Aldo Santini: Athos Gastone Banti, giornalista audace

che sapeva colpire di penna e spada

 

Un ritratto dal vivo del giornalista livornese che ebbe modo di scontrarsi

con Dino Campana nel 1916, a Livorno

 

 

athos gastone banti a destra nella foto

Athos Gastone Banti, a destra nella foto

 

 

Da Il Tirreno — 18 settembre 2005  

Con Athos Gastone Banti, che fu direttore del “Telegrafo” poi diventato “Tirreno”, continuiamo la serie dei ritratti di personaggi raccontati da Aldo Santini nel libro «Livornesi nel Novecento». 

Quando nel secondo decennio del ’900 la sua firma appare sempre più frequente sul «Telegrafo», i livornesi, con micidiale umorismo, cambiano il suo nome in uno sberleffo: «Athos, bastone e guanti». Lui ne gioisce: «È segno che mi leggono». E difatti i suoi interventi, i suoi servizi, le sue polemiche, i livornesi se li bevono come grappini.  Figlio di madre ebrea, Emma Della Riccia, Athos Gastone Banti è un impiegato delle poste allorché prende a collaborare con il giornale di piazza Carlo Alberto. La sua carriera è rapida. Assunto in pianta stabile, diviene presto capo redattore e appena scoppia la Grande Guerra il «Giornale d’Italia» di Bergamini, di cui è corrispondente da Livorno, ne fa il suo inviato speciale al fronte. E lassù, con Barzini senior, Guelfo Civinini e Fraccaroli del «Corriere della Sera», forma un poker di assi del quale non sappiamo se apprezzare di più l’autorevolezza o l’audacia.

Una caratteristica, l’ultima, che accomuna Civinini e Banti, entrambi livornesi.  Proprio Civinini, nel 1952, mi disse: «Io e Gastone amici lo siamo diventati dopo. Allora, sul fronte, eravamo rivali, addirittura nemici. Fra noi due c’era una gara a chi osava di più. Lui non te lo rivelerà mai, perché di queste cose preferisce tacere, ma nel 1918 meritò la medaglia d’argento per aver seguito passo passo l’avanzata sanguinosa dei bersaglieri dalla riva destra del Piave». Trenta lire  Bene. È questo AGB che il 28 gennaio 1945 fonda «Il Tirreno» in una Livorno sfasciata dalla guerra. Ha 64 anni ma è ancora giovanile. È ancora un moschettiere baldanzoso. Statura media, fisico robusto, occhi celesti, sguardo che ti trapassa mitigato da un sorriso sornione. AGB racconta sull’Annuario delle Stampa Italiana, edito da Garzanti nel 1957, che la fondazione del giornale gli costò trenta lire, il prezzo della testata di zinco del «Tirreno». E spiega che da Roma, dove abitava, aveva chiesto di tornare a Firenze per riprendere il dialogo troncato venti anni prima dai fascisti che gli avevano incendiato «Il Nuovo Giornale».

Gli americani non gli dettero il permesso ma gli dissero che se avesse accettato di andare a fare, a sue spese, e rischio, un giornale indipendente a Livorno, avrebbero concesso l’autorizzazione. Bisognava passare da Firenze, e farsi consegnare il documento. AGB ci va e lì gli dicono che glielo danno, purché esca il 28 gennaio. È il 27.  Sentite come rievoca quel 28 gennaio. «Arrivai a Livorno sull’imbrunire della vigilia, con un’auto americana che mi scaricò davanti al palazzo fortunamente illeso dell’ex Telegrafo, e ripartì subito. Avevo portato la testatina del «Tirreno» e un paio di articoli prefabbricati. Trovai che nello stabilimento tipografico, che era di proprietà Ciano, e che gli alleati avevano requisito affidandone la gestione a un uomo di molta esperienza e cortesia, l’editore livornese Gino Belforte, si stampavano già lo «Stars and Stripes» e un giornaletto d’armata. Gli operai c’erano, ed erano livornesi. E c’era anche, ad aspettarmi, il giovine giornalista concittadino che io conoscevo, Milziade Torelli, e che nominai redattore capo sul campo, anzi sull’uscio».

E cosa succede? «Ci mettiamo subito a lavorare, lui ed io; il comm. Belforte mi fornì, a credito, la carta e la tipografia. Gli operai mi dettero quella sera un po’ del loro mangiare: chi un uovo, chi un pezzo di pane, e chi una mela. Il pasto che ricordo con più commozione! Alle due del mattino il giornale, formato protocollo, o quasi, andava in macchina. AGB c’informa: «Quella mattina del 28 gennaio 1945 i miei generosi e ardenti concittadini finirono in un amen le 7000 copie che avevamo stampato e io offersi al signor Belforte di pagargli subito il giornale, ma volle aprirmi un credito augurale. Poi ci accingemmo a fare il secondo numero. Il male era che non si potevano ricevere notizie né per posta né per filo. Bisognava captare qualcosa con una scassatissima radio che un amico portava ogni giorno da casa e riportava via quando aveva finito.  Bravo, il nostro AGB, è vero? Molto leggibile, molto ironico. Molto professionale. «Il Tirreno» cresce, crescono le pagine, la zona di diffusione raggiunge Spezia e Grosseto, Lucca e Volterra. La tiratura tocca le 80mila copie. E si scatena la concorrenza.

Nello stabilimento dell’ex «Telegrafo» i democristiani fondano «Il Giornale del Popolo» e i socialcomunisti «La Gazzetta». Il primo muore presto. Il secondo invece, ben fatto, aggressivo, vive più a lungo. E non lesina attacchi al «vecchio» AGB che ogni domenica, sul «Tirreno», fondopagina in prima, tiene una rubrica seguitissima, «5 minuti di fermata 5» e all’inizio si firma «Il Capostazione», commentando i fatti del giorno e riversando a piene mani le sue arguzie e la sua sapienza di giornalista costretto dal fascismo, per vent’anni, alla clandestinità.  La polemica è il suo pane. Da giovane, quando si rendeva necessario, concludeva i suoi scontri con la spada o con la sciabola. «Da buon livornese, concittadino di Pini, di Tiberini e di Nadi», ha scritto Dino Provenzal, che lo sostituirà per qualche mese alla direzione, «era schermitore perfetto. A Livorno i duelli ci stavano di casa, e livornese era anche Jacopo Gelli, l’autore del codice cavalleresco. Una sola volta Banti fu ferito e si consolò pensando che il feritore era un concittadino, Vivarelli.

Botte in famiglia». Ferro teso  Guido Vivarelli ora è redattore capo della «Gazzetta», e quando noi cronisti in erba gli chiediamo del suo duello lui ride coprendosi la bocca con una mano. Ha terrore infatti dei dentisti, e ridendo lo dimostra. «Fu facilissimo», risponde. «Rimasi in guardia con il ferro teso. E Banti, che era uno scatenato, c’infilò il braccio». Lo scatenato AGB aveva vinto una trentina di duelli. Al «Nuovo Giornale» aveva fatto allestire una sala di scherma con tanto di maestro, e obbligava i suoi giornalisti a frequentarla per essere in grado di rispondere alle offese. Ogni giornalista che si batteva in duello riceveva un notevole rimborso spese.

E così, a fine mese, era fatale che i suoi redattori, per arrotondare lo scarso stipendio, attaccassero briga per scendere sul treno e riscuotere il rimborso. A me, che mi voleva bene, AGB narrò un giorno del duello avuto con un avversario, di mattina presto, nel giardino di una villa all’Ardenza. Era inverno. Il proprietario viveva a Roma e il custode aveva ospitato lo scontro ottenendo una cospicua mancia. Nel pomeriggio AGB aveva un secondo duello e tornò nel medesimo giardino. Seconda mancia. Salutandolo con un profondo inchino, il custode disse ad AGB: «Grazie, grazie, commendatore illustrissimo: torni presto».  Con i comunisti che lo attaccavano un giorno sì e un giorno no, AGB replica paziente con la penna.

Quando nel novembre ’47, i lettori del «Tirreno» trovano all’interno delle loro copie i volantini propagandistici del quotidiano comunista, AGB lo scrive e lo denuncia. Direttore della «Gazzetta» è il prof. Umberto Comi. E AGB qualche giorno dopo pubblica: «Dobbiamo dare atto al professor Comi della cortese premura con cui, non potendo negare quel che avevano fatto i suoi zelatori, dichiarò sciocco e cafonesco il loro operato. Il direttore del giornale comunista prese però allora la cosa in burletta, e raccomandò amabilmente al vecchio giornalista Banti di non inquietarcisi troppo.

Ma il vecchio giornalista Banti non s’era inquietato affatto: egli sperava che si inquietasse il prof. Comi, per la figura che i sistemi dei suoi dipendenti gli facevano fare.  Comi risponde, alla sua maniera e AGB ritonfa: «Anche questa volta il prof. Comi scherza graziosamente sui miei capelli bianchi che trova, bontà sua, piuttosto dinamici. È uno scherzo spiritosissimo, che ho molto gustato, ma non risolve la questione. La questione è di sapere se egli intende contenere nei limiti della liceità l’interessata esuberanza dei suoi dipendenti.

Egli deplora certi sistemi pirateschi: ma deplorare non basta. Il direttore responsabile della Gazzetta è lui: e poiché egli è certamente incapace di quella bruttissima cosa che è il doppio giuoco, aspetto che intervenga perché la concorrenza giornalistica in questa nostra terra sia condotta sui binari della correttezza e della civiltà. La Gazzetta contrasta con ogni mezzo lecito e no la vita del giornale di AGB, arrivando ad accusarlo di ricevere i finanziamenti dalla destra, lei che dipende economicamente e politicamente da via delle Botteghe Oscure, tanto è vero che quando il sostegno le verrà a mancare chiuderà i battenti.

Il Banti considera infamante questa accusa, spesso ripetuta e mai provata. E il 28 gennaio 1949, quattro anni dopo il suo arrivo a Livorno, scrive: «Le ragioni della diffusione del Tirreno sono elementari. Avevamo promesso al pubblico che il nostro sarebbe stato un giornale di informazione, indipendente da tutto: uomini politici, gruppi, interessi, partiti: e indipendenti siamo rimasti, nonostante i tempi difficili». AGB è rimasto il moschettiere decorato con la medaglia d’argento sul fronte della Grande Guerra. E il moschettiere di tante battaglie e di tanti duelli convince Emilio Gragnani, critico musicale del Tirreno, a sfidare Umberto Comi. Offeso e ingiuriato da una lettera del direttore della Gazzetta, in seguito alla velenosa polemica accesa dopo la morte di Mascagni nel ’45, rinfocolata sei anni dopo in occasione del trasporto della sua salma a Livorno decisa del Comune (di sinistra), Gragnani manda i padrini a Comi. Il duello viene combattuto il 7 luglio 1951 nella Villa Orlando sul lago di Massaciuccoli. Alla sciabola. Il sottoscritto è tra i pochi che vi assiste, nascosto tra le piante del parco, insieme ai maestri dei due avversari, Bino Bini e Athos Perone, ad Athos Tanzini olimpionico di Berlino 1936, e a Giorgio Pellini olimpionico di Londra 1948.

Molti anni dopo descriverò il duello con un pezzo dal titolo “Duello per Mascagni” sul lago di Puccini. Gragnani e Comi in pochi giorni hanno appreso qualche rudimento della scherma. Gragnani non sa fare nemmeno il passo indietro. Fortuna che lo scontro è diretto da Aldo Montano, due volte campione mondiale di sciaboIa. La sua abilità impedisce il peggio, Comi riceve tre stoccate al braccio, Gragnani una. Il duello viene sospeso, Gragnani non vuole riconciliarsi. Banti, che si è fermato in un caffè a Torre del Lago, convince gli avversari, dopo qualche ora, a darsi la mano: «Io mi sono sempre riconciliato dopo tutti i duelli che ho sostenuto. Il duello fa pulizia di tutti i torti, arrecati e subiti. La lealtà lo vuole».  

Ecco: la lealtà era la dote più forte di AGB. Ma il destino non fu leale, con lui. Ricorda Dino Provenzal: «Sposò giovanissimo una fanciulla teneramente amata, ed ella morì dando alla luce una bambina. Athos serbò la più affettuosa memoria della sposa e dedicò tutto se stesso all’educazione della figliola Luciana, che andò sposa a Pietro Alli Maccarani e aveva già un bambino quando tragicamente morì. Da quel momento, Athos visse con il genero e il nipotino. Una malattia inesorabile colpì il nipote e lo uccise. E un’altra inaspettata sventura gl’incombeva: la morte del genero, compagno della sua vita e della sua disperazione. A quest’ultimo colpo non poté sopravvivere, e la morte giunse, attesa, invocata, liberatrice, il 21 giugno 1959.