A Mario Maranzana « Pazzo sul serio »

G.C.M. 

 

QUASI UN UOMO 

 

Visita al poeta Dino Campana nel Manicomio di Castel Pulci

 

due tempi e una pausa

di

GABRIEL CACHO MILLET

 

Versione italiana di Mario Maranzana e dell'autore
 
 TIPOGRAFIA COLANGELO
ROMA

 


 

PRIMO TEMPO

 

Il palcoscenico vagamente allucinante nella sua desolazione è vuoto. Non c'è sipario. Mostra una sala del manicomio di Castel Pulci (Firenze) nella quale sono in corso lavori di ammodernamento.                                    

Due praticabili a gradoni, uno a destra uno a sinistra, potrebbero indicare la prima fase della costruzione di tribune per universitari che studieranno nel futuro i malati mentali. Sia come sia, il direttore dell'istituto ha ordinato di porre sui gradoni dei praticabili delle sedie per accogliere un gruppo di persone che sono venute a visitare un infermo illustre: il poeta Dino Campana (1885-1932). 

Sulla parete di fondo del palcoscenico una impalcatura di quelle usate dai muratori per intonacare. Sulla stessa, strumenti di lavoro. Alla destra, dietro la tribuna, una scala che conduce al piano superiore. Ai lati della impalcatura due porte: una chiusa e l'altra aperta da dove proviene una luce accecante, surreale.

Tutti gli spettatori saranno i componenti della comitiva in visita al manicomio. Una scala unisce il palcoscenico alla platea, onde permettere a quella parte di pubblico che lo vorrà di andare a sistemarsi sulle sedie poste sul palcoscenico. La Direzione del teatro saprà trovare il giusto sistema per mettere a conoscenza del pubblico questa particolarità dello spettacolo.

Aperta di scatto la porta di sinistra apparirà Dino Campana. Ha circa 45 anni. E' vestito correttamente d'un abito che gli andava bene anni addietrö e ora gli sta stretto. Un tic che si vedrà ripetuto angosciosamente, darà allo spettatore la impressione che la manica sinistra della giacca sia troppo corta, sì da costringere chi la veste, a tirare con la mano l'orlo della manica. Cammina verso il centro del palcoscenico con l'aria di chi sopporta una vessazione.


* Ringrazio la Nuova Vallecchi e gli eredi dell'epistolario inedito di Dino Campana che mi hanno consentito in questo testo la citazione di frammenti dell'opera campaniana editi e inediti.


DINO

 

Dopo essersi guardato attorno con civile diffidenza, china il capo a destra e a sinistra come un saluto ufficiale.

Il suo parlare sarà sommesso, rispettoso, convenzionale.

 

Come sta sua maestà?

Pausa.

 

Vi manda Vittorio Emanuele III « il breve ». Lo so.

 

Avvicinandosi alla platea.

 

Il direttore mi ha detto che vi siete dichiarati accesi ammiratori della mia passata attività letteraria e che siete in visita per darmi coraggio.

 

Meravigliato.

 

Non so perché anche voi vi siate disturbati... Non saprei cosa dire.

 

Guarda verso la porta per farsi sentire dal direttore.

 

Io sono autore di un solo libro, e per giunta, frammentario. Ero scrittore, ma ho dovuto smettere perché non coordino... Nessuno è mai venuto a visitarmi di sua propria volontà. Chi s'arrampica per vedermi in questo castello degli irragionevoli, è sempre suggestionato.

 

Vedendo le tribune.

 

Lavorano qui. Sento gli operai martellare, segare, cantare. Che strano che cantino! Il popolo d'Italia non cantava più. Non vi sembra questa la più grande sciagura nazionale?

 

Colpendo con i pugni l'impalcatura come verificando la sua resistenza. Tra sé.

 

Cosa staranno costruendo? Io non domando mai niente. Non ho molto da dire a questa gente, perché non sono nei miei affari.

 

Indicando le tribune.

 

Si direbbe che stanno costruendo un'aula magna. Ecco, sì. Poi quando sarà finita saliranno al Castello degli Irragionevoli gli universitari di Firenze a esaminare i matti. « Vada! » « Venga! ». « Ci racconti la sua vita! ».

 

Sorride ironico. S'avvicina inaspettatamente a una spettatrice fissandola negli occhi.

 

Non abbia paura! Solo i suoi occhi mi possono restituire la mia immagine. Qui non ci sono specchi per vedersi invecchiare.

Non è che mi importi. So di essere vecchio e ferito e che né da vivo e tanto meno da morto si avrà ragione di me. Vorrei solo sapere se sono presentabile per questa specie di cinematografo cui mi ha condannato il direttore.

 

Al pubblico.

 

Non aveva nessun senso la vita che facevo prima. Non voglio vedere nessuno. Io ho scoperto qui nobili signori, studiando il cielo, la stella avvelenata sotto cui sono nato.

 

Si ferma bruscamente. Rimane immobile, affascinato, fissando la punta della scarpa d'uno spettatore.

 

Si può sapere esattamente il perché della vostra visita?

 

Terrorizzato.

 

Per caso voi non sarete venuti per chiedere che mi dimettano, vero?

 

Pausa. Con faccia paziente, ma che esprime la tragica tensione della sua disponibilità, attende che qualcuno lo interroghi.

Con grande comprensione.

 

Non dite niente? Allora, dico io: Voi rappresentate il re d'Italia che mi vuol nominare suo delegato personale in Germania, ma io non voglio andare in Germania e in nessuna altra parte.

 

Con lucida determinazione.

 

Dal manicomio di Castel Pulci non mi muove neanche Dio, se c'è.

 

Pausa di imbarazzo. Nervoso.

 

Dite a Sua Maestà che gli bacio rispettosamente il piede (Tra sé) destro o sinistro? ... E' uguale.

 

Diplomatico.

 

E che la ringrazio del gesto, ma...

 

Assolutamente semplice, convinto.

 

Quando tutti parlavano della ridicola e stupida idea di un miracolo nazionale prodotto dal meccanismo della guerra, avevo pensato di inviare a Sua Maestà il re d'Italia i miei « Canti Orfici ». E' un libro per ammazzare la gente! Ma l'avevo già dedicato, per confusione d'idee, al Kaiser Guglielmo II, imperatore dei germani. Allora, mi sono astenuto per non ferire le Reali e Imperiali suscettibilità.

 

Critico.  

 

Mi consideravo a quel tempo, l'ultimo barbaro naufragato sulle spiagge del Mediterraneo.

Acqua passata.               

Il mio posto di combattimento è qui, a Castel Pulci.

 

Elettrico.

 

Faccio il pagliaccio del governo per mandarlo avanti.

Ho tanto da fare!

Non ho tempo per le visite.

Lor signori mi capiscano.

Sono stato cinque o sei mesi tra la vita e la morte.

Il mio cervello era una macelleria shakesperiana. Il sangue mi scorreva dalle guance fino ai piedi.

Una cosa terribile!

Marconi Guglielmo, mi ha investito con le sue onde elettriche sull'alto d'una montagna, a Genova.

La polizia marconiana mi colpì con una tale brutalità che persi la vena poetica.

La poetessa Sibilla Aleramo fu testimone. Vide tutto. Raccolse nella sua veste la mia vena poetica che si dibatteva tra le pietre come la coda di una lucertola.

 

Scientifico.

 

« Ora di già nel rosso del fanale

Era già l'ombra faticosamente

Bianca... »

Da allora sono nel giro elettrico.

Mi chiamo Dino Edison Campana.

Avevo qualche arte, ma ora non ne ho più.

Mente fulminata.

Non connetto.

Tanto vagare.

Questo si paga.

 

Come un elenco di gesta superate.

 

Vagare, vagare a tentoni nella notte, fuggendo il bagliore della luna elettrica, con Orfeo, da solo, verso un mondo perduto, eterno, barbaro...

E dopo il rito...

Scorrere sopra la vita un'altra volta lasciando i ricordi nel paesaggio italiano, conoscendo la felicità più profonda, nella più profonda tristezza.

Pausa.

A me,

A me... mi ha ucciso la luna elettrica.

 

S'interrompe guardando verso la porta.

 

 Io non posso fare un passo senza che Marconi non me lo ordini!  

 

Cammina come un robot.

 

Vedete?

Il re invece che in Germania, poteva mandarmi in Spagna, l'unico paese al mondo senza filosofia. Spagna danzante. Ribera: segni scheletrici.

 

Di scatto.

 

Cittadino della luna di Spagna voglio essere, per ridere della morte nera e di questa, e di questa...

 

Additando una tenue lampadina elettrica.

 

Di questa lampada.

 

Nuovo scatto.

 

Giornalista voglio essere quando esco di qui. Giornalista in una grotta in fondo al mare. In una grotta in fondo al mare stamperò un giornale di cultura europea per tutti! la realtà come dimostrazione dell'attuazione dello spirito. Di letteratura niente! Un giornale per tutti!

 

Si interrompe come per rispondere a « qualcuno » che lo « chiama » dalla lampada.

 

Non sono più poeta. Lo sai.

Giuro che dico la verità. Cosa potevo fare. Dimmelo tu! Il popolo era assente, la coscienza perduta e per diventare mistico non ero abbastanza vile.

No! Come puoi credere che faccia l'Amleto con te?

Io facevo l'orso, lo strambo, solo con quelli che non avevano gli elementi di sensibilità per cui si potesse intendere: per il bisogno di sfuggire a dei fastidiosissimi... titillament. Ma con te no!

 

Allarmato.

 

Mica mi vorrai mandar via di qui, vero?

 

Sottomesso.

 

Certo! Certo! Certo! Farò quello che tu vuoi...

 

Al pubblico.

 

Marconi. Vuole che solfeggi una fantasia che ho scritto là nel porto di Genova.

Che pena! Povero scienziato!

Se non è aggrappato ai suoi fili invisibili non è capace di varcare il mare. E ha sempre bisogno che ci sia qualcuno all'altra sponda. Qualcuno che lo ascolti e che gli risponda.

Con tutta la sua scienza — parla con gli oceani e inventa un sillabario: ta ta ta ton ton ta ton io sono molto più potente di lui.

Le mie sillabe non hanno frontiere. Sono barbare bar bar bar.

 

Correggendosi.

 

Lo erano.

 

Alla lampada.

 

Sì, sì, adesso, sì, accademico.

Vuoi davvero la doppia figurazione?

Vuoi ubriacarti di luce con le mie note musicali? Sentirai cosa mi ha fatto dire un fantasma soleggiato di felicità, nel porto, a Genova.

 

Solfeggia.

 

« Per i vichi marini nell'ambigua

Sera cacciava il vento tra i fanali Preludii dal groviglio delle navi: I palazzi marini avevan bianchi

Arabeschi nell'ombra illanguidita Ed andavamo io e la sera ambigua:

Ed io gli occhi alzavo su ai mille E mille e mille occhi benevoli

Delle Chimere nei cieli:

Quando,

Melodiosamente

D'alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia

Come dalla vicenda infaticabile

De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale

Dentro il vico marino in alto sale,

Dentro il vico ché rosse in alto sale

Marino l'ali rosse dei fanali

Rabescavano l'ombra illanguidita,

Che nel vico marino, in alto sale

Che bianca e lieve e querula salì!

 

Canticchiando.

 

« Come nell'ali rosse dei fanali

Bianca e rossa nell'ombra del fanale

Che bianca e lieve e tremula salì!... »

Ora di già nel rosso del fanale

Era già l'ombra faticosamente

Bianca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

Al pubblico. Serio. Deluso.

 

Non la capisco più, questa cosa qui.

 

Alla lampada.

 

Marconi, non mi far solfeggiare più.

Qualche parola potrò ancora dirvi di quelle che amate, ma le avrò pagate molto care. Papini dice che...

 

Al pubblico.

 

Sapete chi è Papini? Papini Giovanni. Letterato, autodidatta, signore di sacre riviste, di giornali. E' un enfant terrible. Un ragazzaccio che rompe a fiondate i lampadari della strada, però i sassi glieli forniscono i vetrai. E' un genio compreso. Io glielo dicevo quando si era ancora in tempo: « La vosta speranza sia: fondare l'alta cultura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche, sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze? »

Niente da fare. Papini non prese mai in considerazione il mio suggerimento! E ancora non so perché!

 

Confidenziale.

 

Lui dice che sono un malato dello spirito penetrato dal fuoco della poesia ma che mi manca l'equilibrio per essere un buon poeta...

Come un ordine. A Castel Pulci, Dino Campana, a Castel Pulci!

 

Didattico.

 

Il gran segreto di Papini Giovanni è quello di avvilire i suoi detrattori o screditare quelli che possono valere quanto lui.

 

Patetico.

 

E allora? Quando saprà capire chi gli può essere amico? ... Papini ha avuto dalla polizia l'incarico, o se lo è preso, di indirizzare la giovane letteratura italiana...

E' meglio Soffici... Soffici Ardengo... Stenterello che fa il poeta... Conosce Rimbaud... Fa il pittore... Conosce Picasso. Blu. Purtroppo conosce anche Papini, è suo amico.

Meglio dimenticarli. Ma meglio ancora è dimenticare queste offese alla poesia.

Lontano da loro sto meglio.

 

Dando l'idea di chi è rinsavito.

 

Qui mi occupo di far sposare le principesse d'Europa sotto falso nome.

Le principesse hanno figli fatti a macchina! Figli senza vita.

Tutte o quasi son sterili.

Io  sono per la natalità elettrica.

Mi occupo anche di provocare terremoti per risolvere le questioni italiane.

L'Italia è tutto un falso dall'inizio alla fine.

Un popolo impossibile. Con quel naso che ha per inventarsi ogni giorno la sua storia, e se può, anche quella degli altri, non c'è giudizio, non c'è governo, non c'è Dio né Madonna che tenga! Ho detto Dio? Ah! L'Italia è quella che è sempre stata: teologica!

 

Ad una spettatrice.

 

Perché ride? Non rida, signora! Ci sono dei giorni in cui sono pazzo, dei giorni in cui sono... Dipende... da Marconi. Non rida, madame! Io sono pazzo! Vuole che chieda al primario il mio certificato medico? Davvero, sono pazzo.

 

Con una risata sinistra.

 

Posso scendere dove sta lei e adornare il suo grazioso collo con una striscia rossa non più larga del rovescio d'un coltello, e ritornarmene su tranquillamente con la sua testa sotto il braccio, come Perseo. Marconi potrebbe trasferirmi in un altro manicomio, tenermi al buio per un mese. Ma per lei non ci sarebbero Madonne. Il suo sorriso non tornerebbe più perché il suo sorriso è qua.

 

Indica la testa mozzata sotto il braccio al pubblico.

 

C'è qualche poliziotto nella vostra comitiva?

 

Sulla difensiva.

 

Se nella vostra comitiva c'è qualche poliziotto, anche in borghese, se ne vada! O non dico una sola parola di più.

 

Scruta in platea.

 

Sono un uomo libero, io! Insomma, libero libero sono stato solo a Odessa, con i Bossiaki. I Bossiaki sono come zingari, mi hanno offerto pane e letto nella carovana. E libero, viaggiavo senza camminare. 

 

Definitivo.

 

Io vidi l'uomo libero tendere le braccia al cielo infinito non deturpato dall'ombra di nessun Dio, sulla Pampa, a Buenos Aires. Ah, la nera corsa dei venti!

 

Ma dopo tornai a Firenze: c'erano troppi dei e li avevo tutti contro.

 

Tra sé.

 

E allora l'ombra era faticosamente bianca!

Lessi il Chisciotte per pensare, e un'altra volta l'ombra era faticosamente bianca. E bianca era l'uniforme della polizia di Marconi, mi sono dato per folgorato. Non avevo un posto dove fuggire. Alzai la mia camicia bianca e mi arresi. Cosa potevo fare?

 

Freddo. Logico.

 

Cosa può fare un uomo quando gli manca 'la terra sotto i piedi? Si tira un colpo o s'inventa una patria.

 

Vergognandosi del paradosso.

 

Io me ne sono inventata una: la Germania. Io sono stato l'ultimo naufrago barbaro in Italia. L'avevo già detto questo?

 

Rievocando.

 

Pazzo! dimenticati del Kaiser e grida con noi: « guerra unica igiene del mondo! » 

 

Come un'eco.

 

Guerra unica igiene del mondo. Questo lo gridava Marinetti. Filippo Tommaso. Poeta. Megafono di latta...

 

Retorico.

 

« Che volete voi? che volete, Italiani? menomare o crescere la nazione? Voi volete un'Italia più grande non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna ma a prezzo di sangue e di gloria. Fiat! Fiat! Si faccia! »

Così gridava D'Annunzio Gabriele.

Vate ufficiale. Macchinista senza fuoco.

 

Urlando come gli Indiani, con la mano sulla bocca.

 

Alla guerra, gridai anch'io! Per il miracolo interventista!

 

Trionfale da esercito in cammino.

 

« Italia che fai processione

Con il badile prendi il fucile ti tocca andar

Fora la giubba rossa delle stelle

Questa volta con il cannone

Italia che fai processione

Prendi il fucile guarda il nemico ti tocca andar. 

Guarda il nemico che poi non t'importa

Ti sei fatta a forzare la pietra

Prendi coraggio se batti la porta

Questa volta ti si aprirà.

Cara Italia che t'importa

Ti sei fatta a forzare la pietra

Prendi coraggio questa volta

Che la porta ti si aprirà ».

 

Pausa.

 

La porta non si aprì. Il mondo rimase sporco come era prima della guerra.

Ed io vidi allora arrivare dalle macerie tutti i mangiapane, gli ultimi venuti per dare fiato agli organi magni della cultura. Sentii di non avere alcuna capacità per farmi in Italia una situazione che mi potesse dare il pane.

Allora andrò a Parigi, dissi.

A Parigi si sopporta meglio il disprezzo.

Potrò lavorare.

Là si sa che tutto è sforzo individuale...

 

Dolorosamente.

 

Italia non ti posso lasciare!

 

Deciso.

 

Resto! A fare cosa?

 

Intimo.

 

Mi sembra ieri quando un picchetto di soldati mi scortava al manicomio di Firenze.         

 

Marciando.

 

Unò duè, unò duè, unò duè.

 

Fermandosi di botto.

 

Soldati, sergente! Ascoltatemi! Non mi rinchiudete! Ho sognato che saltavo dalla trincea e che gridavo al nemico:

Uccidetemi! Uccidetemi! Viva il re! Trento e Trieste sono nostre.

 

Riprende a marciare.

 

Unò duè, unò duè, unò duè.

 

Si ferma di botto. AI picchetto supplicante.

 

Soldati! Sergente! Non sono un eroe... sono un contadino. Miravo verso la terra. Confondevo il fucile con la zappa. Uno di più a morire senza sapere perché.

 

Marciando.

 

Unò duè, unò duè.

Non mi rinchiudete! Va bene! Non farò il soldato. Mi batterò da civile. Curerò i feriti e forse potrei guarire io stesso, ma non ci tengo più ormai... Lo giuro... Solo volevo una ragione per morire.

 

Al pubblico.

 

Neanche come carne da cannone mi vollero al fronte. Riformato! Quattro volte. La mia partecipazione non fu considerata necessaria.

Morivano come mosche! Cosa costava lasciarmi andare a morire?

Matto da legare! Pericolo internazionale! Ed era vero!

I « flic », i poliziotti e i fiorentini sono stati la causa della mia rovina.

Sono 15 anni, 15 anni che, giorno e notte, mi è contestato il diritto di esistere e se finora non mi sono tirato un colpo, è solo per vizio di orgoglio.

Se mi fossi tirato un colpo non avrei studiato chimica, non sarei stato poeta. Ma avevo quel vizio e così sono stato costretto a rifugiarmi a Bologna. All'Università. Facoltà di Chimica Pura. Sfuggivo a quelli del mio paese che mi perseguitavano con ferocia lazzaronesca.

 

Piagnucoloso.

 

Giuro che dico la verità.

Per quelli di Marradi Dino non era altro che un avanzo di galera.

Perché? Perché scappavo dalle loro infamie e venivo rimpatriato, pidocchioso e stracciato.

Chiamavano la polizia, facevano perquisire la mia casa e così non si poteva andare avanti. Dicevano poi che ero anarchico e che studiavo chimica a Bologna per imparare a fabbricare bombe, che volevo ammazzare il re e i professori. Il re ,capite? Io?

Perché chimica? La colpa è di mio zio Torquato. Non dovevo seguire il suo consiglio, ma non sapevo cosa stavo facendo. La verità è che non ho mai saputo quello che faccio. Mi lascio trascinare. Ma ora no. Con la suggestione no!

 

Sale sulla scala.

 

Ah questo incubo dei portici bolognesi!

Sanguina una goccia di luce.

Sono io l'unico che sanguina a Bologna, in questa stazione di treni che vanno e vengono.

Bologna! Città di beghini e di ruffiani. Mai un omicidio, mai un fatto di sangue!

Bisogna modificare il passato.

Abbasso la chimica, Viva la bellezza delle mie suole per il mondo!

 

Ispeziona con ansia le sue tasche. Soppesa alcune monete che vi ha trovato.

 

Ostia! Solo mezza lira.

Bisogna rompere con tutti. Non si può stare sempre nello stesso luogo. Forza Dinuccio! Smettiamola con questa indecisione. Oggi o mai, vagabondo.

Becco il primo treno che mi capita davanti!

 

« Vede » un treno apparire dalla parte opposta. Corre.

 

Questo! Questo! Senza soldi e senza meta.

 

Corre al limite del palco e aspetta di spalle. Poi mima la salita sul treno e camminando nello spazio tra i due praticabili del palcoscenico fingerà di essere nel corridoio di un vagone e di guardare attentamente nei vari scompartimenti per scegliersene uno adatto a lui. Lo trova, vi entrerà e siederà sul divanetto, che sarà lo scalino del praticabile di destra. Cambierà posto mettendosi sullo scalino del praticabile di sinistra.

 

Prima classe. Ostia! Se mi pesca il controllore con mezza lira in tasca mi manda al fresco! E io al fresco non ci vado. Non sono un malfattore. A 18 anni si richiuse la porta della prigione, piangendo gridai: Governo ideale che lasci in libertà tanta, ma tanta canaglia morale!

 

Di nascosto agli altri viaggiatori immaginari; ispeziona. ancora le tasche.

 

0,50 lire. Dove vado con 0,50 lire?

 

Illuminandosi.

 

Il cesso! Dove sta il cesso?

 

S'insinua nei corridoi tra le sedie sui praticabili, prima a destra e poi a sinistra. Al pubblico.

 

Ritirata!

 Raggiunge il praticabile di centro. Agguanta una sedia che da quel momento sarà il water. Tutti i suoi movimenti sono quelli veri di chi sta sul water d'un vagone ferroviario.

 

Eccomi qua, davanti ai portici sanguinanti per dove è scappata la mia ombra, solo con Nietszche, Wagner del pensiero.

E alla destra e alla sinistra, i velieri di terra fumano. Tutto anela alla distruzione.

 

Canticchia un motivo wagneriano punteggiato dal ritmo di treno in marcia.

 

Il lugubre rumore della ferramenta che parte commenta già incomprensibilmente il mio destino.

 

Riprende a canticchiare.

 

Ha imbarcato il mio treno il mio io più felice? non ancora morto, ma non più vivo, che sfiora con la mano le stelle e con il piede sporco la terra?

 

Riprende a canticchiare.

 

E allora in cammino!

Non voltare la testa indietro, Dino Campana!

Parti! Vai! Come una mostruosa farfalla la tua nave scorre con le sue bianche vele, sul mare tenebroso. Sì, Dino. Scorrere sopra la vita! Questo è e sarebbe necessario! che la vita divenisse un sogno della vita!

 

Guarda dal finestrino.

 

Bologna la dotta. Addio centro di cultura! Portici delle mie compagne! Scienziate che vanno a tre a tre. Sorriso severo intento e masticato di prognosi riservata! Un farmacista in meno...

 

Come se sentisse dei colpi alla porta.

 

Occupato.

 

Fra sé.

 

Che sarà di me? Che sarà di me con questa instabilità che mi spinge a cambiare continuamente? E se il mio ascetico veliero fosse un'illusione? Cosa mi aspetta dopo il sogno?

La felicità? Sarà quello che sarà!

Avanti naufrago cuore!

 

Riflettendo.

 

Salirò sulle Alpi per ascoltare i mille e mille ticchettii, le mille voci del silenzio. Povero e ignudo, felice di essere povero e ignudo, andrò fin dove la neve mi sbarrerà il cammino.

Andrò a cogliere per un istante il riflesso del paesaggio come un ricordo incantevole e orripilante nel fondo del mio cuore... salire, salire.

Ride. Di colpo smette e sente una voce immaginaria provenire dalle altezze montane.

 

Rispondendo.

 

Chi c'è? Chi sei?

 

Confidenziale.

 

Sei un poeta del tempo degli tzar Romanoff?

 

Cercando di sentire meglio.

 

Mi stai dettando un verso?

 

Rivolto alla voce.

 

Che dici?

 

Dopo aver ascoltato con attenzione.

 

Tutta la mia vita sarà un'ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull'abisso.

 

Alla voce.

 

Lo sapevo.

 

Nuovi colpi immaginari alla porta.

 

Occupato, occupato.

 

Si aggiusta la cintura. Si fa un massaggio affettuoso e paterno allo stomaco.

 

Dovrai abituarti a digerire un giorno sì e un giorno no.

 

Guardandosi ad un immaginario specchio del cesso.

 

Dino, hai una faccia indecisa, ma gentile di ansia e di stanchezza.

 

Torna a guardarsi.

 

Bello di tormento, inquieto, pallido, assetato, errante dietro le larve del mistero.

 

Orina guardando il muro del fondo. Sta per uscire dal cesso.

 

Mamma! Che fai qui?

 

Facendo la madre.

 

« Stai male e ci fai star male. Benedetto figliolo, giovane e robusto, ancora mantenuto dal padre ».

 

Con altro tono.

 

Vattene mamma! Via, via Fanny, Tu non esisti!

Vado a ritrovarti nel fondo di un postribolo... Sono Faust, mamma. Uno che non muore mai. Sono un poeta ora!

 

Ride con sarcasmo. Un faro mobile scruta sul palco come se cercasse qualcuno. Dino viene preso dalla luce. Da quel momento il faro rincorrerà sul palcoscenico Dino che cerca di sfuggire.

 

Polizia, polizia, polizia! Mi cercate per rinchiudermi di nuovo, ma io in carcere non ci vado.

 

Scuote la testa.

 

E nemmeno al manicomio. Io non mi ripeto. Questo lo fa la gente da nulla. Sono un poeta, io!

 

Salta dal palco in platea fino a uscirne.

 

Non vi riconosco nessuna autorità. Siete solo i tutori di uno stato poliziesco tarato, liberale. Andate a fare in curo.

 

Dino sparisce. Lo si sente nei corridoi del teatro bestemmiare, gridando parole incomprensibili. Appare improvvisamente in un palco centrale.

 

E allora? Cosa aspettate per picchiarmi? Lo farete ora o dopo che mi abbia visto il magistrato? Come si vede che state agli ordini di Giolitti! Quando? mi domando io, quando un solo italiano, un ragazzo s'intende, troverà il coraggio di sputare sulla tomba di Macchiavelli?

 

Pausa retorica.

 

Nella mia onorevole condizione di disoccupato, non trovo lavoro. La società, i cari sciacalli del Cupolone fiorentino e il giolittismo del convivismo sbirro di Firenze mi hanno respinto. Così mi sono trovato costretto a vivere sulle spalle di mio pa(Ire. Due lire al giorno. Non sono pazzo! Lasciatemi in pace. Opto per il partito dei più deboli. Parto. Me ne vado.

 

Riattraversa la platea notturno, come perso in mezzo alla gente. Illuminato da dietro, la sua ombra si riflette enorme sul fondo del palcoscenico. A qualche spettatore.

 

Signori, perché io non sono lì? Non dite niente al direttore... Ho dei giorni in cui non so dove mi trovo. Amnesia. Poi riacquisto la memoria.

 

Additando lo spazio fra palcoscenico e platea.

 

L'Arno secolare. Il fiume delle menzogne.

Rigovernature delle lettere italiane.

 

Sputa. Appoggiato al bordo del palcoscenico, frontale al pubblico. Fischietta.

 

Devo scrivere una lettera ad un critico di giornale. Ho preso una decisione e lui la deve conoscere.

 

Ora Dino è concentrato ad immaginare una lettera che scriverà. Tutto è detto molto rapidamente e nervosamente. Qualche pausa per prendere degli appunti.

 

Caro Cecchi. Caro? No. Caro Signor Cecchi:

Sotto il ponte Vecchio, alla luce della luna, dove i flic mi hanno abbandonato più morto che vivo, con un affilato coltello, aspetto che sorga il giorno della vendetta.

 

Si mette il lapis in bocca.

 

Li ho sfidati quattro volte, ma quelli, con finocchia dolcezza, fanno finta di non capire. Sto parlando del macabro spaventapasseri e impuro ciarlatano di piazza della poesia, Papini e dello Stenterello en poète qui se tord confit dans le bleu du jour, Ardengo Soffici.

Signor Cecchi, amico mio, nell'inverno del 13. ho presentato il mio manoscritto Canti Orfici a Papini a Firenze.

Il Barbablu delle lettere mi accolse molto bene, lesse i miei canti, e mi disse che non erano quello che si aspettava, ma che erano molto ma molto bene, e pagandomi un caffè alle « Giubbe Rosse » — io non avevo un centesimo — mi restituì il mio ma- noscritto. Tre giorni dopo, ritornò a chiedermelo, ma, siccome è sicuramente venduto ai flics, che mi seguono passo passo (Giolitti imperante), passò il mio manoscritto a Soffici e da allora i miei canti non li ho visti più. Fecero così perché mi sapevano strettamente sorvegliato e contro me tutto era lecito.

Quegli sciacalli mi rubarono quello che doveva essere il mio documento di identità, la mia difesa e la giustificazione della mia vita! Alla fine, stanco di aspettare e giurando vendetta, fuggii sui miei monti e, come un cane cieco nella nebbia, Nietzsche mi guidava la mano ho riscritto a memoria i miei canti.

Lì, mi riuscì a farli pubblicare da un bruto del mio paese. Soffici, l'infame, mi scrisse una lettera nella quale esaltava il mio libro, ma non volle restituirmi il manoscritto, cosa che non gli servirà a nulla perché, questa mattina stessa andrò da lui e gli dirò « Merde maccaròni, Sale négre! Il manoscritto o la vita ».

 

Sale sul palcoscenico. Al pubblico.

 

Dovevate vedere che calore, che manuale affettuosità quando lessero il mio manoscritto. « Bravo Campana! Un bicchierino al Paszkowscki? Pacche sulle spalle a distanza, così...


Prova sulle spalle d'uno spettatore. . per paura di beccarsi qualche pidocchio.

Si gratta e si scopre un pidocchio e lo mostra al pubblico.

 

Questo è di Marradi, lo riconosco.

Con tenerezza. Povera bestiolina, l'unica compagnia rimasta dopo tante notti di dormitorio pubblico. 

 

Al pidocchio.

 

Quante notti? Hai fatto il conto? No? Guarda: è facile. Era il tempo in cui tu ed io senza un soldo andavamo a dormire nell'asilo notturno a Firenze, mentre loro, i monopolizzatori del genio latino: Marinetti, Palazzeschi, Papini, Soffici, Prezzolini, Govoni, Boccioni, facevano le puttane sul palcoscenico alle serate futuriste incassando cinque o sei mila lire... Ricordi?

Ci avvelenarono le sorgenti del ricordo, mentre dormivamo, noi che non avevamo che il sogno a consolarci.

Perché ci hanno tolto il sogno they have murdered sleep, come Macbeth fece uccidere i paggi ingenui dormenti? ...

 

AI pidocchio.

 

Perché? Dimmelo tu!

Vivi la mia stessa fame. Vai dove vado io. Sì, fai parte del mio corpo. Vai a caccia sulla mia pelle e non lo sai? A cosa servi tu? A niente come me. E niente rimarrà di noi, salvo l'onore, che non so a che serva. Come due teppisti finiremo cantando sotto il tacco di un « flic ».

Dei tuoi viaggi e dei miei parleranno le montagne di Romagna e Toscana.

 

Scaraventa il pidocchio a terra.

 

Canta! Canta con arte unica! Scorri sopra la vita! Canta il tuo canto a Genova, compatriota Marradese, prima di andartene. Non canti? Vattene allora con onore!

 

Lo schiaccia.

 

Giustiziato!

 

Giudice.

 

Hai finito amico di svicolare per l'esistenza come un cane bastonato, nella nebbia teutonica e nei fantasmi assolati del Mediterraneo. La chimera che cercavamo al di là della notte, non esiste. Esistono solo i vicoli per cercarla. Per i vichi marini... Non te l'ho detto prima della morte, per non rattristarti. Ciao amico, l'unico. No, unico, no.

 

Al pubblico.

 

Nel panorama scheletrico del mondo, imperante Giolitti, cerco fratelli. Cerco un fratello, qualcuno che creda in me, o mi tolga dall'anonimato.

 

Indicando uno spettatore.

 

Quel fratello è lei!

Come va?


Gli tende la mano.

 

Come chi sono io? Un povero diavolo che scrive quello che sente!

Io sono uno che una volta ha scritto cose buone, novelle poetiche, e anche poesie, che nessuno voleva pubblicare. Io dovevo essere pubblicato per dimostrare a me stesso che esistevo.

 

Prende dalla tasca il libro.

 

C'era della gente — Binazzi de « Il Resto del Carlino » che mi consigliava di scrivere un altro libro. Perché un altro libro? perché? Il mio ideale sarebbe stato di completare questo, formandone un piccolo « Faust » con accordi di situazione e di scorcio. Non creda che io sia ambizioso. Ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, la mia parola, che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata, anche se per me tutto, dico tutto è acqua passata!

Io la conosco poco, ma intuisco che deve avere un'anima delicata.

 

Con il libro in mano lo guarda.

 

Ha figli lei? Io no. Non avrò eredi. Meglio così. Come li manterrei ?

 

Si rimette il libro in tasca, fra sé.

 

Un figlio con occhi di Fauno, signor Campana?

Con la mano indica la statura d'un bambino, insultandolo. Pidocchioso! Accattone! Sifilitico! Parvenu! Morto di fame! Maccaronì!

 

Con dolore come facendo una litania.

 

Una madre per il figlio di Campana

Una strada per il figlio di Campana

Una guardina per il figlio di Campana

Un manicomio per il figlio di Campana

 

Con fierezza.

 

Non avrò figli che salgano a Castel Pulci per annusare da lontano, oltre i muri, se già puzzo.

 

Litaniando.

 

Un posto per il figlio di Campana.

 

Al figlio immaginario.  

 

Ti farai strada, piccolo, a gomitate, inseguito dai bagliori della luna elettrica. Sei pazzo, ti diranno

 

Con angustia crescente.  

 

Hai la mente sconvolta e la 'tua anima è fatta di vento. Minacci tuo padre. Odi tua madre. Vaghi per le strade... Non c'è nessuno che riesca a tenerti. Anche la suggestione useranno con te se la scienza non basterà!

 

Sorride con tristezza.  

 

Povero vecchio! Mio padre! Non è mai venuto qui. Non gli regge il cuore...

 

Rivolto al figlio immaginario, fa il gesto volgare di battere la mano sull'avambraccio.

 

No, piccolo, non mi avrai per padre!

Neanche le pietre di qui ti vorranno per figlio! Vattene, mandolino, ti diranno. Sei uno in più.

Povero passerotto dai tratti dolci e dall'anima indecisa. Povero passerotto, che la guerra obbligherà a vagare con un'ala spezzata.

 

Subito.

 

Figlio di puttana ringrazia Satana di non essere nato! 

 

Tira fuori il libro dalla tasca.

 

 Legga questi versi, per favore. A voce alta. Sono note musicali.

Questo che è scritto a mano è il mio « canto proletario italo-francese ». Mi esplose sulle Alpi, vedendo il piccone dell'italiano che forzava la roccia sotto lo sguardo aguzzino dello svizzero. Gli svizzeri hanno per cuore una sveglia.

 

Di scatto.

 

Legga. Lei è un fratello.

 

Lo spettatore legge la prima strofa.

 

« Come torri d'acciaio nel cuore bruno della sera Il mio spirito ricrea per un bacio taciturno ».

 

Strappa il libro allo spettatore.

 

Lei sarà un fratello ma è meglio che stia muto. E' un canto patriottico. All'Italia.

 

A un altro spettatore.

 

Non sente lei in questi versi l'anima che si libera? No?

 

Allo spettatore di prima.

 

Vanno letti così: 

 

Legge solennemente gli stessi versi. Allo spettatore.

 

Eh? Cosa gli sembrano i miei versi?r Poesia in stato naturale, sicuro, ma è quel poco di poesia che sapevo fare.

 

Cerca nuovi versi sul libro.

 

Veda, questa è una fantasia toscana.

Non mi guardi così: non penso di leggerla.

La scrissi — ero così puerile — in un tempo in cui porgevo la mia tuba alle riviste credendo si potesse campare, anche magramente, di poesia... Mi accorsi che era impossibile quando me la pagarono. Dieci lire!

« Sono assai spiacente che lei mi misuri col metro », gridai all'editore. « No signore, io sono un uomo e se lei paga 25 lire le ultime propaggini filosofiche del mal de Naples, ispirate al campione Benedetto Croce quando dice arte uguale espressione; dico che se lei paga 25 lire al pezzo le infami propaggini del papinismo-italianità, la Summa di Santo Tommaso, lo spionaggio all'infinito — perché perdio dà solo dieci lire a me? »

 

Calmissimo.

 

Io non avevo capito ancora che da Omero ad oggi devono essere stati venduti nel mondo 3 o 4 libri di poesia.

 

Cerca nuovi versi sul libro.

 

Questa è una fantasia a Soffici. Non a Soffici. A un quadro di Soffici, quando Soffici voleva dipingere come Picasso... Il risultato erano forme luminose, infiascate.

 

Pettegolo.

 

Ardengo da giovane era commesso di profumeria. E questo si vede nei suoi colori falsi, le boccette sfaccettate, il suo cubismo...

 

Si perde.

 

Dove eravamo? Ah, Soffici aveva dipinto un discreto quadro... futurista. Di colpo vedendolo mi sentii ispirato. C'erano forme luminose, una faccia, una lampada al soffitto e uno come se suonasse il piano.

 

Illuminato.

 

Ero io che suonavo un tango a un caffè-chantant a Buenos Aires. Dimenticai per un momento l'artista che perse i miei canti. Lo perdonai. Era una vittima delle donne. Chiusi un ocChio. Anzi, no. Mi strappai un occhio della testa e lo tenni in mano mentre scrivevo, per non vederlo. Chissà, mi dicevo, se ballando questo tango lui o Papini, non mi rivelino il nascondiglio del manoscritto, o non me lo pubblichino? E io ballai.

 

Recita la fantasia ballando al ritmo del tango.

 

« Faccia, zig zag anatomico che oscura

La passione torva di una vecchia luna

Che guarda sospesa al soffitto


In una taverna café chantant

D'America: la rossa velocità

Di luci funambola che tanga

Spagnola cinerina

Isterica in tango di luci si disfà:

Che guarda nel café chantant D'America:

Sul piano martellato tre

Fiammelle rosse si sono accese da sé ».

 

A tutta la platea.

 

Io ho ballato questo tango a lui e a quell'altro, perché cantassero. Perché dicessero qualcosa di me.

Ho cantato e ballato a loro perché mi restituissero quello che era mio! Mio! Scritto da me!

 

Con il libro in mano come un venditore ambulante.

 

Canti Orfici!

La poesia musicale e colorita che mancava in Europa.

Ricordi del mondo nel paesaggio italiano!

Il senso dei colori e dell'armonia!

Canti Orfici! Canti Orfici!                

L. 2,50 il pezzo!

 

Scende in platea. Il passaggio centrale della sala si converte in strada. Agli spettatori come passanti.

 

Legge poesia? Legge poesia?

Dino Campana, il poeta del presente e del futuro chiamato a oscurare il nome di D'Annunzio in Italia, senza compromessi, con o senza dedica dell'autore, vende a lire 2,50 il pezzo, i suoi « Canti Orfici ».

 

Ad una spettatrice.

 

Non conosce Dino Campana, signora?

Scommetto che legge D'Annunzio? Non lo faccia, signora! Non c'è che il vate ufficiale per invecchiare una donna o un paesaggio.

 

Girando in platea.

 

Dino Campana lo cantano nei sobborghi di Bologna, nel porto di Genova, a Novara dove è stato dentro per calunnie, a Genova, a Parigi e fino a Buenos Aires dove suonava il triangolo nella banda della Marina Mercantile, e il piano nei casini.

L'assolato fantasma di felicità del poeta Dino Campana avanza al di là dei mari, come Nietzsche colla sua sfida. Canti Orfici - Lire 2,50 il pezzo!

 

Si ferma come oppresso da una improvvisa vergogna.

 

Era la mia solitudine che ha voluto riprendermi. Perdonatemi!

Io vendevo così i miei « Canti Orfici » nel « Caffè Paszkowski », nella birreria « Giubbe Rosse » di Firenze e anche nel « Caffè San Pietro » a Bologna. Guardavo gli eventuali compratori occhi negli occhi...

Se avevan faccia da imbecille, da filisteo, strappavo la pagina

che non avrebbero capito.

Una volta trovai uno con una faccia così supponente che gli ho venduto solo la copertina.

Vendevo i miei « Canti » in quelle condizioni perché ero povero. Ma non posso farlo a Castel Pulci. Non devo vendere. Qui non sono povero. Non mi manca niente.

 

Guarda verso la porta.

 

E poi, questi canti non son più i miei « Canti ». Questo libro non è più il mio libro.

 

Critico.

 

Me l'hanno ammodernato. E nemmeno dicono che questa è la seconda edizione... o sarà che l'altra, la mia, quella di Marradi, era talmente miserabile che non meritava d'essere chiamata edizione? ...

Ma questa è migliore? Per niente. E' piena di errori. Irriconoscibile. Son versi falsi ricavati da un manoscritto senza realtà. Anche se non sono in condizione di dedicarmi alle correzioni, in qualche momento di tranquillità, ho riempito un quadernetto con gli errori e le varianti... Un quadernetto, capite?

Bisogna che lo vediate. Per essere informati. Per niente altro. So che il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere. Vado a prenderlo. Vado e torno. Aspettatemi. Torno. Torno...

 

Sale le scale e sparisce dentro una porta sul ballatoio.

 

BUIO

 


 

SECONDO TEMPO

 

Riappare di spalle al pubblico nello stesso punto dove era sparito alla fine del primo tempo. Indossa ora la divisa ospitaliera. Il pubblico non c'è ancora né in platea né in palcoscenico. Si girerà frontalmente al pubblico e scoprirà di essere solo. Sarà molto deluso ed esprimerà, sull'onda della sua mania persecutoria, l'ansia dell'abbandono. Chiamando, con voce perentoria.

Signori! Signori! Avevo detto che tornavo subito. Venite.

Sono tornato. Son qui. Avevo promesso...

 

Richiami ad libitum fino a che la platea e il palcoscenico saranno di nuovo riempiti dal pubblico. Guarderà l'ammassarsi della gente sempre più distaccato, come se il fatto non lo riguardasse. E così, stancamente, meccanico e imbarazzato mostrerà il suo quadernetto gualcito con le pagine sciolte, quasi uno scartafaccio.

 

Voilà il quadernetto!

Ho trovato il quadernetto con tutte le variazioni, i rimasugli di versi, le strofe canticchiate... Vedrete!

 

Scendendo le scale con il quadernetto in mano. Un passo falso lo sbilancia e il quadernetto gli sfugge dalle mani. I fogli si allargano e cadono sul palcoscenico, sparpagliati. Nervoso. Come inseguendoli.

 

No, che non si perdano!

Qui si può perdere tutto, come con Soffici...

Sono le mie correzioni e se si perdono, si perderanno i miei canti! Quelli veri. 

Vi prego signori, ridatemi i fogli!

 

Ringrazia gli spettatori che gli porgono i fogli recuperati qua e là sul palco.

 

Grazie, grazie.

Con queste annotazioni si può salvare quello che ho scritto. Non lo dico per me — io ho rinunciato anche ai miei diritti civili — ma per quelli che verranno.

Vallecchi, l'editore, e Binazzi, il giornalista che ha curato la ristampa, hanno aggiunto poesie di lezione fantastica. Sarà un compenso dovuto alla modernità della edizione?

 

Raccoglie i fogli cercando di metterli in ordine. Ora metto le pagine ognuna al suo posto, per non far confusione nel mio spirito. Cecchi crederà ancora che si potrebbe fare un bel libro con questi frammenti? Io credo che sarebbe la cosa più dolorosa che si potesse fare.

Guardando il fondo della platea.

 

Papini e Soffici non son venuti?

Quelli non saliranno mai a Castel Pulci.

Gli faccio paura. Temono che li fulmini con un raggio mentre salgono la collina del manicomio, o che la mia ombra li perseguiti in sogno, con un manoscritto in mano.

 

Si accorge di qualcosa che non va. Ansioso.

 

Manca l'ultima pagina, l'epilogo.

Chi ha l'ultima pagina?

Vi prego! Quelle parole, le ultime del libro, scritte in inglese « They were all torn cover'd with the boy's blood » che vogliono dire « erano tutti stracciati e coperti con il sangue del. fanciullo », sono le uniche importanti del libro!

 

Sfoglia le carte e rinfrancato trova la pagine tra quelle che ha in mano.

 

Perdonate, l'avevo io, qui.

Sono la sintesi della mia vita, capite?

E' l'epilogo della tragedia dell'ultimo avanzo dei barbari in Italia.   

Con queste parole invocavo giustizia contro la brutalità mo-

nopolizzatrice dei fiorentini.

Con chi se la prenderanno ora che io non ci sono più?

Già mi pare di sentire Monsieur Pappin masticando il suo tragico quotidiano con gli sciacalli dell'Arno: Che ne sarà del mentecatto di genio? Vive ancora? 

 

Sarcastico.

 

Certo che vive! Come il cavaliere medievale sconfitto dal turco che vecchio e stanco si rifugia nel chiostro, così Campana Dino, vive.

 

Come ascoltando voci lontane, ingiuriose che lo apostrofano, alle quali vuole reagire.

 

Campana? Din-don

Campana? Din-don

Cavaliere della favolaaa!

Campana? Clôche

Campana ?

Che spirito di merda!

Campana? Din-don.


Come una ninna nanna che lo ferisce lontana e terribile. « Andè bôrdè cb'l'ri€a 'l'mat d'Campana ch'v pôrta via! » Avete notato? Ho cambiato il vestito e ho messo quello di sempre. E' l'uniforme che usano tutti qui. Il direttore mi aveva ordinato di mettermi il vestito civile in onor vostro, ma a me non piace. L'uniforme sì. 

Però quando me la misero addosso, per la prima volta temetti di soffocare.

Mi sentivo un'altra persona. Ma dovevo sapere se ero io o un altro che vestiva quella uniforme.

Per dormire me la facevano togliere. Allora me la levavo piano piano, la piegavo delicatamente e la mettevo su una sedia.

Sdraiato sul letto e guardando l'uniforme così ripiegata, mi sentivo come uno di quei personaggi terribili del teatro che l'autore ammazza alla primå scena perché il personaggio non ammazzi lui o gli rovini la commedia. Oppure un personaggio morto rinchiuso in fretta nella bara con una mano di fuori.

Allora tiravo su una mano e poi un'altra e dicevo a me stesso: « Dino Campana non sei morto soffocato. Non vedi che poi muovere le mani? ». 

Ma l'uniforme sulla sedia mi distraeva e mi attirava irresistibilmente. C'era una vita dentro: la mia. Sì, sì. Al mio risveglio la seconda pelle mi avrebbe aspettato sotto un tetto. Così mi addormentavo, fingendo di essere vivo. Mi svegliavo inquieto. Indossavo allora quella uniforme quasi di corsa per il timore di essere ridiventato nel sonno quello di prima. Niente.

Niente paura. Ero sicuro. Io guardavo gli altri: erano come me. Gli altri guardavano me: ero come loro. Tutti uguali. Tutti alla pari.

Guardando distrattamente il quadernetto fissa lo sguardo in una pagina e si mette a ridere.

Guardate cosa ho scritto qui!!!

 

Torna a ridere.

 

La spesa giornaliera...

Dieci soldi per i sigari...

Undici per il pane

Cinque per dormire...

« Chetif trouvère de Paris ». Verlaine.

 « B'y what fast heap of snow

Are hiel my springtimes roses? ».

 

Mettendo il quadernetto alla rovescia.

 

« Sotto quale grave mucchio di neve

Stanno sepolte le rose della mia primavera? » Non è male.

Dire a Papini cartella tedesco. Chiedere soldi a Montano.

 

Meravigliato.

 

Ci sono anche minute di lettere.Telegrammi scodinzolanti.

 

Seduto per terra, isolato, come un bambino con i suoi giocattoli. Leggendo per il suo proprio godimento.

 

Amico: se è vero che ognuno ha il destino che si merita, perché il mio è tanto crudele che la prossima settimana rimarrò senza tetto, a meno che tu non preferisca regalarmi un ombrello?

« Le dita del mio piede destro si affacciano già dalla scarpa. Chi mi pagherà le mezze suole? ».

Oppure: « No, Signor Papini, non ho tradotto la cartella in tedesco per la "Cultura dell'anima" perché credo che l'anima sia essenzialmente incolta. Nello sforzo di tradurre, ho bucato la cartella con la sigaretta. Scusi ». 

 

Ride provocatorio.

 

Se non era per il bisogno del suo aiuto, in un altro posto le avrei infilato la mia sigaretta! accesa!

Oppure: Nobildonna Sibilla Aleramo. Firenze. « La padrona sequestra biancheria. Aspetto o sloggio? Decidi ».

 

Avvicinando il quadernetto alla luce.

 

« Di tutte queste rape di giovinetti Soffici è il cardinale

esteta...

Campana il cavaliere della favola...

 

Smette di ridere.

 

e Papini una specie di diavolo zoppo che non fa paura a nessuno...

 

Ride sinistro

 

E qui? Non si legge bene...

« Tu sai, tu certo a qual suo dolce amore rida la primavera... ».

Gli occhi diventano di vetro.

Questa non è la mia calligrafia.

Questa barra della « t » abbracciata ad un albero?

 

Allarmato.

 

Questa « t » è di Sibilla...? Con quale diritto scrive sul mio quadernetto?

 

Torna a leggere.

 

« Tu sai, tu certo... ». Non lo so, troia!

 

Strappando il foglio del quadernetto e riducendolo a pezzi con un grido di animale ferito.

 

Ah, miseria di quei giorni!

E' vero: da qui io non spedisco più telegrammi scodinzolanti. Ma resta la memoria. Se bastasse asciugarsi il sudor della fronte per finirla con il ricordo, chi non lo farebbe? Ma il ricordo sta qui, quando manca l'amnesia.

 

Indica la sua fronte.

 

Sta sempre qui, come un annegato che non smette mai di risalire a galla. Per affogarlo passo lunghe ore meditando sulla vanità del tutto. Inutile sforzo. Emerge. Si insinua al principio nella testa scende poi e s'incendia qui giù, nell'inguine. Prende forma di donna. E io allora canto per discacciarlo.

 

Canta.

 

« Io ti scoprii e ti chiamai Sibilla ».

 

Pausa.

 

Il ricordo prende la sua forma al cader della sera.

Lo scongiuro. Niente da fare. E così, giorno dopo giorno, sotto un cipresso appartato, canto il mio amore di uomo solo.

 

Teso.

 

Canto e stringo infaticabilmente l'ultimo ramo verde del mio corpo.

 

Piccola pausa.

 

Si sta seccando il mio cipresso. Era verde quando mi rinchiusero.

Consumato il rito mi inganno. Credo nella sconfitta del ricordo. Macché! La forma con la quale ho goduto, si allontana tra i cipressi. Non più come un fantasma. Di carne e ossa, signori, più bella della bionda Cerere. Ed entra al Castello degli irragionevoli come se fosse casa sua.

 

Lasciando cadere lentamente dalla mano i piccoli pezzi di carta.

 

Non è più qui.

 

Indicando la parete di fondo.

 

E' lì, dietro la parete!

 

Pausa.

 

Sta lì dietro, nel letto del direttore e mi guarda: La sento. Sento quando la baciano. Vedo la mano sozza degli infermieri che accarezzano la sua pelle bianca. Degenerata! Intrigante. Mi tradisce da quando cominciò la guerra!

Io cercavo anche allora di armonizzare colori, musica, e movimento per scrivere una poesia barbara che non avesse bisogno di traduttori. Quando stavo per riuscirvi, apparve lei. Con i suoi piedini è montata sui miei e mi ha detto: « Tu sei il mio bambino ».

 

Silenzio. Si perde guardando verso la parete.

 

Tutto era cominciato così bene!.

Ma lei era la emanazione sicaria di Papini che mi saltava addosso per succhiarmi il sangue e calamitare la mia energia poetica.

Il buon pizzicagnolo la incartò, e me la mise in tasca.

Il diavolo zoppo me la buttò tra le braccia per immobilizzarmi e annacquare lo spirito puro della poesia italiana che ardeva dentro di me. E io che l'amavo dovetti picchiarla perché mi abbandonasse.

So che si aggirava per Firenze maledicendomi e giurando che voleva morire del mio male.

 

Piccola pausa.

 

Papini mi mandò allora il suo spiritoguida, per strappare al mio canto barbaro l'ultimo acuto. Lo affrontai: « Tu non ruberai l'anima, mio buon Soffici, perché non sei Mefistofele. Sei Berlicche ». Alzai il mio coltello, ma Soffici sparì tra gli archi come . un fantasma.

Allora il diavolaccio ha stretto il cerchio. E una notte mio padre, quel povero vecchio che sussulta ogni volta che sente il mio nome, mi convocò per suo ordine in una camera di albergo. Vi andai armato. Ma quando arrivai le luci erano spente e mio padre se ne era già andato. A tentoni palpai il suo letto. Era vuoto. Le lenzuola profumavano di Sibilla... 

Uscii per la strada e vidi come in sogno la sanguisuga enorme rossa e violetta che sa tutto senza vedere. Mi avvolgeva il corpo e mi parlava una volta ad un orecchio e una volta all'altro!

« Rompi il maleficio! Rompi il maleficio! Stanno lavando le strade di Firenze con il tuo sangue. L'Europa arde. Caos. Guerra! Guerra! ».

 

Come volendosi liberare della sanguisuga.

 

Corre disperato per la scena cercando un rifugio.

Un mare di ferite!

Una montagna di morti inutili!

Migliaia di ombre mi perseguitano. Affogo nel sangue. 

 

Al pubblico.

 

Nascondetemi! Nascondetemi!

 

Battendosi il petto.

 

Il colpevole della guerra sono io! Il colpevole della guerra sono io! 

Era il caos!

 

Giustificandosi.


Avrei potuto salvare la poesia. L'Italia è intervenuta, ma la mia partecipazione non fu considerata necessaria. Come intervenivo io? Ero ferito. Avevo perso la vena poetica.

Tanta musica, perché?

Tanto colore, perché? 

Tanto errare dietro l'antico animale umano, perché?

Quasi un uomo, perché?

Per lasciare che il destino spieghi la sua ferocia!

« Girandole, fummo girandole », aveva ragione Sbarbaro. Ah, Perdere perfino il nome!

 

Al pubblico.

 

Non è dolce, signore e signori sentirsi una goccia d'acqua, che però rifletta per un momento i raggi del sole e tornare senza nome!

L'amore per Sibilla mi isolò da tutti. Divenni un lupo per le strade di Firenze. « Girandole, fummo girandole! ». Ma non ho nessun rammarico. Cosa hanno saputo fare loro, i grandi?

 

Gridare, per non sentire il rumore del mondo che crolla. Non vi basterà inventarvi il futuro per passare alla storia! Rimanete a motorizzare i versi! Elettricisti! Ortolani mitologici! Cloaca di tutto il letteratume presente e passato di tutti i continenti. 

Restate! Restate al comando del comandante il divino Gabriele dall'occhio ferito.

Un giorno, chissà, saremo di moda noi, orfani di guerra, che non potemmo usare grandi parole.

 

Rasserenato.

 

Loro signori forse non l'hanno mai saputo e non posso privarli di questa notizia. La celebrità mi perseguitava, però non mi raggiungeva mai. E perché non mi raggiungesse fuggii dove nessun futurista e nessun dannunziano avrebbe potuto scoprirmi mai.

 

Euforico.

 

Ai vichi marini, al porto, alle terre vergini senza storia.

 

Con l'aria di chi sta per partire per un lungo viaggio.

 

Da quel momento, anche l'Europa mi stava piccola.

Prima di partire di pensiero in pensier, arrivai a quei versi che segnano forse uno dei più saldi capisaldi dello sviluppo dell'odierna psiche italica:

 

« Amo le vecchie troie

Gonfie lievitate di sperma

Che cadono come rospi a quattro zampe sovra la coltrice [ rossa.

E aspettano che le si innaffi

E sbuffano ed ansimano Flaccide come mantici ».

Pausa dell'azione.

Sono versi da ubriaco per cantare di sera al porto. Dovrei essere censurato.

 

Come giustificandosi.

 

Ma io conosco anche una musica dolce di cui non ricordo neanche una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno.

 

Confidenziale.

 

Una volta per partire bastava una cartolina rossa. Quando è toccato a me ci voleva un passaporto che le autorità non mi hanno concesso. Non vedo perché me lo dovevano negare. Tutto sommato al mio paese non ho chiesto altro che un passaporto. Io pensavo allora: non me lo possono negare. Con l'esperienza che ho non me lo possono negare!

 

Ho cominciato a viaggiare nel medio Evo. Con altri irragionevoli mi imbarcarono su un vascello alla deriva. Troppa luce facevamo nelle città di terraferma. Ci volevano spenti.

Quando la nave attraccò sul fondo del mare, cominciò ad emergere una cattedrale insanguinata. Il tempo interruppe il

suo corso.

Eravamo i parrocchiani dell'acqua, che, sguazzando, telegrafavamo a Marconi. Ma l'accademico cambiò di posto le acque, e ritornammo ad essere sulla terra ferma. Nell'acqua abbiamo conosciuto i segreti di tutte le cose.

Andavamo al diavolo con i nostri piedi e gli davamo del tu. Eravamo tutti poeti e tutti avevamo ragione. Senza l'acqua la cattedrale cambiò nome. La chiamarono Castello degli Irragionevoli. Castel Pulci.

 

Leggera pausa.

 

Quando c'è umidità si possono vedere i parrocchiani dell'acqua che aspettano attaccati ai muri. Alle volte passano da una parete all'altra come gocciole di vapore.

 

Misterioso. Al pubblico.

 

Non vi fa paura stare qui? Se restate non mi prendo la responsabilità di quello che può succedere. Siete avvertiti. Dite a Sua Maestà che mi dispiace di non poter soddisfare il suo desiderio. Non posso andare in Germania.

Vivo in comunicazioni costanti con il mondo. Tutta la stampa italiana la scrivo io. Quante cose ho evitato a Sua Maestà! Ma questo non glielo dite. Non voglio attestati. Con il tempo ingialliscono.

 

Pausa.

 

Ah, io confido che voi, nobili come siete, e altri più di me, come Sbarbaro, Leonetta, Cecchi, Carrà e Binazzi che parlano la lingua delle stelle e hanno avuto pietà di me, sappiate amare quel fantasma soleggiato di felicità che ho creduto di intravvedere nel Mediterraneo tanto tempo fa. Ed ora basta con i commiati.

La prora inquieta insegue il suo sogno navale. Perché non ve ne andate? Il mio viaggio non vi interessa.

Vado a disseppellire le rose della mia primavera in fondo al mare, il piccone dell'italiano nelle Alpi e il « Mauser » che ha ammazzato l'Europa nel '14.

Con la suggestione si può vedere tutto quello che si vuole, ma non tutti hanno gli occhi esercitati al miracolo.

 

Teatrale.

 

Che balli la nave! Che balli fino a Buenos Aires. Amo il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell'onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è •una casa scossa dal terremoto che pericola terribilmente.

 

Salendo sull'impalcatura.

 

Addio, mamma, non piangere più, non voglio vederti piangere. Se non ritorno sappi che in Romagna toscana c'è un po' del mio sangue appiccicato alle rocce alte.

 

Nervoso.

 

Smettila di cincischiare quel rosario, Se avessi pregato un po' di meno e m'avessi amato un po' di • più, io non sarei partito.

 

Di scatto.

 

Perché non mi accompagni, mamma? No, so che non verrai con la pecora nera della famiglia. Hai l'altro figlio tu! Arriverà lontano. Vedrai!

 

Con durezza.

 

Com'è scolorito questo scialle, mamma! Di piombo doveva essere. Ti avrebbe tolto la voglia di andare a zonzo, lasciando il vecchio in lacrime. Non farlo piangere, Fanny! E' così brutto vedere piangere un uomo! E non ripetere più domande tipo: « Come stai figlio mio? ». Come vuoi che stia? Come uno che sta in manicomio.

 Addio, addio, mamma! Vai via Fanny. Vai via, vai via!

 

Frettoloso sale la scala del praticabile al centro.

 

La nave sta per partire.

Canta. Le senti queste ragazze. Sono emigranti genovesi. Siamo della leggera dicono...

 

Dirigendosi ad un punto dove s'immaginano essere le ragazze.

 

Anche io sono della leggera.

 

Canta delicatamente « La lanterna » canzone genovese. Cammina, si siede, si sporge come se fosse veramente in coperta sulla nave. Guarda in alto.

 

Volano i passeri dal nido. Come noi. Senza allegria.

 

Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull'ali distese, leggera come una barca sul mare.

 

Facendo cenni di saluto.

 

Addio, colomba, addio!

 

Alle ragazze.

 

Già non si vede più la lanterna di Genova. Eh! Come balla il bastimento. Che movimento di allegria. Il mare se la ride con noi del suo riso così buffo e sornione. Trovare l'America! Tutti andiamo per questo! Si fa notte.

Si prepara un letto immaginario e si sdraia sulle tavole. Pausa. Alza lentamente la testa, guarda all'orizzonte.

Ehi, ragazze! Le colline della Spagna! La Spagna! la Spagna!

 

Si solleva.

 

Dormono. Non vedranno quello che ho visto io!

Siede con le gambe a penzoloni fuori del praticabile.

Dormivano. Dormono anche i passeri e i pesci. Hanno una conca nel mare o un ramo sull'albero. Ma io, al margine del mondo, non contro, non avevo potuto trovare riparo da nessuna parte! Dal dormitorio pubblico di Firenze a questo rifugio tra sacchi di patate... Ma quelle che dormivano non potevano vedere quello che vidi io.

 

Lontano.

 

« Io vidi dal ponte della nave

I colli di Spagna

Svanire, nel verde

Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando Come una melodia:

D'ignota scena fanciulla sola

Come una melodia

Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...

Illanguidiva la sera celeste sul mare:

Pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell'ale

Varcaron lentamente in un azzurreggiare... Lontani tinti dei varii colori

Dai più lontani silenzi
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave

Già cieca varcando battendo la tenebra

Coi nostri naufraghi cuori

Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare ».

 

La luce si spegne e si riaccende per due volte ritmicamente. E' un segnale. Dino si ferma di botto e cambia espressione.

 

E' l'ora di andare a dormire E' un ordine! 

 

Si appresta a scendere dal praticabile.

 

Così ci insegnano a vivere qui a Castel Pulci. Con lampi di luce.

 

Indica il soffitto cominciando a scendere la scala.

 

Sono tutti matti! Sono tutti matti!

 

Si ferma.

 

De l'alba non ombre nei puri silenzi

De l'alba

Nei puri pensieri

Non ombre

De l'alba non ombre

Sono tutti matti

Riprende a scendere.

De l'alba non ombre nei puri silenzi... De l'alba...

 

Rivolgendosi al pubblico sul palcoscenico.

 

Il parroco non vuole più salire a Castel Pulci perché quando scendeva tutto sudato dalla bicicletta, le donne del quarto piano gridando litanie, aggrappate alle inferriate, gli mostravano la passera spelacchiata!

 

Secondo segnale di luce come il precedente. Nervoso.

 

Sì! Ho capito la lezione! I matti vanno a dormire.

Al manicomio di Tournay, in Belgio, succedeva lo stesso. Nessuno voleva andare a dormire. Sono tutti uguali. C'era un russo là, che suonava il violino tutta la notte per il timore che lo uccidessero nel sonno. Camminava tutto concentrato in ciò che formava l'unico senso della sua vita: la sua colpa.

La colpa; ma quale colpa?

Me lo ricordo: in un ampio stanzone pulverulento i rifiuti della società. In un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi segni di una lotta terribile e vana. Era il russo. Curvo sull'orlo della stufa scriveva febbrilmente.

 

Terzo segnale di luce come i precedenti.

 

Ubbidiscono. Vanno a dormire col terrore di non svegliarsi più. Nel tramonto della vita almeno loro saranno giudicati con amore?

Ritornando al russo. Il russo scriveva febbrilmente.

 

Leggendo nel quadernetto.

 

« Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide ».

 

Parlando normalmente.

 

Parlava: quando, mentre mi fissava cogli occhi spaventati e vuoti, io cercando in fondo degli occhi grigio-opachi uno sguardo, uno sguardo mi parve di distinguere, che li riempiva: non di terrore: quasi infantile, inconscio, come di meraviglia.

 

Nervoso.

 

Confessò. Era condannato. Confessò. Doveva confessare. Confessò. Come? Ogni sera coricandomi nella mia prigionia salutavo ia primavera. E una di quelle sere seppi: il Russo era stato ghigliottinato. Il pulviscolo d'oro che avvolgeva la città parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi sanguigni del tramonto. credetti mi portassero il suo saluto.

 

Con dolore.

 

Perché era uscito per salvare altri uomini? Decapitato, i frati della carità lo seppellirono in fretta con un orologio da tasca sul petto. Era l'orologio che doveva battere l'ora della rivoluzione. Il russo era nato per essere un rivoluzionario! Un rivoluzionario come Lenin!

Lo ammazzarono da sveglio, proprio per questo.

 

Indicando il sofitto.

 

Ma di questi irragionevoli, quando moriranno, quale rivoIuzione sentirà la mancanza?

Un brivido. Ci sono delle notti in cui sento il rumore dell'orologio del russo da sotto terra.

Mima con il braccio un pendolo.

Tic, tac. Tic, tac...

 

Quarto segnale di luce come i precedenti con lo stesso ritmo del pendolo immaginario.

 

Sì, sì. Andate a dormire bambini.

 

Automaticamente riprende col braccio il ritmo del pendolo. Come colto di sorpresa. Ansioso.  

 

A quest'ora dovevo già aver passato il mar del pirata Garibaldi ed essere sbarcato a Buenos Alres.

 

S'arrampica velocemente sulla scala del praticabile e come se fosse sulla nave all'arrivo in porto. Guardando in lontananza

 

Arde la pampa nelle spighe. La pampa:

Che granaio alto!

Mezza umanità mangia il tuo pane, infinita pampa mia.

Le spighe crescono fino a Londra...

Spala, peon, la terra, spala perché passi il treno degli inglesi. Dall'alba al tramonto, che il treno non si fermi. Spala fino che ci caccino, italianito che la tua patria è più grande senza di te! Dai rondine bianca, rondine che non fa primavera!

 

Narrando.

 

Nella Plaza de Mayo a Buenos Aires i ribelli cantano l'inno nazionale.

La Polizia non può caricare. Perché?

Deve stare sull'attenti signor Poliziotto!

Si sta cantando l'inno nazionale. Fermo! Sull'attenti. Cantate ribelli. Sull'attenti Polizia!

 

Gridando.

 

Chiamate i pompieri!

 

Canta.

 

« Oid mortales el grito sagrado libertad, libertad, libertad ».       

        

Gridando.

 

Acqua, Acqua! Contro quelli che non possono star zitti, acqua!

 

Narrando.

 

E sono i signori dell'acqua che arrivano per spegnere l'incendio della rivolta.

 

Sirena.

 

Sono io pompiere Campana che arrivo sul camion al suono d'una sirena che spacca l'aria, con la mia manica rinfrescante. Con l'acqua si calmano tutti! Il contadino che è venuto dalla provincia, l'impiegato con le-mezze maniche, il creolo che non sa far niente, neanche cantare l'inno nazionale e l'emigrante che è venuto a trovare l'America!

« Oid mortales el grito sagrado libertad, libertad, libertad! ». 

« Fuori gli emigranti! Fuori gli stranieri! ».

 

Scende dal praticabile rimpiccolito, umiliato, canticchiando.

 

« Libertad! Libertad! Libertad ».

 

Spiegando.

 

Ci volevano solo come mano d'opera a buon prezzo e per poco tempo... Addio rondinella bianca, emigrante, gringo de mierda! E gli italiani ingenui, ed io con loro, un'altra volta fuori, senza patria, come sulle Alpi.

 

Segnale di luce in tre momenti. Calmo.

 

Edison ordina ai bambini del Castello di chiudere gli occhi.

Si dorme. Bisogna dormire.

 

La luce si attenua. Un cono di luce isola Campana. Solo con la sua paura.

 

Io non posso dormire sapendo che lei sta lì, dietro la parete e m'inganna col direttore.

Tutta la scena si concentra sul muro di fondo. Darei la vita per poter dire che lei non è lì dentro. Ma per vedere se c'è o non c'è devo buttar giù la parete... e non posso. Se lo faccio, un fiume di sangue imbratterebbe tutti. Allora la sfido, quella parete. Ma come una montagna, enorme spettrale macabra, si rizza davanti ai miei occhi sfidanti. Io so che non esiste la montagna, so che è uno spettro ma ne ho bisogno... Lo rivoglio quell'incubo perché così lei vive dall'altra parte. Quando più ne sento il bisogno, minaccia di scomparire quell'incu bo... e allora... è solo parete.

Che questo incubo voglia esistere ad ogni costo è atroce... che minacci di scomparire perché io lo desidero è ancor più atroce! Darei il mio sangue, nobili signori, per dire che non esiste, ma esiste, sì, sì... sì...

 

Andando verso la parete di spalle.

 

Sibilla, vieni, vieni fuori. Non continuiamo a strapparci dalle mani i resti del nostro amore. Io ho creduto ciecamente all'amore. 

 

Si avvicina al pubblico.

 

Prima non avevo ragione di vivere, ma potevo avere ragione di morire: ma come morire, adesso? Mi ha lasciato vuoto. Stavo per risolvere la mia vita lontano dalla poesia scrivendo un giornale per tutti, andando alla guerra con gente che non sapeva perché andava a morire. Non m'importava niente. L'importante era finire! Essere qualcosa! Essere morendo.

 

Girandosi alternativamente a destra, a sinistra, al pubblico sul palcoscenico, in centro alla platea.

 

Non ti nascondere amore, non ti nascondere. Se credi che non ho sofferto abbastanza, sono disposto a darti ciò che resta della mia vita.

 

Canta.

 

« Io ti scoprii, ti chiamai Sibilla ».

 

Tra sé.

 

Questo non è amore. Non è amore. Si allontana grande, unico, enorme come una montagna. Non ho più forze.

 

Alla parete.

 

Annoda le tue trecce, Sibilla! Sono stanco di quassù e di tutto quello che non sei tu. Mi accetti, sì o no, come modesto compagno di viaggio? 

Cercherò un impiego e ti amerò per il resto della mia vita, che mi auguro breve... 

 

Andremo in Francia. Ma prima voglio farti ammirare la linea severa e musicale degli Appennini che indica dopo Dante e Michelangelo, lo spirito dei nostri migliori: la poesia in movimento. 

 

Pausa.

 

Dovremmo ancora vedere le Alpi. Nietzsche scendeva di là dal mare colla sua sfida. Ahimè, Sibilla perché non mi lasci morire? Là l'edelweiss non è dannunziano e la Dora scende in tumulto e il più leggero dei baci crea ancora forse come quando dicevo:

 

Recitando.

 

« Come delle torri d'acciaio

Nel cuore bruno della sera

Il mio spirito ricrea

Per un bacio taciturno ».         

Ah miseria di questi ritorni.

Puoi amarmi? Ancora? Ancora? Ancora? Ancora?

 

Mettendosi al centro della scena.

 

Troia, troia.

 

Con improvvisa dolcezza.

 

Sibilla: non preoccuparti per tutti quegli uomini che hai fatto piangere. Era giusto. Hai fatto bene.

Per ogni lacrima che hai fatto cadere, ne hai piante cento, l'hai detto tu.

 

Lacrime, lacrime. Però degne. Hai partorito un uomo con quelle lacrime. Sono nato io! Prima credevi che io non ti amassi, che ti vedessi irreale... Sei per me l'unico essere vero! Ti amo! 

 

Abbraccia la parete e mima tutti i gesti dell'amore sul muro.

 

Vorrei essere ancora poeta per baciare la tua pelle! Perdonomi, ma non posso essere poeta neanche per te!

Mandami una goccia, una sola dei tuoi occhi! Lacrima di vita, perché possa rinascere uomo.

Vieni divina tra tutte le donne!

Sono tuo schiavo, avrò cura di te, amore, amore, amore.

 

Cade a terra, come per orgasmo, pronunciando il nome della donna amata. Si trascina vicino al pubblico parlando con infinita tristezza.

 

« In un momento

Sono sfiorite le rose

I petali caduti

Perché io non potevo dimenticare le rose

Le cercavamo insieme

Abbiamo trovato delle rose

Erano le sue rose le mie rose

Questo viaggio chiamavamo amore

Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le rose

Che brillavano un momento al sole del mattino

Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi Le rose che non erano le nostre rose Le mie rose le sue rose.

 

Sorridendo con ironia.

 

E così dimenticammo le rose ».

Era tanto buona come la parola mamma.

Stanata dalla umanità ,ma lucida, cercava altri cuori, oltre al suo che mi volessero vivo. Non mi voleva lasciar solo nella mia... pazzia.

Medici, psichiatri, medicinali che non nuocessero al mio cuor, soldi... (Li chiedeva ai ricchi), biancheria, Mi tolse dal carcere, aveva delle aderenze, mi baciava tra le sbarre: « Dino, Dino, Dino. Povero Dino! ».

Io detestavo il mondo che lei adorava. Sibilla mai conversò con la morte per questo credeva negli idoli, io in cambio, avevo fede solo nell'azzurro. E ora vedete dove mi ha portato il mio credo.

 

Ad una spettatrice.

 

Guardi cara signora, qua mi censurano la corrispondenza. Non riesco a comunicare con Sibilla, non mi lasciano passare nulla che riguardi il nostro amore. Gelosia! Invidia!

Lei farebbe una cosa tanto gentile dandomi notizie di lei. Abita a Roma nella strada degli artisti, in via Margutta, così m'hanno detto. Sono sicuro che va ai ricevimenti in Quirinale. Sibilla è andata sempre con i grandi. L'unica eccezione sono io, non so ancora perché.

Le assicura che sono disposto a rispettare la libertà della Aleramo come ho fatto finora, sentendola solo dietro i muri. Ma così, senza saper nulla, non posso rassegnarmi, mi capisce?

Ora sono lontano dal mondo. Domando solo, con correttezza, di sapere che esiste, che cosa sente, che cosa ha fatto. Non l'ho mai chiesto.

Lei capisce, cara signora, che questo non posso chiederlo al direttore, agli infermieri. Lo domando, cara signora, per poterla amare anche così, per niente altro...

 

Come attirato dalla parete corre a mettere l'orecchio sulla medesima.

 

Né per vivere né per morire posso essere senza di te.

Carezzando il muro, come in un addio all'amata. Buona notte!

Sorpreso vedendo che il pubblico è ancora lì. Quasi vergognoso.

E voi cosa fate qui. Cosa fate ancora qui?

La visita è finita. Il pazzo di genio va a dormire.

Salutate Sua Maestà. Ditegli che sto bene. Sempre sulla riva d'un giorno.

 

Pausa. Vedendo che nessuno si muove.

 

Non ve n'andate?

Volete portarmi via? Volete convincere il direttore a mandarmi via?

Tutti quelli che stanno fuori vorrebbero tirar fuori quelli che stanno dentro. Facile, semplice... « Vieni fuori! Vieni fuori! » E' solo per sgravio di coscienza, per il rimorso di averli cacCiati nella tomba. Andate al cimitero! Provate lì: « Vieni fuori ». « Vieni fuori! ».

Non si resuscita così: o tutti vivi o tutti morti!

Non avete diritto di conoscere il mio segreto. Un segreto che non serve a nulla e a nessuno. Lasciatemi dentro.

Fuori ci hanno ucciso il sogno!

Ci hanno corrotto i minorenni!

Ah, paese di falsi giovani dove la giovinezza è vista con innominabile rancore.

Non c'è posto per i poeti.

 

Saluta con il capo a destra, a sinistra, al centro. Si avvia con molta dignità verso una porta al centro. Afferra la maniglia; si rivolta di scatto verso il pubblico e lo guarda per un attimo con totale disprezzo. Esce in fretta sbattendo sonoramente la porta.

 

FINE