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 Firenze 1914

di


Lorenzo Montano

 

da “La Nuova Antologia”, 1954, fascicolo 1837, pp. 73-80


Ci vorrebbe il genio d’uno Stendhal d’un Tolstoi, e forse non basterebbe, per rappresentare a chi non l’ha provato il senso di stabilità da cui era pervaso il mondo fino alla prima guerra mondiale. Mondo ormai ridotto ad una sottilissima scorza ad opera di Marx e di Nietzsche, il Marx dei benestanti, per tacere di tarli più antichi; ma la compattezza e la solidità della nostra illusione non erano intaccate. Il futuro si apriva dinanzi a noi a perdita d’occhio, per generazioni senza numero, variato magari da sviluppi tecnici e sociali (la più parte desiderabili) ma sostanzialmente immutabile.

Quel senso è cessato così completamente che non è possibile evocarlo. Però ne rimane qui e là un qualche ricordo; in Italia ad esempio in due grandi edifici concepiti sul principio del secolo, sebbene siano stati compiuti più tardi: il monumento a Vittorio Emanuele II in Roma e la stazione centrale di Milano. Architetture vane e confuse, improntate al basso eclettismo di quegli anni, mostrano però con grande evidenza che la società per la quale furono disegnate guardava tranquillamente a una prospettiva illimitata, non meno sicura di sé (anche se con minor ragione) di quella che eresse le Piramidi. Chi ne volesse la riprova, gli basterà confrontare quelle moli con certe costruzioni tipiche del tempo tra le due guerre, come i palazzi del centro di Brescia o del Corso Matteotti (già Littorio) in Milano: fragili schermi tirati su in fretta contro l’inquietudine e il capogiro. E non si dirà che sono sensazioni a posteriori, perché quegli edifici, e tanti altri consimili, parvero di cartapesta fin dal giorno dell’inaugurazione.

Altrettanto difficile a rappresentarsi, per chi è venuto dopo, è la noia che era il rovescio di quella tranquillità, noia impalpabile e onnipresente. Anche di questa è possibile cogliere un’ombra indiretta nei macchinosi adulterî di cui sono pieni la narrativa e il teatro del tempo, nelle relazioni degli esploratori, nel rumore oggi così lontano dei grandi fatti di cronaca, che sono le maniere con cui l’epoca cercava disperatamente di svagarsi.

Dentro a quest’atmosfera Lacerba irruppe come una sfilata d’un circo con lo strepito degli ottoni, i cavalli, gli animali esotici, i fenomeni, i clowns caprioleggianti nel sonno d’una domenica provinciale.

Insieme con tutte le altre comunicazioni, anche quelle relative a lettere ed arti si sono sviluppate prodigiosamente, e magari all’eccesso; a momenti si direbbe che i mezzi di trasporto soverchino i beni da trasportare e circolino a vuoto. Non v’è io credo buco di provincia dove il giovane che ha passione per queste cose non possa avere con facilità notizie freschissime di quanto si dice e si fa in ogni parte del mondo. Ho persino notato il caso d’una rivista parigina che esce simultaneamente in traduzione italiana.

Una quarantina d’anni fa le cose stavano molto diversamente. A Verona il poeta Lionello Fiumi, mio coetaneo, era il solo che s’interessasse delle nostre nuove correnti letterarie e di quegli autori stranieri senza la conoscenza dei quali esse erano difficilmente intelligibili. Scambiavamo con lui libri, impressioni;i nostri gusti eran condannati dai nostri concittadini come stravaganti.

Nel 1914 la Libreria della Voce accettò e pubblicò in fine d’anno un mio libriccino di versi. In tal modo venni in contatto col gruppo fiorentino. Nei principali redattori di Lacerba mi trovai ad avvicinare per la prima volta uomini maggiori di me in ogni senso, vale a dire non solo per altezza d’ingegno ed esperienza d’arte, ma anche per l’età. Quest’ultimo scarto oggi non mi sembra più tanto importante, ma a ventun’anni la misura è diversa, ed essi mi sembrano propriamente degli anziani.

Non entrai mai in confidenza con Giovanni Papini, per via d’un suo modo di far cascare le cose dall’alto e d’un certo sussiego (non dico fosse così con tutti) che mi tenevano in soggezione.

Presso Palazzeschi il principiante trovava con profonda gratitudine quella simpatia accogliente di cui aveva così disperato bisogno. D’altra parte la squisitezza e l’urbanità dei suoi modi era unita a un che di sottilmente fantastico, a una delicata bizzarria d’umore che era la vena stessa della sua poesia, e l’entrare in dimestichezza con lui sarebbe stato (o cosi mi pareva) come fare amicizia con l’Augellin Belverde.

A sfogliare la collezione di Lacerba è come un’adunata dove i morti rispondono insieme coi vivi e coloro di cui ho notizia sono mescolati con altri di cui non so più nulla, come essi, se sono ancora al mondo, non sanno certamente più nulla di me. Giannotto Bastianelli, Tavolato, Titta Rosa, il gentile Tommei, Vieri Nannetti, Reghini, Ottone Rosai, Nicola Moscardelli, Arcangelo Distaso, Bino Binazzi, Agnoletti, Pagliai, Luciano Folgore, Raffaello Franchi (il più giovane di noi tutti, appena un adolescente), Alberto Magnelli... Scruto uno per uno quei visi come mi vengono incontro, e mi sforzo dileggervi i segni della sorte futura dove la conosco, e dove la ignoro d’indovinarla. Prezzolini e Giuseppe de Robertis osservano dal di fuori, spettatori perplessi.

Come un riflettore che sulla scena tende a fermarsi sempre sul medesimo personaggio, il ricordo continua a tornare su Ardengo Soffici. Se io ne parlerò al passato è perché da lunghi anni non ho più avuto modo di seguirlo nella vita e nel lavoro. Ma qualunque sia il valore di ciò che egli ha fatto in seguito, non credo che la sua influenza sia mai stata più grande d’allora.

A chi poteva guardare un giovane provinciale che si trovasse ad essere uno scrittore d’avanguardia, come si diceva in quel tempo? La considerazione per Papini benchè sincera era temperata in più d’uno di noi dalle riserve che c’ispiravano i suoi urlacci d’allora, i fragorosi sosèiri, quel suo atteggiato romanticismo. E meno che mai ci saremmo volti a F.T. Marinetti, brav’uomo con doni evidenti d’intelligenza e di fiuto, però assai poco sgrossato, e malgrado certe apparenze abbastanza affine a quel pubblico da lui ingiuriato e provocato non senza calcolo. Tra coloro che hanno descritto il suo modo di comparire nessuno ha raggiunto la calzante perfidia di chi disse che pareva una guardia di questura in borghese. Quando io giunsi a Firenze il divorzio tra il futurismo e Lacerba era già avvenuto, e ancor oggi mi domando come si fosse mai combinato quel matrimonio.

Per quelli che la pensavano come me, Ardengo Soffici fu in quel tempo il vero princeps iuventutis, se si può usare un appellativo rimesso in giro da Gabriele d’Annunzio, ma che certamente non aveva più corso nei suoi riguardi. L’attrazione dei suoi libri era forte. Per suo tramite conoscemmo Cézanne, i cubisti, imparammo ad amare Apollinaire; e se non fu lui ad additarci Rimbaud, egli confortò almeno grandemente il nostro entusiasmo per quella scoperta.

Fu detto, mi pare da Renato Serra, e successivamente ripetuto da altri, che il Soffici buono è tutto a Poggio a Caiano, e che il Soffici di Montparnasse non vale nulla. M’e sempre sembrato che a giudicar così si dimentichi come senza Parigi il Soffici scrittore ed artista avrebbe potuto rimaner facilmente un seguace di Fucini e di Fattori come ve ne furono altri, che non sono molto interessanti. Le sue ammirate notazioni «impressioniste» e «toscane» avrebbero lo stesso risalto senza il contorno, o per lo meno il filtro, d’una esperienza assolutamente moderna? Per me non lo credo, e mi soccorre un ricordo. La prima volta che andai a trovarlo a Poggio a Caiano (era come ritrovarsi con un fratello maggiore) aveva sul cavalletto una di quelle composizioni fastose tra futuriste e cubiste che dipingeva in quel tempo, e sul tavolo una cartata di fichi secchi colti di fresco. Questi erano un particolare caratteristico, siamo d’accordo; ma dubito assai se ne conserverei memoria qualora i fichi non avessero avuto accanto quel dipinto incominciato, non solo, ma egli non li avesse per di più scostati con la mano per far posto sul tavolo a un calligramma di Apollinaire giuntogli in quei giorni e che voleva mostrarmi. Tra i libri suoi, poiché siamo nel 1914, conviene soprattutto nominare il Giornale di bordo. Ad aprirlo ora può capitarci di sorridere o di scuotere il capo, come senza dubbio succede all’autore medesimo se quel libro gli viene alle mani, Ma càpita altresì di stupire, riscoprendo ad esempio che la scultura di Rodin vi è giudicata con una severità oggi corrente, ma in quei tempi inaudita verso quel nume dell’anti-accadedemia. Quali che siano poi i pregi intrinseci del Giornale, nessuno che l’abbia letto soltanto in volume può avere idea di quelle che significasse per noi giovani il giungere, in Lacerba, di ogni nuova puntata come un colpo di vento nel chiuso delle provincie.

A conoscerlo, l’ascendente che gli davano gli scritti aumentava. Immagino che allora egli vivesse piuttosto strettamente, e nel vestire non rammento d’aver mai notato ricerca, però v’era (e ci sarà, penso, ancora) nella persona alta ed asciutta come una connaturata eleganza, che lo collocava immediatamente a suo agio in qualsiasi compagnia. Se mi volgo indietro, egli spicca sul fondo di quegli anni come il modello d’uno di quei metafisici saltimbanchi che Picasso aveva dipinto poco prima.

Tuttavia noi ci rendevamo benissimo conto di qualche lato troppo umano del nostro idolo. Per dire di uno poteva accadere sul finire d’una di quelle famose deambulazioni per Firenze notturna (i divani dei caffè e i marciapiedi fiorentini non ebbero mai a subire un maggior logorìo), poteva dunque accadere che con l’assottigliarsi della comitiva scemasse anche, nell’estimazione di Soffici, il numero degli scrittori e degli artisti che in quel momento contavano. Mettiamo che i passeggiatori fossero ridotti a tre. «Insomma in Italia oggi chi c’è? Ci siamo noi», diceva Soffici, tenendo i suoi interlocutori nel raggio di quel suo sguardo limpido, diritto, semplificatore, dal quale essi si sentivano come deliziosamente sollevati e deposti sopra una zattera insieme con l’oggetto della loro ammirazione, mentre i confratelli tutti andavano al fondo. Malvolentieri, uno dei discepoli si decideva a sua volta di rincasare, e l’esaltante conversazione proseguiva a due per vie deserte sulle quali l’alba stava per affacciarsi. L’amato stregone, giunto alla propria porta, concludeva: «0 insomma, in Italia quanti siamo? Ci siamo io e te». (Oppure «io e lei», a seconda dei casi, perché il tu ancora non si sprecava). Il superstite sapeva benissimo che quell’uscio non avrebbe fatto in tempo a rinchiudersi che anche lui si sarebbe ritrovato fra i pesci: su quella zattera non c’era posto che per uno.

Eppure – e qui è l’importante – quelle parole dell’uomo al cui giudizio tenevamo sopra ogni altro, ce le portavamo via ugualmente col cuore riscaldato e il cervello acceso. Parole, certo, che non andavano prese alla lettera; però... Soffici ci aveva bonariamente somministrato una dose potente di quella fiducia in se stesso che a uno scrittore esordiente non è meno necessaria della carta e dell’inchiostro. Così ancora, quando egli invitava a partecipare a una qualche iniziativa, e fosse la più modesta, con la formola quasi stereotipa: «faremo cose grandi e belle», a ognuno veniva il diavolo in corpo, e ci sentivamo ingenuamente capaci di far strabiliare il mondo.

In questo suo dono d’animatore, nella certezza delle loro qualità che egli sapeva infondere negli altri sta, immagino, parte del segreto di quell’affetto che egli ci ispirava. In un pacco di vecchie lettere ho ritrovato l’eco dello sbigottimento generale di quando si sparse la notizia che Soffici era stato ferito in combattimento. E’ un fremito di costernazione, un cercarsi affannoso di notizie da un capo all’altro d’Italia, un respiro di tutti nell’apprendere che egli non era in pericolo. Non senza commozione, lo rividi ormai guarito da un pezzo e tornato li solito, un giorno che passai da Udine, in compagnia di Antonio Baldini, ormai veterano anche lui. «0 lo sai che ti dico? — mi fece Soffici. — Ora che vivo in mezzo a questi generali (era addetto al Comando della III Armata), mi accorgo che niente assomiglia alla strategia vera quanto i discorsi degli strateghi da caffè». Come tutti i portenti veritieri, anche questo divenne chiaro solo dopo il fatto. Caporetto non era lontano. Credo che questo sia stato il nostro ultimo incontro: e l’ultimo per lo meno di cui ho serbato memoria.

Col passare del tempo, insieme coi nostri limiti imparammo a conoscere anche i suoi. Che curioso effetto fa leggere nell’ultimo numero di Lacerba la quale cessò con l’intervento che aveva invocato così ardentemente, un manifesto in cui si dichiara che non appena fosse terminata la guerra, la battaglia artistica e letteraria sarebbe stata subito ripresa al punto in cui s’era costretti a lasciarla! Tra coloro che partirono, uno almeno vi fu che si portò nel sacco la Divina Commedia e Une saison en enfer; un buon viatico, da non vergognarsene neanche adesso. Per quelli che tornarono, sebbene non avessero smesso di legger Rimbaud, «avanguardia» era ormai una parola senza più significato, e per Soffici forse meno che per ogni altro. Ma egli era stato un grande liberatore e maestro dl libertà, ed un esempio di chiara leggerezza, prezioso per chi avesse saputo valersene, proprio nel punto in cui alla vecchia pedanteria stava subentrando quella nuova, di osservanza crociana.

Molti anni dopo, lui ed io ci si trovò su balze opposte di quella voragine che s’aperse nel nostro mondo e nella quale amici e nemici, perseguitati e persecutori, s’arrischiò di finir tutti quanti. Non per questo si cancella ciò che Ardengo Soffici fu per me e per tanti della mia generazione al tempo dei nostri esordi, come, essendomi potuto salvare, ho segnato volentieri qui per memoria.

Di Dino Campana non ricordo cose diverse da quelle che sono già state scritte da altri; ma ugualmente le segnerò.

Era di media statura, un po’ tozzo e greve di membra, anzi, se ben ricordo, leggermente intralciato nei movimenti da una paralisi non grave. Ho conosciuto parecchi russi di tipo molto simile al suo, con la barba rada tirante al rossiccio, occhi assai chiari e larghi zigomi nel volto acceso. Dimostrava qualche anno di più della sua età, e faceva subito pensare a uno di quei vagabondi di cui sono pieni i libri di Gorki. Ricordo, alla sua prima comparsa tra noi, un cappello e un paio di scarpe incredibili. Ma anche in seguito, quando prese a vestire più civilmente, dava sempre, e non saprei dire il perché, l’impressione di aver dormito sotto un ponte. Aveva una guardatura come sdoppiata, cioè quando vi guardava pareva vedesse insieme qualche altra cosa che stesse dietro alle vostre spalle.

Non era un uomo facile, e specie dopo aver bevuto lo coglievano alle volte smanie e furie tremende. Io per la verità lo conobbi sempre mite e cordiale; mi dimostrava una certa simpatia. Credo lo attirasse la mia condizione di borghese privilegiato, tanto diversa dalla sua. Lo vidi più volte alzarsi dal tavolino del caffè dove sedeva con noi per offrire il volume dei Canti Orfici, oggi tanto raro, ad altri avventori del caffè,al prezzo di due lire. S’è detto che egli strappava la dedica al Kaiser quando la faccia dell’acquirente non gli garbava. Per essere esatti, questa mutilazione era una precauzione che egli adottava, in quei giorni di polemiche pro e contro la nostra entrata in guerra, se dalla faccia del compratore gli pareva d’arguire che questi fosse ostile ai tedeschi. Non ho mai saputo la ragione di quel suo chiamarsi l’ultimo dei Germani in Italia, ma penso c’entrasse quel suo aspetto nordico – che però, ripeto, era assai più slavo che di tedesco.

Malgrado l’ammirazione con cui era stato accolto subito, e sebbene si fosse cercato d’aiutarlo in vari modi, spesso egli non sembrava a suo agio. Forse aveva sperato di poter campare, anche magramente, con la poesia, ed era amareggiato di scoprire che non era possibile. Vi era anche in lui, unito ad una scaltrezza spicciola e ingenua come la si trova in chi ha dovuto vivere lungamente allo sbaraglio, un grande candore intellettuale che non sempre s’accordava col tono fortemente smaliziato dell’ambiente fiorentino. Fin da quei tempi, quando non era ancor possibile presagire il suo destino, stando con lui certe volte uno si sentiva stringere il cuore.

In Gozzano e nei crepuscolari, in Palazzeschi, in qualche straniero come Guglielmo Apollinaire alcuni di noi cercavano rimedi contro l’estetismo, poiché d’Annunzio con il suo culto della bellezza, le Vittorie con le ali e senza, gli eroi e tutta quella sua mitologia di guttaperca era statola malattia della nostra adolescenza. Com’era rallegrante, come semplice sentirlo spedito da una mezza frase di Soffici al caffè: «D’Annunzio gli è quella saponata virile...». La ricerca degli antidoti portava a soggetti sempre meno «belli», alla composizione di nature morte dove il posto dei cammei e dei broccati era preso dalle teste d’aringa e altre trouvailles fatte negl’immondezzai. Corrispondeva, s’intende, una poesia spogliata e scarnita fino all’indigenza sia nel metri, che furono accusati d’esser soltanto prosa spezzata in righe ineguali, sia nelle rime relegate nell’interno del verso, o così discoste da parere piuttosto fuggite che cercate, o sostituite con assonanze scarse e povere anch’esse. Insomma la musica cercata era più di risonanze e d’echi che di suoni immediati. L’espressione più compiuta di questi umori si trova nel primo Ungaretti.

Dove questa strada, ad averla seguita fino in fondo, avrebbe finalmente condotto, lo hanno poi mostrato le arti figurative. In un numero della Raccolta, la rivista che faceva a Bologna Giuseppe Raimondi, del giugno 1918, ho ritrovato due paginette di Soffici, annunciate come il capitolo XV ed ultimo («La fine dell’arte») d’uno studio che s’intitola Principî di un’estetica futurista; i capitoli precedenti si danno come pubblicati molto tempo prima sulla Voce e altrove. Hanno l’aria di appunti ripescati da un cassetto, tanto sembrano anteriori al Soffici del 1918 per l’intonazione, e piuttosto contemporanei, si direbbe, delle grandi pitture cubiste di Picasso e di Braque, da noi allora credute un esordio, mentre stanno invece sulla soglia del secolo come solenni panoplie e trofei funebri innalzati ad adornare il sepolcro della pittura ottocentesca, sul quale abbiamo poi visto scherzare come fuochi fatui le estreme esalazioni della pittura metafisica e della scuola surrealista.

Scrive Soffici:

... quello che ci resta adesso del fenomeno arte è così leggero, così sottile, così tenue che un ultimo sforzo basterà a portarci a quella conclusione, a quel principio cui accennavamo sopra: l’arte tende al proprio annullamento.

... L’arte avendo per unica funzione di sviluppare la sensibilità, non fa che preparare i cuori a questo: di non avere più bisogno che di un segno per intendersi. Tutta la realtà può essere un giorno amata condensata in un accenno, e poi senza più intermediario di rivelazione artistica. Destino dunque dell’Arte: rendere inutili le proprie manifestazioni, cioè l’abolizione di se stessa.

In queste parole è dichiarato il segreto fondamentale dell’arte moderna. Infatti vi è non so se estratta o anticipata l’essenza del dadaismo, il movimento in cui si scoprì più apertamente il cupio dissolvi, o per dirla con Freud, la brama della morte che dell’arte moderna, consapevolmente o no, l’ispirazione più profonda. Furono i francesi, incapaci al solito di resistere alle tentazioni della logica, a perseguire questo concetto fino alla sua ultima conseguenza. Essa fu raggiunta qualche anno dopo Dada, quando Marcel Duchamp espose negli Stati Uniti i suoi ready made, cioè le «opere bell’e fatte»: il coperchio d’una macchina da scrivere, uno scola-bottiglie, e altri simili oggetti acquistati dal commercio e montati con importanza su piedistalli, l’intervento dell’artista essendosi ormai ridotto esclusivamente a scegliere una cosa fra mille altre, e ad additarla.

Dopo essersi così rivelata intera, l’aspirazione all’annientamento si rimbucò e tornò sotterranea; ma essa rimane pur sempre il fondo ultimo e vero dell’arte del nostro tempo, nel surrealismo e oltre.

Le lettere invece non proseguirono per questo cammino, almeno non da noi in Italia, e fu proprio le prima guerra mondiale a fermarle. Il mutamento della tendenza si dà generalmente come segnato dalla Ronda. Ma è curioso osservare come gli scrittori fiorentini che avevano fondato Lacerba, dopo la guerra entrino anch’essi, ciascuno per suo conto, in una fase nuova: Palazzeschi non scrisse più versi, Papini imboccò la via di Damasco, Soffici compose l’Elegia dell’Ambra, e anche la sua pittura prese un altro carattere. Dal canto suo Ungaretti aveva cambiato respiro. Quanto a Dino Campana, era ormai murato vivo nella sua pazzia; ma ho sempre pensato che se gli fosse stata concessa diversa fortuna, la sua mutazione sarebbe stata fra tutte la più radicale.

Tuttavia quel tempo ormai remoto lasciò anche da noi, come in altri paesi, una profonda estenuazione, i postumi della quale sembra a volte di riconoscere perfino in coloro che son venuti dopo. In ogni caso, i poetaccioni forzuti di una volta, il cui vanto era di sollevare un quintale per dito, non si sono visti più. Quei due o tre che parevano vogliosi d’assumere la successione non ce l’hanno fatta.