Sibilla

 


 

[Livorno, 4 gennaio 1917]

Rina mia

come descriverti lo sguardo idiota di questa gente dopo essere stati baciati dal tuo!1 Rina io potrei rinunciare a te, ma per sempre. Così bella comme un rêve potrei dimenticarti solo per andare molto lontano e non tornare più. Davanti alle cose troppo grandi sento l’inutilità della vita.2 Il mare ieri era discretamente bello. Sono andato di notte al mare. Avevo visto i monti pisani velati da cui sorge la luna di Dannunzio,3 senza foco di cui leggemmo e due areoplani che volavano sul treno. Mia vergine perché leggemmo ďAnnunzio4 prima di partire? 5 Nessuno come lui sa invecchiare una donna o un paesaggio. Mio amore come vuoi che ti ami? Pallida, con una vita senza foco come col suo diritto il macchinista stinge il paesaggio e viola il cielo che non conquista? Sciocchezze? Ma sai quanto ne ho sofferto!

   Ecco quello che ci divide. Non ho visto e non vedrò nessuno. Non troppe cose dimmi. Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua grazia. Quando sempre mai forse parole giravano nel soffitto del mio cervello. La città è una serie di cassoni balordi. Appiccicato alla spallina del passeggio guardo il mare senza parole come io sono senza pensiero.

   Mio amore mio amore La Gorgona è un dosso lontano sul mare abbandonata laggiù nei tramonti. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni col pensiero. Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una vecchia lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via metteva sulla costa pietrosa che scendeva dall’altipiano al mare. Questo ricordo che non ricorda nulla è cosi forte in me! La costa bianca di macigni aveva bevuto il tramonto cupo e rosso che chiudeva 1’isola e ora colla lanterna rugginosa solo le stelle sull’altipiano brillavano a me a Garcia6. Io baciai la parete di granito senza pensare e non so ancora perché. Ricordo che in quella casa stava la sarda moglie dell’alcolizzato amico dell’amico del nostro amico. Bevemmo il moscato bianco salmastro di Sardegna ed è idiota come mi ricordo di tutto questo. La mia padrona è dell’Isola del Giglio dove io farei certamente bene ad andare ad abitare per un anno almeno. Tu non ne vedi la possibilità?

   Dovremmo ancora vedere le Alpi. Nietsche scendeva di la al mare colla sua sfida. Aimè Rina perché non mi lasci morire? Là l’edelweis non è ďAnnunziano e la Dora7 scende in tumulto e il più leggero dei baci crea ancora forse come quando dicevo

 

Come delle torri ďacciaio8

Nel cuore bruno della sera

Il mio spirito ricrea

Per un bacio taciturno

 

   Ah miseria di questi ritorni. Puoi amarmi? ancora? ancora? ancora?9 Non ti scriverò. Le mie lettere sono fatte per essere bruciate.

 

[Dino]

 


Lettera senza data né luogo di provenienza. Fondo Matacotta. La lettera sarebbe stata inviata da Livorno, il 4 gennaio 1917. Matacotta e Falqui precisano che appartiene a uno dei momenti più drammatici della passione di Campana per Sibilla Aleramo. A conferma della data e della provenienza, Bruna Conti ha ritrovato presso il Fondo Aleramo una busta vuota, con timbro postale “Livorno 4-1-17”, diretta a Firenze. La studiosa rileva che il testo conferma la provenienza da Livorno e che la data coincide con la presenza di Campana in questa città, dalla quale scrive una cartolina sempre a Sibilla con data di partenza: “Livorno. 03.01.1917”, vd. Un viaggio, p. 100. Edita parzialmente (senza indicare che è un brano estrapolato da una lettera) da Franco Matacotta col titolo Davanti alle cose, in Pagine inedite di Dino Campana, «La Fiera letteraria», I, 3, 25 aprile 1946, p. l; poi dallo stesso Matacotta in Taccuino, pp. 36-37; poi da Franco Monterosso [Franco Matacotta], con riproduzione fotografica parziale della lettera in Dino Campana. Contributo alla ricostruzione della sua biografia. Anno 1885-Anno 1915, «La Fiera letteraria», VIII, 24, 14 giugno 1953, p. 4; più tardi dallo stesso Matacotta integralmente, ma senza firma né luogo di provenienza, in Bruciate le mie lettere, «Successo», I, 7, novembre 1959, p. 65; e, infine, da Enrico Falqui, Per una cronistoria dei «Canti orfici», cit., pp. 126-27, ma non raccolta nel Carteggio con Sibilla Aleramo, OC, pp. 519-633, né da Falqui nella ristampa della sua Cronistoria, in OC, pp. 125-280; ora in LML, pp. 57-58; in Souvenir d’un pendu, pp.202-203; e in Un viaggio, pp. 98-100.

 


Note

 

1 Nell’autografo: “?” cassato e corretto con “!” .

2 Nell’autografo dopo “vita,”: “lo sai.”, cassato, tranne il punto.

3 Nell’autografo, “Dannunzio”, seguito da una virgola cerchiata dalla quale parte un segno che inserisce sopra le righe: “il macchinista”, poi cassato.

4 Nell’autografo: “d’Annunzio”. Il libro che Campana leggeva con Sibilla Aleramo è: Gabriele D’Annunzio, Forse che sì forse che no, Treves, Milano 1910.

5 Molto probabilmente da Villa Alba (Marina di Pisa), una villetta tra la pineta e il mare, “ove, secondo Sibilla Aleramo, vi si disse che aveva abitato anche G. D’Annunzio”, vd. Testimonianza di Sibilla Aleramo, in LML, p. 92, e anche la dedica di Campana su una copia dei Canti Orfici a D’Annunzio datata, “Villa Alba 16 Ottobre 1916”, vd. Roberto Maini, cit.,; poi, con la riproduzione fotografica dell’autografo, in Sperso per il mondo, p. 193.

6 Nel gennaio 1915 Campana soggiornò in Sardegna insieme ad Augusto Garsia (1889-1956), poeta e scrittore (Roma, Gonnelli, Firenze 1912; Opposte voci, Vallecchi, Firenze 1921, Le strade cieche, La Nave, Firenze 1922). Secondo un vago ricordo di Camillo Sbarbaro, Campana scrisse in compagnia di Garsia una cartolina  da Porto Pausania, vd. Aldo Mastropasqua, Per una storia delle prime edizioni delle poesie di Campana, in Dino Campana nel Novecento, Il progetto e l’opera, a cura di Francesca  Bernardini Napoletano, Officina Edizioni, Roma 1992, p.93. Campana cita qui Garsia, ma spagnolizzando il cognome del poeta forlivese: “Garcia”,  al posto di “Garsia”, ma senza accentuare la i.

Dora Riparia, il fiume che Campana vedeva scorrere  nell’agosto 1915, ospite presso la pensione Villa Irma a Rubiana (Torino).

8 Matacotta nella trascrizione della lettera pubblicata in «Successo», cit., legge questo primo verso: “Come di torricelle rosse”, forse ispirandosi nella versione in francese dei primi quattro versi della  poesia A Mario Novaro, OC, p.287, che Campana compose inizialmente su  un esemplare del libro Oeuvres de François Villon, avec preface, notices, notes e glossaire par Paul Lacroix, Flammarion Editeur, Paris 1910. Campana scrisse “alla pagina della celebre Ballade des pendus”, riferisce Matacotta, “Comme des tourelles d’acier / Dans le coeur brun du soir / Mon esprit qui se [...]”, vd. Taccuino, p. 49. Ma forse la fonte d’ispirazione più aderente per modificare il testo e trascrivere non soltanto “torricelle” al posto di “torri”, ma anche “rosse”, invece di “d’acciaio”, è l’incipit del poemetto Arabesco-Olimpia: “Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo. In un tramonto di torricelle rosse […]”. 

9 Nell’autografo: “ancora” scritto per quarta volta ma senza il punto interrogativo.

 

 

Augusto Garsia 


 Da: Lettere di un povero diavolo, a cura di Gabriel Cacho Millet, ed. Polistampa 2011