20 AGOSTO 2002
 
 
 
 
Un giorno verso la fine del '59, avevo vent'anni e una vecchia millequattro, mio zio mi chiese di accompagnarlo in un grande ospedale allora quasi fuori Roma: dovevamo fare visita a una poetessa morente.
 
"Non solo la conosco da tutta la vita", mi spiegò lo zio durante il tragitto, "le devo i primi vaghi fremiti di erotismo. Quando ero bambino mi portava al cinema, qualche volta, innocentemente. Ma sapevo della sua fama di mangiatrice di uomini, e perciò la vedevo in una luce tutta speciale. In qualche modo, mi turbava".
Quando entrammo nella stanza dove giaceva tutta sola, Sibilla Aleramo fu all'altezza della sua reputazione.
 
Lo zio mi presentò e lei, facendo uno sforzo per tirarsi su a sedere, disse a lui:
 
"Che bel ragazzo" e a me: "Tu mi vedi ridotta così, ma ancora qualche anno fa...".
 
Adesso era smunta, consunta, giallastra di colorito - la cirrosi epatica le concedeva poche settimane - e aveva ottantatré anni. Ma io la ricordavo anche prima, quando capitava dai miei nonni la domenica pomeriggio, ed era in carne: piccola di statura, molto eretta, con lisci capelli bianchi e una faccia piatta, poco memorabile.
 
La circondava una leggenda di antica bellezza, di cui però con l'assolutismo degli adolescenti non avevo riscontrato le vestigia, così come dopo non ne avrei saputo trovare conferme nelle innumerevoli fotografie dei tempi migliori, e nemmeno nei pur notevoli ritratti che le aveva fatto mia nonna.

Questo ricordo è tornato a galla poco tempo fa, quando ho assistito a un'anteprima di Un viaggio chiamato amore, il film di Michele Placido, che sarà presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, dedicato a uno degli amori più tempestosi di Sibilla, quello per il folle poeta Dino Campana, episodio nel quale i miei surricordati nonni furono coinvolti pesantemente (strano effetto quello di vederli sullo schermo, interpretati da due attori; in particolare mi sarà difficile d'ora in poi guardare con distacco, a teatro, Galatea Ranzi, anche se fisicamente e vocalmente la mia nonna pittrice era un tipo molto diverso).

È una storia che avevo sentito raccontare anche in casa, e si svolse intorno all'anno di guerra 1916. Quando Sibilla cercò il semisconosciuto Campana di cui aveva ammirato i versi, lei, quasi celebre, aveva quarant'anni, e lui trentuno.
 
Era nata Rina Faccio, in Piemonte, e si era forgiata il suo pseudonimo quasi dannunziano - nell'alto Medioevo gli Aleramo erano stati rivali dei Savoia - quando era diventata autrice, anche per non avere grane dal marito dal quale era fuggita. Rina-Sibilla era figlia di un ingegnere intraprendente e progressista, il quale a un certo punto assunse la direzione di una vetreria nelle Marche.
 
Tolta presto dalle scuole, che non esistevano in quel piccolo centro, Rina lavorò col padre, e quindicenne fu prima insidiata, poi violentata, infine sedotta e sposata da un dipendente dell'azienda; frattanto la madre, a disagio nel nuovo ambiente e sempre più trascurata dal consorte, si era buttata dalla finestra, per poi sopravvivere in isolamento e finire in un istituto.
 
Rina mise al mondo un figlio, commise adulterio con un tale suscitando un finimondo nella comunità provinciale, trascorse un periodo a Milano occupandosi di un periodico intitolato "L´Italia femminile", tornò a Porto Civitanova quando al marito fu offerto nella fabbrica il posto già di suo padre, tradì il consorte un'altra volta, e da ultimo abbandonò, come allora si diceva, il tetto coniugale, perdendo ogni diritto sul rampollo.
 
Andò a vivere a Roma col suo primo e ultimo Pigmalione, il letterato Giovanni Cena, un ometto basso e brutto ma appassionato di tutto, che le aprì orizzonti non solo letterari: accanto a lui per esempio si impegnò in una lunga lotta per portare l'istruzione agli abbrutiti contadini dell'Agro Romano.

Nel 1906 pubblicò come Sibilla Aleramo Una donna, il libro al quale il suo nome sarebbe rimasto sempre legato e che fu presto tradotto in molte lingue: velata autobiografia di una presa di coscienza femminile e femminista, prima vera risposta italiana all'epocale Casa di bambola di Ibsen, ancorché viziato agli occhi dei posteri da uno stile enfatico e da una totale mancanza di umorismo, caratteristica che sarebbe rimasta una costante, per certi versi addirittura simpatica, del personaggio.

Dopo sette anni di convivenza, Sibilla abbandonò Cena e diede inizio a una straordinaria collezione di intellettuali. Ebbe infatti in rapida successione relazioni con gli allora giovani Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Vincenzo Gerace, Umberto Boccioni, Michele Cascella, Giovanni Boine, Clemente Rebora, Fernando Agnoletti, Raffaello Franchi; dopo la fiammata con Campana, e in tempi più vicini a noi, ci sarebbero stati, tra molti altri e con crescente divario di età, anche Lauro De Bosis, Enrico Emanuelli, Salvatore Quasimodo e lo studente Franco Matacotta, preceduti, pare, da Tito Zaniboni, l'attentatore di Mussolini.
 
Non si trattò mai di avventurette spensierate, ma sempre di amori grandi e assoluti nei quali Sibilla si gettava con tutte le forze, quasi invariabilmente spaventando, dopo un po', il partner, e dei quali ella conservò gelosamente ogni ricordo, vedi l'immensa massa di epistole confluite all'Istituto Gramsci e oggi in buona parte pubblicate.

Da questi ricchi scambi emerge sempre la buona fede, seppure guarnita di narcisismo, di lei, e spesso, dopo l'entusiasmo iniziale, lo sgomento degli uomini. Quell'entusiasmo è probabilmente da attribuire alla prontezza, certo inusitata a quei tempi e in quegli ambienti che per quanto atteggiantisi a bohème erano di fatto piccoloborghesi, con cui Sibilla, da donna autenticamente liberata, era pronta ad andare a letto.
 
Era questo alone, di cui persino il mio zio in calzoni corti, quando Sibilla era più che cinquantenne, aveva avvertito l'inebriante sentore, a renderla affascinante, e bene ha fatto il regista Michele Placido a scegliere per impersonarla un'attrice come Laura Morante, molto più bella di quanto Sibilla sia stata mai: aveva bisogno di rendere evidente e plausibile l'effetto che certo l'originale produceva ai suoi tempi.
 
Oggi al nostro cinismo le lettere degli spasimanti di Sibilla, che tentano di adeguarsi al verboso fervore di lei, sembrano un po' comiche.
 
Cardarelli, il solo a quanto pare che non riuscì a consumare il rapporto, si barcamena chiedendo pazienza per la sua castità non proprio intenzionale, dalla quale vorrebbe essere aiutato a liberarsi.
 
Papini dopo un momento di estasi rinsavisce spaventato dalla moglie, tanto che a un certo punto scrive contemporaneamente due lettere, una ufficiale per chiedere indietro le proprie missive allo scopo di dimostrarne l'innocenza, e un'altra torrida per dire a Sibilla di rispondergli con un biglietto freddo, da mostrare alla coniuge, con la dichiarazione che quelle lettere non ci sono più.
 
Boccioni a lungo inseguito si sottrae dichiarando si tenacemente indisponibile a un vincolo impegnativo. Cascella, finché dura, è "trasognato come un Aligi"...

Sibilla prendeva sempre tutto molto sul serio, ma queste storie hanno un lato di pochade. Lucidamente, Benedetto Croce fece il punto della situazione quando (1913) Sibilla sedusse il suo discepolo Gerace, il quale però al momento buono si fidanzò con un'altra.
 
"Conosco il Gerace nelle sue ottime qualità di mente e di cuore leale, onesto, incapace di malignità; ma egli è turbato profondamente dalla malsania etico-letteraria degli ultimi decenni", le diagnosticò il filosofo. "E da questa malattia siete colpita anche voi, e ciò vidi chiarissimo quando lessi il vostro libro, che giudicai dominato e tiranneggiato da un'idea affatto falsa della realtà e della vita.
 
Ora la stessa malattia prende nel Gerace e in voi forme diverse, secondo i diversi temperamenti: egli è uomo ricco di "velleità" e privo di "volontà"; voi siete priva di volontà, e ricca di "passione" e d'"istinto". (...) Io ho severamente giudicato il Gerace (e gliel'ho detto) per il suo andar provocando le passioni in altrui e in se stesso (e con voi e con altre): tutto ciò è effetto di "oziosità".
 
L'uomo non ozioso doma e incanala le passioni a servizio della sua attività, e, diciamo pure la parola, del suo "dovere", del dovere che trascende la sua individualità. E non si vive davvero umanamente se non in questo lavoro per qualcosa di oggettivo: tutto il resto sono chiacchiere da letterato, comode formolette da gente viziosa, o sogni di spiriti torbidi.
 
Anch'io sono uomo, anch'io ho amato; ma ho preso subito il mio partito, e mi son fatto della mia passione un istrumento per la vita che dovevo svolgere. (...)
 
Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino al fallo commesso nell'impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio.
 
Non ho mai creduto alle giustificazioni ideali che avete dato di ciò nel vostro libro; perché il male si fa per attrazione di piacere e non per ossequio a teorie, troppo impotenti da fare il male..." Sibilla non si ravvide, né del resto aveva mai nuociuto a nessuno, mettendo in gioco soprattutto se stessa.

Con Campana però la cosa fu diversa. L'autore dei Canti orfici era contemporaneamente un outsider, uno psicolabile e un violento, e l'infatuazione per lui di una "signora", nonché di una intellettuale autorevole e senza dubbio intelligente, condita col linguaggio estremo al quale Sibilla adorava abbandonarsi, lo esasperò.
 
Si esaltò e si depresse, diede fuori da pazzo, fu arso da gelosie incontrollabili; la picchiò, anche, in più occasioni, rischiando di ammazzarla. Nutriva disprezzo verso quasi tutti gli scrittori del suo giro, ma per qualche motivo eccettuava mio nonno (il quale fortunatamente, sposatissimo com'era, era rimasto immune dal fascino di quella Circe, anche se in seguito si sarebbe sporadicamente concesso qualche affettuosità epistolare, beninteso continuando a darle del voi), così come mia nonna era amica e corrispondente di Sibilla.
 
I coniugi Cecchi si trovarono così a fare da confidenti e ammortizzatori, senza divertirsi affatto, tra due che poco si capivano e le cui risse a un certo punto diventarono preoccupanti, Sibilla continuando, con coraggio o incoscienza, a ignorare l'irrecuperabilità dell'altro - fino al tragico finale, col povero Campana internato nel Manicomio di Castel Pulci, dove sarebbe morto dimenticato nel 1932, e l'indistruttibile baccante a riprendere il percorso della propria caparbia, romantica e perfino in qualche modo eroica emancipazione.