Dal Blog  della Bibliotaca di Marradi, articolo a cura di Claudio Mercatali

 

Tempo era un periodico della Mondadori, «Settimanale di politica, informazione, letteratura e arte».
Iniziò le pubblicazioni il 1 giugno 1939 e cessò nel  1976. Come Epoca si ispirava al settimanale statunitense Life ed era un concorrente di Oggi. Trattava in modo semplice vari temi descrivendo bene i protagonisti e i personaggi che potevano interessare al grande pubblico.


 

 

 

IN MANICOMIO SI CREDEVA EDISON

 

 

di Giancarlo Vigorelli

da: Tempo,  N° 17 del 22 aprile 1957

 

 

Venticinque anni fa moriva Dino Campana, sconosciuto e abbandonato, dopo quattordici anni di follia;

oggi li poeta dei "Canti Orfici" è salutato da tutti come uno dei più ispirati e magici poeti dei secolo

 

Dino Campana capitò a Firenze un mattino d'inverno del 1913 e si appostò nello sgabuzzino d'ingresso della tipografia Vallecchi, che allora non era in viale de' Mille ma in via Nazionale, disposto ad aspettare anche tutto il giorno « qualcuno di Lacerba », disse a un operaio che lo guardò con sospetto tanto era male in arnese. Ebbe la fortuna, una mezz'ora dopo, d'incontrarsi proprio nei due "cannibali" maggiori — Papini e Soffici — di quella che era allora la rivista più d'avanguardia d'Italia, Lacerba, che venuta dopo Il Leonardo e a metà corso della rivista di Prezzolini, La Voce, fu la più alta (ma un po' facile ed effimera) cattedra d'anarchia artistica e morale di quegli anni: il futurismo, infatti, vi celebrò le sue baldorie più clamorose ma anche più concrete, e vi spararono le cartucce più matte Palazzeschi, Apollinaire, Carrà, Vannicola, Ungaretti, Max Jacob, Russolo, Daubler, Marinetti, Boccioni, oltre Soffici e Papini, e soprattutto il Tavolato del manifesto Per la morale sessuale, che in quei giorni veniva processato per oltraggio al pudore.

Soffici, nei Ricordi di vita artistica e letteraria, ci ha lasciato un bel racconto di quell'incontro ed un ritrattino patetico del poeta: « Era un uomo giovane, di una venticinquina d’anni, tarchiato, con capelli e barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color roseo, illuminatata da un paio d'occhi celesti, che esprimevano a un tempo timidezza e sincerità, come quelli di certi bambini o di gente campagnuola, cui quella di città mette in soggezione. Nell'insieme la sua figura so-migliava curiosamente a taluni ritratti di Rubens, specie a uno che esiste nel museo di Napoli e del quale mi ricordai in quell'istante; ma ciò che maggiormente colpì non solo me ma anche l'amico mio, fu il resto di quello sconosciuto. e cioè com'egli era vestito.

Privo di un qualsiasi soprabito che lo riparasse dal gran freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simili a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pecorai di mezzo secolo fa, i piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe ercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d'un tessuto incredibilmente leggero, giallastro, a fiorellini azzurri e rosei, uguale in tutto alle mussoline onde si servono i barbieri di paese per i loro accappatoi, e le massaie povere per le tendine delle finestre che danno sulla strada ».

 

La casa di famiglia, a Marradi

 

Papini e Soffici credettero che fosse uno dei tanti infestatori di redazioni col solito fascicolo di Versi sotto il braccio; dissero che avevano da fare in tipografia, piombo e bozze, e se mai aspettasse; e Campana, ributtatosi sul canapè, aspettò che uscissero e all'uscita tirò fuori un quadernetto sgualcito, « di quelli » rammenta Soffici « dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite ». Papini, sempre smanioso di manoscritti altrui come di roba propria, se lo cacciò in tasca dicendo a Campana che se mai si facesse rivedere tra qualche giorno, e, se voleva, poteva intanto accompagnarli alle Giubbe Rosse o al Paszkowski, i due quartieri generali dello stato maggiore artistico fiorentino. Tirava un vento di ghiaccio, Campana non rispose nè sì nè no. Prese a seguirli, rasente ai muri: mugolava qualche risposta alle domande a tiro di Papini. Disse che era di Marradi, in una gola della Val di Lamone. Era nato il 20 agosto 1885. Il padre era stato maestro elementare, finito a riposo nell'abitato della Lastra a Signa, a sette miglia da Firenze, sulla riva sinistra dell'Arno.

La madre — si sa così poco di lei — era una discreta benestante, alta, di chiusa bellezza. All'altezza del Canto dei Nelli, interrotti i primi sfoghi, Campana salutò e sparì. Soffici annota: « Tremava come una foglia e si soffiava nelle mani, ridendo nervosamente tra una soffiata e l'altra ». Papini lesse il quadernetto, e avvertì i lampi della poesia; lo passò a Soffici, che ne fu ancora più folgorato; e lui che due anni prima, nel 1911, aveva pubblicato quel libro allora sintomatico su Arthur Rimbaud, dedicandolo all'ignota amica milanese che ospitò Rimbaud in uno dei suoi passaggi dal Gottardo, non stentò a riconoscere in quest'altro vagabondo un lontano fratello del poeta della Saison en enfer. Entrambi cercarono il poeta, scomparso senza lasciar tracce, pronti a pubblicarne le più belle poesie su Lacerba, ma nessuno arrivò a scovarlo.

Ricapitò a Firenze dopo parecchi mesi, e Soffici si imbattè di nuovo in lui, che girava per le sale dell'Esposizione Futurista, lo scandalo del giorno. Si lasciò trascinare alle Giubbe, conobbe un po' tutti, e per un lungo giro di settimane sedette, spesso appartato, a quei tavolinetti famigerati, con « quella barba fiammeggiante, quei suoi movimenti da fracassatore di cristallami e la sua aria dionisiaca da vagabondo straniero, al buio di ogni legge ».

Tra una lite e l'altra, sbalordiva tutti per le sue curiosità culturali, disorientando persino Papini, che allora era il gran pirata delle letture di tutto il mondo. Conosceva libri, conosceva uomini. Soprattutto tradiva di aver visitato, come Rimbaud, popoli e Paesi lontani. Aveva fatto tutti i mestieri. Beveva, beveva forte, e traballando fra i tavoli, declamava come un energumeno, o più spesso con una voce rotta da bambino intenerito sino alle lacrime, Nietzsche, Baudelaire, Withmann, il suo Rimbaud, e poi scompariva nella notte, a marcia forzata, come se fosse inseguito da qualche demone o raggiunto dalla propria ombra come il sosia di Dostojewskij.

 

 

 

Giancarlo Vigorelli

 

« Cosa strana » ma sembra piuttosto una scusa o una pia bugia « cosa strana, durante tutto it tempo di cui parlo, (le settimane cioè delle Giubbe Rosse), non fece mai parola nè con Papini nè con me del taccuino affidatoci, nè del suo desiderio di vedersi stampato nella nostra rivista »: veramente it povero Campana avra atteso che fossero Papini e Soffici a parlargliene! Ma Soffici non toccava quel tasto, o si sarebbe stretto nelle spalle, perche nel frattempo, colpa o no di un trasloco, aveva perduto quel preziosissimo taccuino da sensale. La prova che Campana non aveva fatto parola dei suoi versi unicamente per discrezione e per pudore, viene confermata dalla circostanza che, bruscamente lasciata Firenze e rientrato a Marradi, scrisse al Soffici una lettera dove richiedeva il manoscritto, confessando, come era vero, di non averne un'altra copia. Soffici rispose, cercando di giustificarsi come poteva.

Così, siamo stati sul punto di non avere tra le mani il libro forse piu alto, certo piu magico, della poesia italiana contemporanea! Campana non si fece piu vivo con Soffici. Armato d'una memoria da gigante, e in uno di quei lucreziani intervalla insaniae, rivisse e ritrascrisse da quella sua mente gia in subbuglio, il suo miracoloso taccuino, e senza far più ricorso all'aiuto altrui mise insieme un libretto - che intitolò Canti Orfici e lo stampò a Marradi in una edizioncina raffazzonata, a sedicesimi irregolari, con una copertina giallastra, e nell'interno Campana fece campeggiare quella sbalorditiva dedica (eravamo nel 1914, a guerra scoppiata...) all'imperatore Guglielmone: « A Guglielmo II, imperatore dei Germani, l'Autore dedica a, ed in controcopertina stampigliò questa scritta in tedesco: «Die tragödie des letzten Germanen in Italien: la tragedia di un superstite tedesco in Italia».