Meriano, Binazzi e Nascimbeni (?) a Bologna, ai tempi della "Brigata"

1916-17

 


Francesco Meriano

Arte e Vita

 

a cura di Gloria Menghetti, Carlo Ernesto Meriano e Vanni Scheiwiller

 

Quaderni della Fondazione Primo Conti - Libri Scheiwiller

Milano 1982

 


 

INTRODUZIONE

 

di Giorgio Luti

 

 

Il mio incontro con Francesco Meriano — o meglio con la memoria dello scrittore e il gusto liberty e démodé degli Epicedi — risale agli anni lontani della giovinezza. Correva il 1945, se ben ricordo. Per noi che uscivamo appena dai giorni della guerra, si aprivano le aule dimesse dell'Università fiorentina nell'antica Piazza San Marco. Pochi, pochissimi allievi ai seminari di letteratura italiana di Giuseppe De Robertis; ma ciascuno portava con sé un suo piccolo mondo letterario da verificare e confrontare con gli altri, nella prospettiva diversa che l'Europa libera e l'Italia finalmente restituita alla vita democratica sembravano consentire alle nostre confuse aspirazioni.

Conservo ancora gelosamente l'esemplare degli Epicedi regalatomi dal compagno di studi Carlo Ernesto Meriano in uno dei nostri incontri giornalieri nelle aule di San Marco o sulle pendici del Salviatino dove allora abitava la famiglia Meriano: pagine grandi, ariose, d'altri tempi; caratteri desueti, copertina illustrata da tratti e figure alla de Karolis, così legati a un'epoca a me totalmente estranea, sconosciuta.

Così allora non furono gli Epicedi a suggestionare la mia fantasia, quanto piuttosto l'immagine misteriosa di quel padre scrittore, viaggiatore, politico, uomo d'azione, troppo presto scomparso negli orizzonti esotici della lontana Kabul, dove forse aveva cercato conforto alla sua inguaribile inquietudine. Quel libro esile mi proponeva una possibile verifica, forse a contraggenio, dell'esistenza di un tenue fantasma che sentivo aggirarsi nelle grandi stanze della villa Meriano folte di ricordi e cimeli di una vita spesa senza risparmio, consumata al fuoco di una passione culturale anomala, inconsueta se confrontata con le sedentarie sembianze di una letteratura che ci aveva profondamente deluso negli anni oscuri della dittatura.

Giorno per giorno, dai fondi di un archivio privato che immaginavo vastissimo, comparivano una carta, una lettera, un documento da leggere insieme, da discutere, da proporre come tassello di una immagine che certo il figlio portava dentro di sé, ma che io dovevo costruirmi passo passo, evocandola da un passato che non mi apparteneva. Intorno a quelle carte segrete veniva affollandosi tutta una galleria di volti, di figure, di libri che per noi significavano la vera arte e la vera letteratura del Novecento europeo: Francesco Meriano aveva davvero attraversato — e non da comprimario — la vita letteraria del primo trentennio del secolo, lasciandovi un piccolo segno, la testimonianza di un'attenzione vigile ai fenomeni decisivi dell'avanguardia novecentesca.

Chi era dunque questo letterato, piemontese d'origine, che aveva trascorso gli anni della prima giovinezza tra Napoli e il fondo della provincia italiana, cercando sempre un aggancio che lo sollevasse al di là dei confini della sua piccola patria e lo collegasse ai grandi fatti della cultura europea? Forse soltanto ora, a distanza di molti anni, possiamo essere in grado di collocarlo al giusto posto nel quadro delle lettere italiane contemporanee. Se gli Epicedi segnano la fine di una stagione, la liquidazione mai del tutto compiuta di una sofferta tradizione crepuscolare, l'Equatore notturno indica, già nel 1916, la scelta che l'artista ha compiuto nell'unica direzione possibile che è quella della rottura col passato e della conquista di un nuovo linguaggio in grado di esprimere il mutamento che cova sotto la cenere di una società in crisi. Soltanto è da aggiungere che l'anima avanguardistica di Meriano fu insieme al di qua e al di là del futurismo nostrano.

Ciò che lo attira e lo convince non è l'artifizio delle « parole in libertà », quanto piuttosto l'empito passionale e la carica innovativa che dalla parola risalgono all'inespresso e al-l'inesprimibile. Per cui il suo futurismo sarà sempre frenato, sul piano tecnico, da una remora ideologica che lo avvicina più che allo spazio marinettiano e lacerbiano a quello del moralismo luciniano. I suoi modelli, in questo senso, saranno molteplici e sempre alternativi, mai consegnati allo stereotipo dominante. Il verso e la prosa non si fermano allo stadio della facile rottura ; al contrario sembrano sempre in cerca di qualcosa che non si trova, di una libertà agognata e impossibile.

Al tempo stesso le pagine saggistiche denunziano sempre un'attenzione critica di straordinaria lucidità, dimostrano una ca-pacità rara di cogliere l'essenza del fenomeno e subito di trascenderne i punti di partenza, verso un approdo che l'artista intuisce ma ancora non sa fermare nella concretezza della pagina. Si spiega così il bisogno continuo di uscire dall'uscio di casa; si spiega l'attenzione ai grandi assenti, soprattutto ai poeti fiamminghi, tradotti con piena aderenza al tessuto originario, ai grandi modelli francesi — da Rimbaud ad Apollinaire —, agli esiti più avanzati della letteratura d'oltralpe, identificati nel movimento Dada e nell'opera di Tzara.

Ripercorrendo, nella breve autobiografia del 1927, il cammino compiuto dagli Epicedi all'Equatore notturno attraverso l'esperienza decisiva della « Brigata », fondata e diretta a Bologna con l'amico Bino Binazzi, Meriano coglieva lucidamente nella propria opera l'origine del dissidio insanabile che caratterizzava la cultura uscita dalla guerra, consegnata all'attrito tra provincia ed Europa: « [...] Se io mi osservo con serenità, trovo negli anni vissuti e nei libri scritti un senso di disorientamento, un eclettismo che ostacola il delinearsi di una personalità. La partecipazione all'interventismo letterario di "Lacerba" che vedeva la forma più squisita della civiltà latina nella dissolutezza francese, o in ciò che di quella dissolutezza narravano i provinciali toscani a caffè; quindi un'adesione grossolana e gaffeuse, facile a diciott'anni, alla campagna contro la Kultur germanica, e in fondo contro la cultura; e in mezzo a tutto ciò alcune priorità di cui mi onoro, come la collaborazione al " Popolo d'Italia " nel suo primo anno di vita.

Ripensando a quei giorni dai quali mi separa una distanza che è più dello spirito che del tempo, avverto il contrasto tra due diverse forme mentali che quasi coesistevano in me. Dopo un volume di liriche riecheggianti tutti i modelli, da Stecchetti a D'Annunzio, e dopo un'antologia di versioni dalla poesia belga contemporanea, pubblico a vent'anni un volumetto di 'parole in libertà', futurismo integrale, edito da Marinetti. Quasi negli stessi giorni, insieme con l'amico Binazzi — umanista senza pesantezza e toscano senza sciatteria — dà vita alla " Brigata ", bollettino mensile di poesia e critica, nella quale sarebbe facile ritrovare molte delle idee che divennero poi così noiose nelle mani dei neo-classicisti e conservatori della tradizione letteraria. C'è già, insomma, per usare una terminologia corrente, la stracittà e lo strapaese : come c'era, per fare un nome, in Soffici, che scriveva i Chimismi lirici e il Lemmonio ».

Appare evidente che, in questa prospettiva, per sanare il conflitto, occorre procedere oltre, impostare un'azione onnicomprensiva, avviare una lucida diagnosi di ciò che è accaduto e soprattutto di ciò che dovrà accadere per chi, come lui, aveva scelto di vivere, senza remore o esitazioni, nel cuore dell'antitesi, risolvendo il problema del rapporto tra vita e poesia nella piena coscienza delle ambiguità del proprio tempo: « [...] La vita come l'arte, è una e diversa; né io voglio, per amor della scelta, rinunciare alla minima parte di conoscenza. Quale sarà la strada che, per conto loro, sceglieranno le generazioni più giovani della nostra? Cari amici, se bado alle scuole, ai libri, al clima famigliare, dubito forte che il razionalismo, cioè l'intellettualismo che ha dato nelle scienze il metodo positivo e nelle lettere il metodo storico, finirà per essere sconfitto; ed assisteremo ad una sorta di misticismo dell'azione, del quale l'origine più recente e più nota è da ricercarsi nella morale dannunziana volgarizzata dal futurismo ».

Sta di fatto che le Croci di legno, pubblicate a guerra appena conclusa, non possono che apparirgli un consuntivo dei debiti e dei crediti contratti nella sua breve esperienza d'artista, o forse un definitivo testamento letterario, una conclusione oltre la quale lo attende una sola scelta possibile: « [...] per chiudere questa pagina scritta, più che su me, contro di me, dichiaro che sono un torinese trapiantato a Napoli a sette anni e a Bologna a venti ; che ho fatto il mio dovere durante la guerra, giungendo al grado di sottotenente di fanteria; che ho fondato, nell'agosto del diciannove, il primo Fascio di Combattimento della Romagna ».

A conti fatti pesa soltanto l'ultimo passo compiuto. La scelta di campo è tutta giocata sul versante dell'azione dove si consuma e distrugge l'esito estremo della propria vocazione letteraria. I grandi incontri non sono bastati ad assolverlo, anche se hanno scandito il ritmo dell'esistenza. Proprio Apollinaire — il grande amico — gli ha insegnato che la letteratura si consuma e finisce come la vita. I compagni di strada — Binazzi, Saba, Boine, Montale, Solmi — hanno scandito per lui solo un percorso provvisorio. Il futuro non si tinge della foscoliana salvezza nelle Grazie.

Così questo letterato che giudica impietosamente il proprio itinerario e conosce criticamente i geni oscuri della sua origine, non può che saltare il fosso ; se vuol essere conseguente, deve spostare l'accento dall'avventura letteraria ai nodi irrisolti del suo dubbio esistenziale: « [...] Trentun anno mi sembrano pochi se considero una certa curiosità di avventure e d'esperienze che è acerba in me come negli anni dell'adolescenza, certe inquietudini e certi entusiasmi; credulità nelle amicizie, nella bontà degli uomini, nel peso dei fattori morali, che derivano dal desiderio di abbellire, per il mio godimento, la vita associata ; trasparenza dello spirito ad ogni emozione, ad una stretta di mano leale o ad una cattiva piega delle labbra, a un raggio di sole o a un'improvvisa foschia.

Ma trentun anno mi sembrano troppi se considero la distanza che la guerra ha creata tra i giovani nati negli ultimi anni del secolo scorso e quelli nati nei primi del secolo nuovo ». E così abbiamo di fronte — e spostato in avanti di un decennio soltanto — un altro « esame di coscienza » di un letterato che esamina ora gli esiti impietosi del grande conflitto. Né d'altra parte sarà un caso se anche quest'ultima confessione proviene dalla stessa provincia cesenate. La scelta umana e politica — e in fondo l'autodistruzione — di questo convinto as-sertore della libertà e dell'autonomia dell'arte, è da cercarsi dunque in un nucleo irrisolto di ragioni e aspirazioni. Ciò che prevale è la contraddizione : gli eventi del proprio tempo condizionano senza scampo.

Per cui la poetica prevale sullo stile, così come la pagina bianca della vita soffoca la pagina scritta della letteratura. L'etica dell'eterno « viaggio » seduce e persuade : l'ultimo approdo è intravisto nel volo liberatore dell'aereo che parte verso orizzonti irraggiungibili. Anche la sua voce po-litica, che sembra nascere dagli esiti del fascismo rivoluzionario della provincia, lascia subito alle spalle le sue stesse componenti. Il fondatore del primo fascio di combattimento della Romagna parla in un linguaggio che non è quello del fascismo al potere. Cerca, per la sua « vita esemplare », aree lontane e inesplorate che lo sollevino dalla desolata provincia in cui si trova ad operare. D'altra parte anche il giornalismo politico-sociale prescelto negli anni della sua consapevole maturità conduce Meriano in una zona soli-taria: il giornalista parla una lingua diversa da quella di coloro che innalzano i labari neri nella patria fascista.

L'ortodossia del discorso politico sembra volontariamente in-crinata dalla consapevolezza del provvisorio, da un dubbio oscuro sulla propria sorte umana. Così l'uomo pubblico cerca instancabilmente le ragioni della sua inquietudine. La strada per i paesi lontani — Odessa, Kabul... — passa di qui, da questo esilio terreno oltre il quale non può che aprirsi un porto misterioso e sconosciuto. « Disporre di almeno sette vite / suicidarsi un paio di volte / scomporsi come un mosaico... » : le parole del giovanissimo poeta « maledetto » scandiscono le tappe dell'irrequieto cronista di un mondo che non esiste : la Tripolitania, la Russia, le pianure e le montagne dell'Asia centrale, bruciano rapidamente l'ansia tutta letteraria del giovane intellettuale che ha scelto l'esilio in terra.

Francesco Meriano, deputato fascista, diplomatico, ambasciatore d'Italia, consuma così i pochi anni di vita tra avventura e rinunzia non diversamente dal letterato che, nutrito di tradizione, aveva respirato l'avanguardia europea come un mito irraggiungibile. « La memoria — si legge nel racconto il sesso del profeta — non va oltre i duemila anni. E tempo che gli uomini rinascano. Che le vecchie case e le vecchie cose siano tranghiottite dalla terra, che l'uomo ricomunichi con Dio... ». Forse fu proprio la consapevolezza di questa rinascita impossibile a condurlo in paesi da cui non c'era ritorno. Del resto, diceva, « chi non vuol perdere la propria vita deve saper vivere nel proprio tempo »: un tempo ingrato, certamente, e un tempo, il suo, che avrebbe condotto al diluvio della guerra e alla caduta del fascismo. La pagina scritta che rimane a documentare la consapevolezza del poeta e del critico, può forse spiegare anche l'ultimo esito — tra ironia e disinganno —di una breve parabola umana consumata nel fumo della sigaretta che accompagna l'ultimo viaggio: « basta una sigaretta per volare ».