Giuseppe Raimondi

 

 

Giuseppe Raimondi: Incontri bolognesi con Dino Campana

 

da "Dino Campana Oggi", Vallecchi 1973

 

 

Fummo fra quelli che avvicinarono Dino Campana nelle sue ultime apparizioni bolognesi fra il 1916 e il '17. Era­vamo due o tre ragazzi di liceo. Si aspettava di essere ar­ruolati come militari. Qualcuno di noi è sparito, come Francesco Meriano, il fondatore della «Brigata» e Gio­vanni Cavacchioli di Mirandola, amico di De Pisis. Giunti alla conoscenza di Campana per il tramite di due nostri più anziani, Bino Binazzi e il pittore Mario Pozzati. Binazzi, pratese, già collaboratore di «Lacerba» futurista era la causa delle fugaci comparse di Campana nei caffè bolognesi, dopo i soggiorni bolognesi di costui del tempo universitario. Quando cioè Campana si fermava qui per i suoi saltuari rapporti con l'Università cittadina. Vi si era iscritto alla facoltà di Chimica per il corso dell'anno 1903 -1904. Si assentava per lunghi periodi, finché vi prese dimora nel 1907.

Alloggiava in questo anno nella via Zamboni. Gli erano compagni di scuola e di scorribande per la città, fra altri come lui romagnoli, Mario Bejor e Federico Ravagli, che hanno lasciato ricordi scritti sul Campana di quel tempo. Incominciò poi il periodo dei suoi viaggi. Aveva annun­ciato a costoro di volersi recare in Argentina. Pare che restasse nell'America del Sud per circa un anno. Ma le notizie al riguardo venute attraverso di lui sono un poco incerte. Rimise piede in Europa, e sostò qualche tempo in Belgio, dove raccontava delle sue visite nei musei d'arte di quei paesi. Così ricalcò allora gli itinerari in Belgio di Verlaine e di Rimbaud. Fra il 1909 e il '10 conduce vita errabonda in Romagna e in Toscana. Trovandosi fra i monti d'Appennino, forse già abbozzava i suoi primi progetti di poesia. Difatti ne parla nel '13 con Papini e Soffici a Firenze. Riapparso a Bologna ne informa di questi progetti i compagni del gruppo romagnolo, con i quali collabora a giornaletti goliardici locali.

Nell'estate del '14, col manoscritto pronto nelle sue ta­sche, conclude con lo stampatore Ravagli di Marradi la pub­blicazione del suo libro, i Canti orficiDistribuisce e vende di persona il libro a Firenze e a Bologna. Decide di recarsi in Isvizzera in cerca di lavoro, come infatti fece, e intanto scrive altre pagine di poesia, che usciranno nella rivista «Riviera ligure» di Mario Novaro. Rientra in Italia. La presenza di Binazzi a Bologna, che lavora al «Giornale del mattino», richiama di tanto in tanto Campana nella nostra città. Così, quelli della mia età videro in carne e ossa la persona di Campana, fra di loro, giusto allora.

Era l'estate dell'anno 1916. La notte sbarcavano dai treni soldati che risalivano, accompagnati da parenti, la via Indipendenza. Noi si aspettava Binazzi al Caffè San Pietro. Quella volta era in compagnia. Un uomo sulla trentina, grosso di spalle. Biondo, anzi rosso di capelli. Le mani affondate nelle tasche della giaccha di lana pe­sante. Era Dino Campana. Eravamo seduti sotto l'arco di portico, davanti alla strada. La conversazione non si av­viava. Io allungai sul tavolo un fascicolo appena uscito della «Voce». Finalmente Binazzi lo sfiorò nelle pagine. Con un sorriso amaro disse: «Ah, una poesia di Papini». Campana guardava in silenzio. Binazzi come gli veniva di fare, altalenando il capo, il suo ciuffo di capelli radi quasi di monaco. Campana, preso in mano il fascicolo, mormorò sottovoce: «Ci sono delle cose di Cardarelli. L'ho conosciuto, Cardarelli. Dovete leggerle». Scandiva le parole con lentezza. Parlava girando gli occhi intorno.

Mi pare non aggiungesse altro. Poco dopo, ripartì con Binazzi senza salutare nessuno.

Ricomparvero insieme il giorno dopo. Qualcuno aveva in mano l'«Illustrazione Italiana». La rivista conteneva dei versi e un articolo in onore di Guido Gozzano. I versi di Gozzano erano quelli del poema sulle farfalle. Il discor­so si mise sul Gozzano. Non fu senza meraviglia che sen­timmo la voce di Campana rompere il silenzio. Disse poche cose: «Ho veduto, disse, in Fiandra pitture di quei pittori. Mi ricordano adesso la poesia di Gozzano. Nei quadri, erano scene, interni di case. Quadri di fiori con in mezzo delle farfalle». Solo dopo, in seguito, com­presi la giustezza del rapporto accennato da Campana.

Passarono dei mesi. Fu l'inverno di guerra 1916. Con i soliti amici eravamo seduti in un divano del vecchio San Pietro. Mentre si parlava, guardando fuori dai vetri nella via Altabella, notai qualcuno che scrutava all'inter­no. Il volto schiacciato contro il vetro. Lo riconobbi. Dissi a Binazzi: «C'è Campana là fuori». Binazzi andò a incontrarlo. Campana sedette silenzioso fra di noi. Verso la mezzanotte uscimmo io e i due amici. Si andava ad accompagnare Binazzi, alloggiato all'Albergo Giardinetto, presso la stazione ferroviaria. Lasciato Binazzi alla porta dell'albergo, con Campana rifacemmo la strada verso il centro. La via Indipendenza era quasi deserta a quell'ora.

Si camminava senza parlare stando in mezzo alla strada. L'uno distante dall'altro. Ricordo come splendevano bian­che le rotaie del tram. Fummo nella piazza Vittorio Ema­nuele. Campana volse il capo in alto per leggere l'ora nell'orologio del Comune. L'orologio aveva le luci spente. Era tempo di guerra. Ci salutammo. Mi disse tre parole: «Andate, andate pure a casa». Rimase fermo al centro della piazza. Non l'ho mai più rivisto. Né altri, credo, lo hanno rivisto nella città di Bologna.