giorgio morandi

Giorgio Morandi

 


 

Marilena Pasquali: Gli incontri del giovane Morandi (1910-1914)

L'incontro a Bologna fra Dino Campana e Giorgio Morandi

da HORTUS MUSICUS, n° 11, Luglio – Settembre, 2002

 

Si è chiusa il 29 giugno, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, la mostra I portici della poesia: Dino Campana a Bologna (1912-1914), a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Gabriel Cacho Millet.1 Certamente l’elemento di maggiore interesse dell’iniziativa è rappresentato dal volume, assai documentato e circostanziato, che accompagna l’esposizione dei documenti. E non poteva essere altrimenti, vista la competenza e l’affidabilità dei curatori che hanno saputo fare il punto sullo stato degli studi campaniani su questo tema specifico e raccogliere ciò che a tutt’oggi è noto sull’argomento.

In questo quadro si inserisce anche il contributo storico-critico che mi è stato chiesto in merito all’incontro avvenuto nel 1914 tra il poeta e Giorgio Morandi,2 incontro emozionante per chi oggi scopre la copia dei Canti Orfici, nella prima, ormai leggendaria e preziosissima edizione stampata dalla Tipografia F. Ravagli di Marradi, con dedica del giovane poeta all’ancor più giovane pittore (29 anni l’uno, 24 l’altro):3

                                            «All’eccellente pittore / Giorgio Morandi / con cordialità / Dino Campana».

Rimando al volume ora ricordato per un approfondimento su questo episodio che può apparir persino ‘fatale’ – il grandissimo poeta e il grandissimo artista che si ‘fiutano’ a vicenda, quando entrambi sono ancora, di fatto, degli sconosciuti. Ciò che mi preme qui sviluppare, prendendo spunto dalla mostra bolognese, è piuttosto il tema degli incontri del giovane Morandi negli anni della formazione, una Bildung su cui molto è stato scritto ma che può riservare ancora alcune sorprese non prive di significato.4

Vado dicendo ormai da anni che l’artista è uomo di vivace curiosità, di impregiudicati interessi e di grande intuizione critica, tanto che molto spesso parlo delle sue ‘antenne’, sempre pronte a recepire quanto di meglio stia di volta in volta nascendo e si stia sviluppando in campo artistico, e affermo quasi con stupore che, sul piano culturale, Morandi non ha mai sbagliato un rapporto. Se questo è vero per la sua maturità – è nota la sua stima nei confronti di Matisse, Mondrian e Burri, il legame discreto, a distanza, che lo unisce ad esempio a Julius Bissier – figurarsi che cosa può comportare un atteggiamento di tale attenzione e capacità recettiva e reattiva nei suoi anni di gioventù, quando Morandi non è ancora l’individuo schivo e chiuso su cui si è costruita una leggenda fatta di qualche verità e di molte forzature, ma è piuttosto un ragazzo entusiasta e non ancora frenato dall’esperienza, che vuole conoscere, vuole crescere e vuole per sé il meglio.

Purtroppo la quasi totalità dei carteggi e dei documenti relativi a questo periodo è andata perduta nel trasloco, tutto interno alla casa di via Fondazza ove i Morandi abitano dal 1910, cui la famiglia è costretta nel 1933 a causa delle peggiorate condizioni di luce nella prima, a noi sconosciuta, camera-studio di Giorgio (nella nuova sistemazione l’artista troverà ancor più raccoglimento e quella luce leggera che, spiovendo dai colli bolognesi, trapassa il cortile ed entra dalla finestra a dissetare la sua pittura). Ma qualche cosa di quegli anni è giunto fino a noi attraverso i primi articoli sulla sua arte, le testimonianze di chi con tanta precoce acutezza ne ha compreso l’unicità, qualche documento, lettera e appunto inedito conservati presso il Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna.

Innanzi tutto i luoghi. Si è detto di via Fondazza, strada stretta e lunga, tutta portici, quasi al margine estremo del centro storico bolognese ‘verso la porta’, avara di aria, di luce e ricca solo di umanità (scriverà nel 1946 Mario Bacchelli, il fratello pittore di Riccardo: «via Fondazza, dai portici bassi e dalle bottegucce scure, che hanno nelle vetrine oggetti che si direbbe nessuno debba mai comprare: omini ocarine e cavallucci impastati di farina di castagne, trombe e fischietti da bimbi, santini e madonnine di zucchero fuso»5). Questo il ‘luogo’ per antonomasia di Morandi, l’ambito gelosamente protetto dei suoi affetti così come il campo delle sue speculazioni per immagini, senza però dimenticare le aule dell’Accademia di Belle Arti che il ragazzo frequenta dal 1907 al 1913 – i corsi inferiori e quelli superiori fino al diploma –, le strade percorse parlando e parlando fino a tarda notte, i caffè del centro, soprattutto il Caffè San Pietro in via Indipendenza all’angolo con via Altabella, dove quasi quotidianamente si ritrovano allo stesso tavolino «presso un divano rosso»,6 i giovani intellettuali un po’ scapigliati, un po’ ribelli, un po’ provocatori, che sono i primi, veri amici di Morandi.

Eccoli dunque, iniziando dai primi, i prescelti tra i compagni di Accademia: durante l’anno scolastico 1909-1910 Morandi incontra i più giovani Osvaldo Licini, Giacomo Vespignani e Severo Pozzati, pittori i primi due, allora scultore il terzo, poi divenuto uno dei maggiori cartellonisti e grafici europei. Con loro Giorgio stringe quell’amicizia che solo tra giovani è possibile, dividendo propositi e lavoro, rabbie ed entusiasmi.

Non sappiamo se già nel 1910 partecipino anche loro alle prime due tappe del suo personale ‘viaggio in Italia’, ma ciò non si può escludere e certo essi divengono i primi depositari dei suoi racconti ricchi di scoperte e di illuminazioni. Ma lasciamo la parola a Francesco Arcangeli che meglio di chiunque altro ha saputo tratteggiare questi inizi: «Ecco allora, nel 1910, i primi grandi incontri. Accaddero, come poi quasi sempre in Morandi, su due piani ugualmente approfonditi: incontro con pochi grandi antichi, incontro con pochi grandi moderni. Pochi, non per l’esperienza, che Morandi ha assai vasta, e sorretta da una intuizione e da una memoria associativa da suscitar francamente invidia in noi della professione, ma per l’attenzione amorosa e inesausta che riserba a rari maestri del passato e dei tempi nuovi […]. Il 1910 è l’anno dei primi due viaggi memorabili: a Firenze, appunto, e a Venezia per la Biennale.

“Ancor oggi – ha scritto Vitale Bloch – racconta del suo primo giorno a Firenze: le chiese, a cercar gli affreschi di Giotto, di Paolo Uccello, di Masaccio; agli Uffizi; la sera stava a letto con un febbrone”. […] A Venezia, soprattutto, i Renoir. […] Sono passati molti anni da quando vidi, con emozione, tra le mani di Morandi, i fogli ingialliti strappati al vecchio catalogo: i fogli di Renoir. Scrive, di quella sala, il coetaneo Roberto Longhi: “Me ne ricordo b

ene, perché per tutti noi, giovani sui vent’anni, sia pittori che critici, fu la prima rivelazione diretta della pittura moderna”».7
Poche cose meglio di questa notissima pagina di Arcangeli, che porta con sé anche Longhi e Bloch, possono restituire il sapore di quelle scoperte, di quella bruciante sindrome di Stendhal che la sera blocca a letto, arso dalla febbre del troppo bello, il giovane Morandi (e, in qualche cosa, pare affacciarsi fin da questo momento la figura maudit di Campana, quest’altro giovane preso nel vortice d’incanto delle immagini che, in lui, si fanno parola di poesia). Ma in quel primo aprirsi al mondo della cultura e dell’arte non ci sono solo i maestri, perché per Morandi e compagni molto vale l’immediata contemporaneità, l’interesse per il futurismo e per quei pittori d’Oltralpe che, facendo proprie le conquiste di Cézanne, hanno intrapreso la scomposizione della forma.

Mentre per il maestro di Aix-en-Provence e per Picasso le fonti per quanto valide non possono essere che indirette, soprattutto riproduzioni in bianco e nero e gli articoli di Ardengo Soffici che appaiono su La Voce,8 con i protagonisti del futurismo l’incontro è possibile e questo è ciò che i giovani bolognesi – di nascita o, come Licini, di adozione – cercano con entusiasmo e determinazione.

Un punto è fondamentale: Morandi non sarà mai futurista, neppure per un breve periodo,9 perché la sua indole umana e la sua scelta artistica richiedono rigore ed equilibrio, senso della costruzione e misura, concentrazione e silenzio. Per questo la sua attenzione vera, il rispetto dovuto ai maestri, il desiderio di imparare e rielaborare sono tutti per Cézanne e, in second’ordine, per il cubismo. Ma il richiamo di Marinetti e del suo movimento è davvero seducente e il giovane segue l’amico Licini come spettatore delle serate futuriste di Modena e Firenze, nonché alla pièce Elettricità di Marinetti, rppresentata con «grande gazzarra» al bolognese Teatro del Corso il 19 gennaio 1914.10

Ma già prima di queste date Morandi ha incontrato Marinetti e Boccioni tramite Balilla Pratella a Lugo di Romagna, ove è di casa il terzo amico, il lughese Giacomo Vespignani conosciuto insieme a Licini due anni prima in Accademia. Balilla Pratella aderisce al movimento con il Manifesto dei musicisti futuristi dell’11 ottobre 1910 ed apre la sua casa ai giovani del paese e non solo, per fare proseliti e per diffondere la conoscenza del nuovo linguaggio in vista della nuova cultura, del nuovo mondo che deve nascere.
Lasciamo la parola al musicista che così ricorda nella sua Autobiografia11quel periodo così elettrizzante: «Anche la mia casa di Lugo cominciò nel 1911 ad essere frequentata da molti giovani, studenti, pittori, letterati, musici, concorrentivi non solo dal paese, ma anche da quelli vicini; attirativi dall’amicizia, ma attirativi pure e allora [sic] dalla celebrità e dal fascino personale del Marinetti e da quello delle sue idee audaci, geniali e nuove, se pur paradossali.

Ne capitavano, oltre che da Lugo, da Ravenna, da Forlì, da Faenza, da Bologna. I giorni in cui c’era il Marinetti, ci si trovava assieme da tutto il pomeriggio sino alle ore piccole dopo la mezzanotte; ed era un continuo succedersi di audizioni musicali, di mostre di pitture, di lettura di poesie, di accese discussioni artistiche, culminanti sempre nella incomparabile declamazione da parte di Marinetti delle sue pirotecniche poesie e di quelle di altri poeti futuristi quali il Buzzi, il Govoni, il Palazzeschi.

[…] Né devo lasciar passare sotto silenzio il passaggio dalla mia casa e la frequenza in essa, e specialmente nei primi tempi, del primo scrittore e romanziere italiano vivente, Riccardo Bacchelli, allora agli albori della sua luminosa carriera, del fratello Luigi, buon pittore [si tratta, in realtà, di Mario Bacchelli, n.d.r.]; del grande e geniale pittore Giorgio Morandi e del suo bravo compagno d’arte Osvaldo Licini marchigiano, entrambi studenti allora, e col lughese Giacomo Vespignani, all’Accademia di Belle Arti di Bologna, essendo essi – i più – di Bologna, o standovi. Se il Vespignani, come ho già detto, e il Licini avevano aderito per lo meno idealmente ai principi del futurismo, il Morandi perlomeno li aveva presi in seria considerazione, e il Bacchelli non si dimostrava né avversario, né spregiatore del movimento».

Assai fine è il giudizio di Balilla Pratella: Morandi, come fa con tutto ciò che lo interessa veramente, prende davvero in «seria considerazione» la proposta futurista, ma non la trova a sé confacente e perciò partecipa sì a tutte le occasioni possibili, ma come semplice osservatore. E non è ancora finita; mentre leggiamo in un suo appunto inedito: «Ricevevamo tutti i manifesti futuristi – non ‘il mio futurismo’ di Papini – ‘Pittura e scultura futuriste’ di Boccioni – ‘Cubismo ed oltre’ di Soffici ed anche, quasi certamente, ‘Cubismo e futurismo’»,12 sappiamo che è lui uno dei tre protagonisti dei Racconti di Bruto, scritti da Osvaldo Licini nella sua Montevidon Corrado durante l’estate del 1913 e inviati a Balilla Pratella affinché ne proponga la pubblicazione su Lacerba:13 insieme a Bruto (l’autore stesso) e a Giacomo, Giorgio vive avventure da studente, scandalizza le signorine di buona famiglia con scherzi e parole persino audaci, ‘va a casino’ con gli amici, trascorre le notti a chiacchierare e a discutere.

Sicuramente il motore di tutto questo è l’irrequieto e scapigliato Licini, ma il buon Morandi non si tira certo indietro e mostra una fisionomia a dir poco inaspettata, lasciandoci finalmente comprendere come l’uomo serio e schivo della maturità si sia sostituito solo cogli anni al giovane assetato di vita, ricco di interessi non solo artistici che abbracciano, oltre alle parole nuove del futurismo, la poetica nicciana e faustiana di Dino Campana e i versi del «corruttore» Arthur Rimbaud, un interesse che divide con l’amico letterato Giuseppe Raimondi, più giovane di lui di nove anni e vivace nello stabilir stimolanti rapporti culturali forse ancor più di Osvaldo Licini.

Viene quasi il sospetto che Morandi, così cauto e chiuso nel proprio guscio, ammiri proprio quei caratteri che sembrano opposti al suo, subendone il fascino e traendone stimoli per la sua comunque solitaria speculazione (oltre che Licini e Raimondi, un terzo amico ‘rompicollo’ conserverà Morandi per tutta la vita, il toscanaccio Mino Maccari, che con lui si comporta con stima ma anche con pungente ironia e una qualche spiccia affettuosità).

Gli scritti di memorie di Giuseppe Raimondi, sempre affascinanti, lasciano qualche dubbio sull’esattezza di luoghi, date ed episodi, ma restano comunque una miniera di informazioni e sanno far rivivere felicemente l’atmosfera di quegli anni, tra il 1910 e il 1918, in cui la borghese, accademica e sonnolenta Bologna, per merito di questo pugno di giovani, si trasforma in quella che Ragghianti ha definito la «Bologna cruciale», crocevia di acquisizioni e di rielaborazioni culturali valide per tutta Italia.

Così egli, che conosce Morandi intorno al 1916 per divenirne amico fraterno agli inizi del 1918, scrive ad incipit di Viene Morandi, secondo capitolo dei suoi Divertimenti letterari:14 «Era il tempo in cui noi si leggeva Rimbaud. […] Noi, vuol dire il sottoscritto e l’amico pittore. Si lavorava, più che col nostro poco di francese, di fantasia; inducendo nel significato quanto era possibile di conoscenze moderne: poesia, giri di frase di chi, in Francia, c’era stato (Soffici, Bacchelli), e soprattutto il gusto con cui stare in compagnia tra artisti, al caffè, o in trattoria, le quali cose messe insieme, davano un carattere, un tono di modernità, cioè di intellettuale rivolta verso l’educazione, verso la compostezza della scuola e della famiglia. In modo diverso, ci sentivamo tutti antiborghesi. O, almeno, un poco, o molto, diversi da quelli di prima. Poesia, o vita civile. Rimbaud, il grande corruttore, il dissipatore della nostra gioventù artistica, letteraria. Rimbaud era l’altra faccia della medaglia, che recava sul rovescio la faccia antica di Cézanne.

[…] E a Morandi compiaceva il parlare, affocato ma tremendamente calmo, di Rimbaud; dove le indicazioni, le suggestioni d’immagine nuova, ferrea e ‘moderna’, potevano essere dedotte e piegate secondo la piega del suo temperamento. Che, d’altra parte, non fu mai quello, solamente, di un contemplativo. Né in arte, né nella vita; che erano poi, per lui, la medesima cosa. Non fu mai quello che si dice un uomo tranquillo».
Per comprendere Morandi e la sua pittura è necessario tenere a mente queste parole di Raimondi, forse una delle poche persone che hanno con lui condiviso interessi e passioni, fino a goderne della più completa confidenza e quindi a conoscerlo a fondo.

Pochi altri gli sono altrettanto vicini in questi anni fondamentali. A ben guardare forse i soli fratelli Bacchelli, Riccardo e Mario, conosciuti nel dicembre del 1913 e con i quali l’artista dividerà altre avventure della mente: la passione per Renoir, personalmente conosciuto da Mario a Parigi, nel 1912-13, durante un soggiorno di studio; la scoperta abbacinante, nel 1914, degli affreschi di Vitale da Bologna a ‘mezzaratta’ sulla salita dell’Osservanza; il primo articolo a lui dedicato da Riccardo su Il Tempo di Roma il 30 marzo del 1918.

Ma, a questa data, dopo una guerra insensata e grondante di sangue che ha falciato un’intera generazione di giovani e, con loro, ha ucciso il senso della giovinezza e della bellezza, il mondo è cambiato – è iniziato davvero ‘il secolo breve’ – ed anche Morandi, ammalato per lunghi mesi nel 1917,15 è cambiato. Dalla crisi più grave, dal fondo dell’abisso, egli emergerà temprando la sua arte al filo del dolore e dando vita a quella stagione irripetibile e unica che è la sua personale interpretazione della Metafisica.

 


NOTE


1 La rassegna, che ha presentato i documenti cartacei e bibliografici utili per ripercorrere gli anni bolognesi del poeta, è stata promossa dalla Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna in collaborazione con la Soprintendenza per i beni librari e documentari dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e con l’Associazione Premio Letterario Dino Campana. Il volume-catalogo della mostra è pubblicato da Pàtron Editore e contiene saggi dei curatori e di Marilena Pasquali, Pantaleo Palmieri, Greta Bilancioni, Gloria Manghetti, oltre che la riproposizione di pagine storiche di Bino Binazzi (1914 e 1922), Giuseppe Raimondi (1924 e 1955), Riccardo Bacchelli (1918 e 1954) e Federico Ravagli (1951). Nell’occasione viene ripubblicato dalla Clueb di Bologna anche il volume di Federico Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo (Marzocco, Firenze 1942).


 2 Ivi, pp. 87-97: «I vostri occhi forti di luce». L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana. Quello in cui il poeta vende – questa l’ipotesi più probabile – al pittore il suo volumetto di poesie, non è certo il loro primo incontro, dal momento che la conoscenza fra loro deve esser fatta risalire agli ultimi giorni del 1912, come ricorda Giuseppe Raimondi nel suo primo articolo su Giorgio Morandi, comparso sul quotidiano Il Nuovo Paese il 12 aprile 1923: «Essendosi fiutati, erano quasi amiciMorandi e Campana. È lui che racconta di aver visto per la prima volta “il povero Dino” alle prese coi birri per avere accoppato un brutto cagnolo da signora», episodio accaduto intorno a Natale, come riporta il quotidiano bolognese Il Giornale del Mattino del 27 dicembre 1912.


3 Ritrovai personalmente questo esemplare dei Canti Orfici tra le carte di Giorgio Morandi, nel 1993, al momento del trasferimento del suo studio dalla collocazione originale, in via Fondazza, a Bologna, agli spazi del museo a lui intitolato che stava per nascere in Palazzo d’Accursio. Da allora il volume è conservato presso la biblioteca del Museo Morandi.


4 Ricordo, in primo luogo, la monografia di Francesco Arcangeli, Giorgio Morandi, Edizioni del Milione, Milano 1964: in questo saggio fondamentale, ben 144 pagine sono riservate agli anni tra il 1910 e il 1919! Si possono inoltre citare, fra gli altri, il saggio del 1969 di Carlo L. Ragghianti, Bologna cruciale 1914 (poi ripubblicato nell’VIII volume delle Opere dello studioso dalle Edizioni Calderini di Bologna nel 1982) e lo studio monografico di Guido Giuffré, Giorgio Morandi, Sansoni, Firenze 1977.


5 Giorgio Morandi, pittore bolognese. Articolo scritto da Mario Bacchelli per la rivista Magazine of Art di New York nel febbraio 1946. Non si sa se in effetti il testo sia stato tradotto e pubblicato (una lettera di Bacchelli a Morandi del 28 giugno parla dell’intenzione di farlo apparire sul numero autunnale), ma il dattiloscritto è stato conservato dall’artista e dalle sue sorelle ed è oggi conservato presso il Centro Studi Giorgio Morandi.


6 Giuseppe Raimondi, Solo parlando di Matisse, Morandi s’illuminava, in il Resto del Carlino, Bologna, 19 febbraio 1979. Nonostante il titolo persino fuorviante, l’articolo è ricco di informazioni che, pur richiedendo un filtro particolare e molta cautela, restituiscono soprattutto il sapore di un luogo e di un tempo.


7 Francesco Arcangeli, op. cit., pp. 22-23.


8 Per Paul Cézanne, cfr. Ardengo Soffici, L’impressionismo e la pittura italiana, quattro articoli comparsi su La Voce tra il 1 aprile e il 6 maggio 1909 (nn. 16-18-20-21) e quello dedicato all’Esposizione di Pittura Impressionista organizzata dalla stessa rivista al Lyceum di Firenze tra il 15 aprile e il 15 maggio 1910 (La Voce, n. 22, 12 maggio 1910); nel 1914, nella collana «I Maestri Moderni», uscirà per gli stessi tipi il fascicolo illustrato Sedici opere di Paul Cézanne (il secondo fascicolo verrà dedicato a Henri Rousseau ed il terzo, sempre nello stesso anno, a Dodici opere di Picasso). Di quest’ultimo compare anche su La Voce la riproduzione di un disegno di Bagnanti appartenente a Soffici (n. 47, 21 novembre 1912), mentre è del 1912 il volume di Albert Gleizes e Jean Metzinger, Du cubisme. Come afferma Lamberto Vitali nella sua monografia (Giorgio Morandi pittore, Milano, Edizioni del Milione, 1964, p. 17 e nota 33), «Morandi l’ebbe di sicuro per le mani».


9 L’unico lavoro conosciuto di Morandi che si avvicina agli stilemi futuristi è un piccolo disegno del 1914, realizzato a matita ma costruito come un collage in cui spicca un titolo scritto a mo’ di parolibere Tabak Regie. Sempre conservata dall’artista nel suo studio, nel 1991 l’opera passa alle raccolte del Comune di Bologna nel quadro della grande donazione di Maria Teresa Morandi, autrice del gesto straordinario che ha determinato la nascita del Museo Morandi.


10 A Modena i futuristi giungono il 3 giugno del 1913, mentre sono a Firenze il 12 dicembre per la «Grande Serata Futurista» che si tiene al Teatro Verdi e che diviene l’appuntamento centrale della «Esposizione di Pittura Libera Futurista» organizzata in via Cavour da Lacerba, con dipinti di Boccioni – Stati d’animo –, Carrà – Galleria di Milano e Ritmi di oggetti – e 18 opere di Ardengo Soffici. Certamente Morandi e compagni non se la lasciano sfuggire.


11 Balilla Pratella, Autobiografia, Pan Editrice, Milano 1971, pp. 109-111. Cfr. anche Caro Pratella. Lettere a Balilla Pratella scelte e commentate da Gianfranco Maffina, Edizioni del Girasole, Ravenna 1980, p. 27.


12 Appunti inediti ritrovati fra le pagine di un volume donatomi da Maria Teresa Morandi nel 1990.


13 Osvaldo Licini, Errante, erotico, eretico. Gli scritti letterari e tutte le lettere, a cura di Zeno Birolli e Franco Bartoli, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 103 e 191: nella lettera del 17 settembre 1913 a Balilla Pratella, Licini ribadisce la sua «autenticità di futurista convinto, vecchio e disinteressato» e termina «Saluti Vespignani e che mi scriva. Peccato che non ci fui anch’io quel giorno insieme a Morandi». Nell’ultima pagina del quadernetto che il giovane artista marchigiano invia invece all’amico bolognese, si legge, a mo’ di conclusione, la nota: «Le altre le leggerai a Bologna (Mi dispiace, caro Morandi, di non poterti mandare le altre. Mi tocca manoscriverle una per una e tu sai che la pazienza non ce l’ho avuta mai)».


14 Giuseppe Raimondi, I divertimenti letterari (1915-1925), Mondadori, Milano 1966, pp. 19-21.


15 Mario Bacchelli (cfr. nota 5): «Venne la guerra e mentre noialtri del suo gruppo, tutti fra i 20 e i 25 anni, eravamo presi e mandati nelle caserme e sui campi di battaglia, a Morandi l’avventura che lo avrebbe tolto a forza dalla fissazione dei suoi barattoli fu risparmiata per gravi motivi di salute. In quegli anni duri per tutti, avemmo forti ragioni di temere che la sua vita d’artista si sarebbe troncata all’inizio. Nelle rare licenze s’andava a trovar Morandi allampanato nel suo lettino, presso al tavolo tutto pieno e ingombro delle bocce e dei barattoli che porgevan soggetto alle sue meditazioni pittoriche».