prosa in cui ne descrive e anche inventa la sua vita e morte nel manicomio belga. Tra un manicomio e l’altro, un foglio di via e l’altro, non smette di viaggiare, spostandosi per mezza Italia. Verso la fine del 1907 parte per l’Argentina, dove resta probabilmente fino al febbraio 1909. Di quel soggiorno ci restano numerose tracce nei  Canti Orfici. Al suo ritorno si presenta in paese da “marinaro” “bello e allegro” ribadisce a tale proposito la sua zia Giovanna Diletti Campana, ricordando che giuocava con Maria (Mimma), la cuginetta adolescente, per la quale traduce Il bacio di Verlaine e una quartina in inglese, di cui si è scoperto l’autore soltanto l’anno scorso, grazie alle ricerche di Susanna Sitzia: è la poetessa americana Julia Ward Howe e il titolo della poesia è In Music Hall.

Dopo il primo ricovero al San Salvi, fa ritorno a Marradi  per interpretare la parte di suo padre, il maestro Giovanni, in una commedia musicale di  suo amico, Anacleto Francini. Cerca disperatamente un’occupazione,  chiedendo di essere ammesso ad un posto di “alunno delegato di pubblica sicurezza”, ma la richiesta non viene accolta perché Campana “non trovasi in possesso di tutti i requisiti richiesti”. Pochi giorni dopo si presenta nell’Istituto di Studi di Firenze quale aspirante all’insegnamento del francese, ma l’esito degli esami è fallimentare, osserva Paolo  Maccari che ha scoperto i documenti.

Tra i suoi spostamenti per Italia, è da segnalare l’escursione con amici faentini per il monte Falterona. Uno di loro fotografa il gruppo durante una sosta alla cascata dell’Acquachetta nell’Appennino tosco-romagnolo. Stefano Drei  del Liceo Torricelli di Faenza è lo scopritore della fotografia inedita.  

Torna a Bologna per fare il quarto anno di chimica pura ma “quelli del suo paese” gli “fecero fare una persecuzione” che, afferma il Poeta, gli impedì di continuare. Cambia università, “ma a Genova fu peggio”. Per un certo tempo lavora come tipografo nel capoluogo ligure. Camillo Sbarbaro lo porta a casa sua, ma i suoi “lo sopportano appena, per via dei pidocchi”. E ancora a Genova, per cause sconosciute, viene arrestato e rinchiuso nel carcere giudiziario di Marassi. Cacciato dalla città con foglio di via, giunge a Firenze accompagnato dalla polizia. Vaga per la provincia di Firenze e si ferma a Bibbiena, dove è arrestato e poi espulso, con la qualifica di “squilibrato di mente”. Fugge ancora in Svizzera, ma “a  Berna lo straniero non poté più a lungo sostare”, come scrive in un suo poemetto.

E  da Berna, “disperato e sperso per il mondo”, manda all’amico Luigi Bandini il primo manoscritto con una parte delle sue poesie. Di ritorno in Italia i primi giorni di dicembre del 1913  si presenta a Papini, che assieme  ad Ardengo Soffici dirige la rivista “Lacerba”, con un manoscritto dal titolo Il più lungo giorno, che Papini consegna per un parere a Soffici. Quest’ultimo, durante un trasloco, smarrisce il quaderno. Più di una volta Campana ne chiede la restituzione, ma non ottiene risposta se non dopo che, facendo a meno di quella stesura, riscrive e pubblica nel 1914 la raccolta dei canti con una nuova impostazione. Da vate diventa cantore e cantore orfico, qualifica che soltanto compare nel titolo del libro, anche se la sua poesia possiede una valenza orfica innegabile.

L’anno seguente soggiorna per un breve periodo in Sardegna assieme allo scrittore Arturo Garsia. Dopo un paio di mesi abbandona l’isola, che considera “un paese arido e scoraggiante”, e si trasferisce a Torino, dove fa lo strillone nelle strade per la “Gazzetta del Popolo”. Nel 1916 minaccia Papini di farsi giustizia “con un buon coltello” se non gli saranno restituiti “il manoscritto e le altre carte”.  Il manoscritto smarrito sarà ritrovato nel 1971 nella casa di Soffici, mentre delle altre carte, alcune saranno restituite all’interessato e altre rimarranno tra la corrispondenza di Papini fino agli anni Settanta.  

Per un breve periodo Campana crede di avere trovato l’amore nella poetessa Sibilla Aleramo, ma si tratta di un’illusione. Il loro rapporto dura poco e finisce “in un’alternativa quotidiana e notturna di violenze e disperazioni” che rendono a sua volta folle l’amante. Sibilla fugge da Dino e si nasconde in case amiche finché le fa visita Emilio Cecchi che la trova con un occhio pesto. “Mi scongiurò, racconta Sibilla,  di rompere ogni rapporto con Dino, se non volevo perdermi”. Allora Dino, pazzo d’amore, vaga ubriaco per Firenze. Nei momenti di calma dà lezioni  di latino a una bambina, figlia di  Virginia Tango Piatti. Sibilla lo vedrà un’ultima volta in prigione a Novara, singhiozzante, attraverso una doppia grata a maglia All’inizio del 1918 Campana viene rinchiuso nel manicomio di San Salvi, e qualche mese più tardi nel cronicario di Castel Pulci, dove morirà, forse di setticemia, 14 anni dopo, il 1º marzo 1932.

  


    

OPERE DI DINO CAMPANA (Scelta)

 

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-, Fascicolo maradese inedito del poeta dei «Canti Orfici», a cura di Federico Ravagli, Giunti-Bemporad-Marzocco, Firenze 1972

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-, II più lungo giorno, I. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti orfici, II. Testo critico, a cura di Domenico De Robertis, prefazione di Enrico Falqui, Archivi d'Arte e Cultura nell'età moderna-Vallecchi, Roma-Firenze 1973, ora a cura di Stefano Giovannuzzi, Le Cáriti, Firenze 2011(2ª Ed.).

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