Per la tomba di Campana

 

di Piero Bargellini

 

da:

Poesia, fascicolo 3/4

1946

 

Marginalia

 

(trascrizione di Andreina Mancini)

 

 

Ho sul tavolino il volume d’Inediti di Dino Campana, aperto sulle tavole finali, a riguardo l’incisione intitolata: ”Tomba di Dino Campana a Badia a Settimo”. A fianco d’un forte campanile che s’alza da terra tondo romanico e termina esagono gotico, si vede una piccola chiesina con rosoncino a mattoni dentro la quale furon riposte le ossa di Dino Campana. Ricordo il pomeriggio domenicale, mi pare del 1939, quando io e mia moglie vagammo lungamente per la pianura di San Colombano, in cerca del cimiterino dove, tra i tumuli dei morti pazzi, era confuso quello del poeta dei Canti Orfici. Sull’imbrunire giungemmo ai piedi del grande campanile abbaziale e scoprimmo la chiesina mezza diruta adibita a stanza mortuaria della parrocchia. Entrammo tra bare e catafalchi, ma il priore, credendoci una coppia clandestina, ci scacciò dalla cappella. Pochi giorni dopo, potei comunicare agli amici il progetto di togliere i resti di Dino Campana dal cimiterino di San Colombano e tumularli nell’antica chiesina ai piedi della potente torre campanaria.

La Direzione delle Arti ordinò alla Soprintendenza dei monumenti di provvedere ai restauri. Una mattina presto cavammo di sotterra le ossa del poeta. Quando, adagiato tra la terra e i resti imporriti della cassa, apparve lo scheletro, Luigi Fallacara esclamò: “E’ lui!” Aveva il teschio inclinato sulla spalla destra secondo il suo atteggiamento naturale, e rideva con tutti i suoi bellissimi denti intatti. Tirammo fuori i nostri fazzoletti, e, ginocchioni attorno alla fossa, ripulimmo uno per uno gli ossi terrosi prima di riporli nella cassetta di zinco. Quando fu la volta dei grossi femori, Carlo Bo disse: “Ha camminato tanto”. Poiché gli ossi erano fradici, esponemmo la cassetta al sole, e si attese che l'umidità si esalasse, stando seduti sul prato del camposanto.

Un’altra sera facemmo il trasporto dal cimiterino di San Colombano alla Badia di Settimo. Poeti e artisti erano intorno alla bara. I contadini, al di là delle siepi, salutavano; le donne dicevano ai ragazzi: “E’ il poeta” senza sapere chi. Intanto i lavori di restauro della chiesina si facevano sempre più laboriosi. Fu scoperta una cripta e si pensò di deporre lì sotto i resti di Campana. Ma le acque dell’Arno invadevano periodicamente il sottosuolo della Badia. Si preferì chiudere le ossa in una cassetta schiacciata e murarle nel cervello della volta, ai piedi del piccolo altare. In una lapide per terra fu incisa questa semplicissima iscrizione:

 

”DINO CAMPANA / POETA / 1885-1832

Non dirò nulla della tumulazione. Vi fu presente un gran numero di poeti, di letterati, d’artisti da ogni parte d’Italia. Tutti eravamo contenti che Dino Campana avesse finalmente una tomba, e forse la più degna che il poeta avesse mai avuto. Il superbo campanile romanico la indicava da lontano, sui pioppi che seguivano il fiume. Passando col treno o sulla strada che conduce a Pisa, veniva spontaneo di cercare quel segnale e di pensare: ”Dino Campana è là”.

Immaginare con che ansia l’abbia ancora cercato, dopo che la guerra un anno fa guadò l’Arno in secca. Non vedendolo più mi recai alla Badia per vedere, per sapere quello che ormai mi immaginavo. Ma in simili casi la realtà vince anche l'immaginazione più crudele. Vidi per esempio quanto sia vera l’abusata espressione di “raso al suolo”. Del potente campanile restava al suolo un anellino di mura, così piccolo che sembrava tracciato per gioco da bambini. La chiesina, completamente scomparsa. L’altare sembrava un sasso affiorato fra i detriti. Pulendo con le mani scopersi per terra la lapide. In un primo momento mi sembrò intera; poi scorsi le vene della rottura in quattro. Il parroco che abita fra le rovine, mi raccontò come avvenne la distruzione. Una mattina, sul mezzogiorno, comparve un sergente tedesco con sette guastatori. Vollero mangiare e bere nella vicina fattoria. Alzandosi a fatica da tavola dissero quale era la loro missione.

Avvertito della cosa, il parroco accorse ai piedi del campanile, implorando di non compiere quella inutile opera di rovina. S’inginocchiò dinanzi ai sette guastatori, alzando gli occhi alla bella torre incoronata dagli archi a mensola. Pareva che non udissero e non vedessero. Con stupida indifferenza assicurarono alla base del campanile quattro enormi bombe d’aeroplano. Così scomparve uno dei più bei campanili della pianura fiorentina, portandosi dietro tutta una navata della grande chiesa abbaziale. La piccola chiesina del Mille fu polverizzata e le ossa del poeta girovago si ritrovarono nuovamente sotto il cielo scoperto.


PIERO BARGELLINI


Anche se oggi disgraziatamente sono molti i luoghi d'Italia ridotti a un cumulo di macerie, la notizia è di quelle che sorprendono e addolorano. Chi conservi animo sensibile per le cose dell’arte e della poesia, non potrà, apprendendola, non sentire un moto di pietà per la triste sorte riserbata alla salma di Dino Campana. Così non v’ha dubbio che otterrebbe immediato affettuoso consenso qualunque iniziativa di cui ci facessimo promotori tra gli artisti e i poeti per cercare di restituir copertura e pace a quelle povere ossa. Ma noi vogliamo augurarci che a provvedere, con la dovuta sollecitudine, sarà di nuovo la Direzione delle Arti. Nella certezza di onorare in Campana un poeta ben degno.

 

(Nota della redazione)