Camillo Sbarbaro 

 

 

 

Sproloquio d'estate

 

di Camillo Sbarbaro

 

pubblicato sull'«Azione» di Genova

il 12-13 giugno 1921

 

 

Lo cercai dov'era certamente. Per «l’antica piazza dei tornei», scorsi la sua figura rossa e tozza. Sedemmo a un tavolo d'osteria come tant'anni prima. Egli era ancora il grassatore di strada che nell'inverno del 14 avevo visto al Paszkowski stampare orme terrose. Sghignazzava; moveva le membra disordinatamente. Un disagio nasceva intorno a lui come potesse di punto in bianco, storditamente, cavar di tasca qualche cosa d'insanguinato. Quella notte, s'era tolto di seno, per me la copia del suo libro, che si portava addosso come un certificato di nascita.

Due mesi dopo, m'era venuto incontro a Genova; senza darmi la mano; con una reticenza nel volto soffuso di rossore, che credetti stesse per farmi una proposta oscena. I miei lo sopportavano appena, per via dei pidocchi. La sera, un virgineo pudore lo pigliava dei suoi indumenti... — La poca ospitalita gli peso subito. Al terzo giorno non volle saperne. Testardo, lo guardai allontanarsi col suo passo di camminatore verso i carrugi di Sottoripa.

Per tutto viatico aveva in tasca «le Foglie d'erba». — Se lo riprese il malo vento che lo cacciava pel mondo.

Sedemmo a un tavolo d'osteria, come tant'anni prima. Io non gli chiedevo parole; mi bastava, a conforto, stare con lui. Ma Dino era sempre stato eccessivo. «Tu eri Sbarbaro » m'osservò a bruciapelo. Alla supplica che gli mossero i miei occhi, sghignazza. «E ora chi sei? Gestisci un negozio di cancelleria?» — So... Taci... — volevo dirgli. «Allora balli ancora sulla corda! — Rossetto, lapis di nero...» — Non ho altro... — volevo dire.

E dissi disperatamente: «C'e ancora chi applaude». Dino cacciò il pollice in bocca e si mise a fischiare; spietatamente; guardandomi. «oste!» concluse. Oste: e il mio vino era poco e non ubbriacava! Ma io non gli avevo chiesto parole; mi sarebbe bastato, a conforto, stare con lui. Per non scorgere il suo riso crudele, mandai gli occhi per piazza Sarzano. Anche lui, dopo un po', si mise a guardare piazza Sarzano. Allora, alla bocca, naturalmente, a me? a lui? vennero le sue parole: «A l'antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell'aria pura si prevede sotto il cielo il mare...» Dino fece un gesto di dispetto.

«Girandole! — Delle girandole, fummo». «Sono solo, ora» dissi io, a caso. «Gli altri si fabbricano la casa» osservò lui. 0... L'aria pura è appena segnata di nubi leggere. L'aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di pill rosea estate...».

Io non volevo sopravvivermi. Guardai Dino. Nella musica i suoi occhi s'ammalavano. E, com'acqua che trabocca: «... Io vidi dal ponte della nave — i colli di Spagna — svanire, nel verde — dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando — come una melodia...» Io piangevo. «Partiamo» dissi insensatamente.

Le sue spalle ballarono nell'urto del riso. «Tu non sei Regolo» sghignazzo, «e io sono giunto».

«Difatti! Manicomio di Castelpucci [sic], reparto Incurabili». Gli occhi celesti di Soffici, nel viso largo e raso d'ecclesiastico, andavano quel giorno dalla tela a una bottiglia di terracotta. Fuori, Poggio, una pozzanghera; nella stanza la giornata di Novembre fatta per le liquidazioni frettolose, gli addii spicci, sotto un ombrello, coi piedi nell'acqua... «Divido il tempo cosi: tra un oggetto che copio e il manoscritto che preparo... Leggo, anche...».

Sbirciai: i Commentari di Cesare. Dall'ultima Francia non c'era nulla da sperare. In Italia scorgeva un bel risveglio. — Dai libri trasse Apollinaire. Sorvolando sui crittogrammi («Tutti siamo passati da lì» disse), andò a una poesia d'andamento religioso che lesse con voce solenne. — Al periodo di Lacerba accenno come a dei trascorsi... A me, a disagio, pareva di udire un uomo sparlare della sua gioventu. Io pensavo al parco granducale, coi fiori terrosi; all'odore angosciante delle magnolie, un plenilunio, presso il mare, con l'amica, al cappello sulle ventitre, a spasso, il quartodora di vanità; alla donna di Vaugirard... — Se eri un sano e saldo olivo della tua terra, perche...? — Ma non mi toccava e la voce mi mancò.

Soffici m'indicò il manoscritto. Sotto il titolo, condotto accuratamente a lettere di scatola, salivano i fogli dove la scrittura larga e chiara correva senza perplessita. «Curero molto la lingua» avverti. Tutto intorno mi parlava della «preparazione della gloria». Udii la voce di Dino: «Essi si fabbricano la casa». Senza premura; avendo agio di fumarci su; che l'eta e verde ancora e l'edificio sicuro. Solo allora m'accorsi che Soffici non fumava più la «sigaretta bionda», ma il toscano; e che lo avviluppava una mantellina di trincea. «Giovinezza, tu passerai come tutto finisce a teatro. Mi farò allora un vestito favoloso di vecchie affiches».

Andandomene, mi diede la sua mano cordiale, che presi con una punta di rimorso. E uscii all'acquerugiola...

Fuori una sorpresa m'aspettava: a pochi passi dalla casa di Soffici, su una porta, un guazzabuglio di colori primaverili e l'insegna: Caffè Lacerba. In tanto grigio, vi abbeverai gli occhi. Dell'antica primavera fiorentina non scorsi altro vestigio, a Poggio. Scordavo. Tra le mie carte di malinconico collezionista di cose insignificanti, esiste ancora il conto del pasto a Caiano.

Soffici vi aveva trattenuto su l'occhio, approvando: Un cuoco inferocito giunge di corsa, abbracciando un fiasco e recando in trionfo un piatto che squassa una criniera di fumo. Dei vasti calzoni rigati gli cadono sulle scarpe rutilanti.Trattoria La Pace, Poggio a Cajano. Proprietario: E. Allori. li 14. XI. 1919»