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Federico Ravagli 

 

 

La quale, dunque, ha uno scopo essenzial­mente informativo e niente affatto critico. E se soltanto oggi essa appare, ciò si deve a circo­stanze di varia natura, affatto indipendenti dalla mia volontà: anzi, con questa, in patente con­trasto. Com'è ben facile intendere: se si consi­dera che il grave ritardo, oltre aver sottratto per lungo tempo all'indagine degli studiosi un ma­teriale, se non cospicuo, certo interessante, può avere, altresì, avvalorato giudizi infondati e il­lazioni arbitrarie formulate a mio danno.
 
DINO CAMPANA

FASCICOLO MARRADESE

a cura di FEDERICO RAVAGLI

GIUNTI Bemporad Marzocco, 1972
 


PREMESSA
Dalla rivista « Portici » - n. 3, novembre 1950
Render di pubblica ragione alcuni autografi di Dino Campana, che conservo da oltre otto anni; dar notizia di episodi interessanti la vita di lui a Marradi; e, infine, ristabilire la verità dei fatti, dopo tante note astiosette e dispettosucce, che mi riguardano, dopo certe chiose arrabbiatine e cat­tivelle, stampate a ripetizione su riviste letterarie dal molto illustre Enrico Falqui: ecco il carattere e i limiti della presente pubblicazione.
Dovrei specificare ora, per essere esauriente, le asserite circostanze avverse: ricordare, cioè, e illustrare i miei gravosissimi obblighi profes­sionali, dapprima; il successivo nomadismo e le peripezie del periodo bellico: e poi sciagure fa­miliari, la malferma salute, ed altri mali e ma­lanni che mi hanno sottratto al mio fervido con­sueto lavoro. Ma a chi gioverebbe questa intima confessione, a chi questo affliggente frammento autobiografico? Non a me, che sarei tacciato di pedanteria dimostrativa e di zelo documenta­rio: non al lettore, il quale non ne ritrarrebbe alcun profitto. E allora?
Procediamo a ritroso nel tempo: e risaliamo al 1942. Ricorreva il decimo anniversario della morte del poeta: e, pei tipi del Vallecchi, fu pub­blicata, a cura del Falqui, la terza edizione dei Canti Orfici, unitamente a un altro volume, co­spicuo di mole e copiosamente dotato di bianchi spazi signorili. Il suo titolo era Inediti. Contemporaneamente, o, per essere più pre­cisi, pochi giorni dopo — il particolare non è trascurabile ai fini di un nostro assunto, come si vedrà — uscì, edito dalla « Marzocco », un libro di « autografi e documenti, confessioni e memorie », redatto dall'estensore di queste no­te, il quale ebbe col Campana cordiale amici­zia durante gli anni beati dell'università.
 
Questo volume, che offriva ampie prove, e affatto igno­rate dagli studiosi, della partecipazione attiva del­lo strano studente di chimica alla vita dei goliardi, fu accolto da critiche motivate e serene, da nume­rosi consensi, e da aspri isolati rimbrotti.
La Signora Maria Soldaini Campana, cugina del poeta, mi consegnò, nell'aprile di quell'anno, alcuni autografi da lei appena rinvenuti tra vec­chie carte. Son qui: tre foglietti di quaderno, sciolti, dai margini irregolari, e piegati a metà l'un dentro l'altro. Per leggerli, è necessario con­servare la disposizione, in cui si trovano, e vol­tare le mezze paginette dal basso all'alto, an­ziché da destra a sinistra. Il suo autore era affatto ignoto ai famigliari di Dino: eppure essi affidarono a lui, che non ne aveva fatto richiesta, i manoscritti che si pub­blicano ora.
 
C'è scritta, anzitutto, una quartina in lin­gua inglese, con la relativa versione italiana: e poi è riprodotta per intero, senza il titolo e sen­za il nome dell'autore, la lirica II bacio di Verlaine, con la traduzione in endecasillabi dell'ul­tima strofa soltanto. È da osservare che, di fianco a questa traduzione, è tracciata a destra una lunga linea verticale, la quale termina in alto con un segno di chiamata. Detta linea presumibilmente continuava in basso — lungo il margine laterale di un foglietto andato smarrito, che forse conte­neva le altre quartine — ad indicare che queste dovevano precedere nella lettura la strofa scritta per prima: e non già seguirla.
 
E che l'ipotesi prospettata sia verosimile, anzi molto probabile, chiunque può appurare dall'esame del manoscritto qui riprodotto in fotografia. Poi, la signora che mi dette l'autografo non escluse l'eventualità del­lo smarrimento.
Ma procediamo nel nostro esame retrospet­tivo. Per ricordare che alcuni mesi più tardi, e precisamente il 12 agosto dello stesso anno, il dottor Manlio Campana, fratello di Dino, così mi scriveva da Marradi a Dozza Imolese, do­v'ero sfollato: « ...desideravo portare a termi­ne alcune ricerche su scritti del nostro Dino ch'io mi ero da tempo ripromesse. Qualche ri­sultato l'ho ottenuto, ma non quale io speravo e quale spero ancora: tanto che non mi arrendo e seguiterò presso conoscenti miei e antichi ospiti del nostro Caro, a domandare e recuperare il recuperabile... Io verrò a Bologna lunedì (17) e porterò con me quel poco che ho potuto rin­venire fino ad ora... ».
 
E il dottor Manlio mi consegnò un fascicolo di fogli, formato protocollo, a righe appena per­cettibili — diciotto facciate in tutto, di cui quat­tro completamente bianche — nei quali Dino aveva scritto appunti, abbozzi, stesure iniziali, note d'impeto di alcune prose e poesie che poi, nella loro elaborazione definitiva, apparvero nei Canti Orfici. Esaminando attentamente questi autografi, si assiste all'intimo faticoso processo, e talora al­l'estenuante travaglio della creazione artistica. Alle volte, invece, nei passi dov'è raggiunto un maggior grado di compiutezza, si legge qualche periodo che non fu dato alle stampe dall'autore per ovvie ragioni di estetica e di convenienza, ma che presenta qualche interesse documentario. Caratteristici alcuni incisi ne « La giornata di un nevrastenico »: dove, tra l'altro, lo studente di chimica scherza sulla formula della cadaverina.
 
Insieme a questo fascicolo, poi, mi fu conse­gnato un foglietto volante, quadrettato, di tac­cuino, che nella metà superiore della prima fac­ciata contiene un frammento di una lirica già pubblicata; e nell'altra metà e nella seconda fac­ciata, una breve prosa inedita. Questa, dunque, la vicenda, questa la descri­zione degli autografi. Si deve concludere, per­tanto, che di veramente cospicuo, di superlati­vamente eccezionale — se si astragga da Cam­pana traduttore, che qui appare, sia pure fug­gevolmente, per la prima volta — non c'è nulla, proprio nulla.
 
E oserei dire che nuovi scritti di grande pregio difficilmente verranno alla luce.
Poiché fu bene esplicito e sincero il poeta quando, scrivendo al Binazzi nel 1930 dall'Ospe­dale Psichiatrico di Castel Pulci, asseriva che, oltre ai Canti Orfici, ciò che restava erano sol­tanto « rimasugli di versi, povertà, strofe cantic­chiate ». Una riprova? La si è avuta dopo la stam­pa del mentovato librone degli « Inediti » con relative propaggini. Conviene, inoltre, ricordare che la « grossa cassa da saponi, piena zeppa di manoscritti » che Dino aveva lasciato a Cignati di Marradi, fu completamente distrutta. « Fino all'ultimo foglio è andato tutto bruciato ».