Franco Contorbia

 

 

CAMPANA, GINEVRA, L'INTERVENTO

 

di Franco Contorbia

 

Studi Novecenteschi
 
 
Accademia Editoriale
 

 

Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e rossi sul muro sono fioriti. Perché si rivela un viso, c'è come un peso sconosciuto sull'acqua corrente la cicala che canta.

Se esiste la capanna di Cézanne pensai quando sui prati verdi tra i tronchi d'alberi una baccante rossa mi chiese un fiore quando a Berna guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l'Aar una signora si innamorò dei miei occhi di fauno e a Berna colando l'acqua, lucente come un secondo cadavere, il bello straniero non poté più a lungo sostare? Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, Berna.

Come la quercia all'ombra i suoi ciuffi per conche verdi l'acqua colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù 1.

 

Così, nel libero gioco della memoria (e di una memoria eccezionalmente contigua ai fatti, se la composizione del testo va ricondotta proprio ai mesi del soggiorno svizzero di Campana), le immagini di Berna e di Ginevra si confondono, in Arabesco-Olimpia , secondo un processo associativo sulla cui fulmineità recano qualche istruttiva testimonianza le tarde, e si direbbe postume, glosse del Campana di Castel Pulci registrate nel cahier dello psichiatra Pariani. Berna guerriera?

 

« Sono stato a Berna; ci sono delle pitture, sui muri, di antichi soldati svizzeri ». La signora innamorata degli occhi di fauno? Ma « ciò non è vero affatto, tutte fantasie! »; « se mai quella figura va attribuita a Ginevra » 2.

 


1 D. Campana, Arabesco-Olimpia , in « La Tempra », II, 14, 15 ottobre 1915, p. 7, poi in « La Riviera Ligure », XXII, 4* s., 51, marzo 1916, p. 501 (ora in D. Campana, Opere e contributi , a cura di E. Falqui, Firenze, Vallecchi, 1973, II, p. 284: le citazioni da Campana sono tratte, di regola, da questa edizione, che si indica d'ora in poi con la sigla OC seguita dal numero del volume e delle pagine, e controllate, a causa dei frequenti refusi tipografici, sul testo della terza edizione dei Canti orfici e su quello degli Inediti, che ne costituisce una essenziale « appendice », curati dal Falqui per Vallecchi nel 1941 e nel 1942). Di Arabesco-Olimpia esiste anche un'altra redazione autografa resa nota da F. Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo (1911-1914), Firenze, Marzocco, 1942, pp. 134-35 (l'autografo, di tre pagine, è fotograficamente riprodotto fuori testo).

2 C. Pariani, Vite non romanzate, di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938, p. 84.


 

Berna, Ginevra: due tra i luoghi capitali del declinante voyage dell'ultimo Campana sono nominati qui, ad uso della positivistica « saggezza » del medico inquirente, con la desolata nitidezza del postero di se stesso che non ha tuttavia dimesso l'antica, disperata volontà « a essere poeta ».

 

Cercavo armonizzare dei colori, delle forme. Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi. È una delle mie più belle. Mi ricordo: la mandai alla Riviera Ligure e mi mandarono venticinque lire. Ma a me costava molto di più. Ci avevo messo un mese a farla 3.

 

Non è davvero casuale che su Arabesco-Olimpia si accentrino le operazioni di un esercizio memoriale « provocato » e pure irresistibilmente « autonomo »: da qui, da questa altissima risoluzione formale delle proprie laceranti antinomie non sarà inutile partire per tentare di restituire le linee essenziali dell'estremo itinerario campaniano, le tappe di un movimento di fuga destinato a « compiersi » in modo non più reversibile.

Lo stesso Campana fornisce in proposito una illuminante indicazione di metodo, facendo discendere dalle note a Arabesco-Olimpia accolte più sopra un regesto sia pure concisíssimo (o reticente?) degli anni di guerra.

 

Da Berna dovetti andar via. Vi ero andato a cercare un impiego, poi mi offrirono persino di andar volontario in Germania; ma io rifiutai. Era il tempo della guerra. Poi venni in Italia. Poi divenni mezzo strano. Non potevo più vivere. Fui internato durante la guerra4.

 

Importa meno che, nel merito, circoscritto il discorso ai mesi passati da Campana in Svizzera, l'annebbiamento delle categorie di spazio e, particolarmente, di tempo (« poi mi offrirono », « Poi venni », « Poi divenni ») renda utilizzabile con una certa cautela la dichiarazione addotta; potrà comunque soccorrere, nel caso, la periodizzazione che Franco Matacotta ha desunto, nel 1949, da alcune superstiti carte campaniane:

 

All'inizio del 1915 Dino è a Marradi, rimpatriato da Torino perché trovato dalla polizia sprovvisto di regolari documenti di identificazione. Non sono passati nemmeno quattro mesi da questo ritorno, ed ecco riafferrarlo il demone della irrequietezza e il desiderio della fuga. Di nuovo comincia a sentirsi perseguitato dai compaesani, e decide di ripartire, meta questa volta la Francia. Ripassa per Torino, sale a Domodossola [...].

 


3 C. Pariani, op. cit., p. 85. Il testo di Arabesco-Olimpia è allegato da Campana a una lettera senza data a Mario Novaro: « Intanto mi permetto di porgerle la mia tuba al fine che Lei vi depositi il prezzo ridotto di questo lavoro che mi sembra dei migliori che io abbia mai fatto e che apparso in un giornaletto locale e quindi sconosciuto merita gli onori della sua rivista (potrà essere dato come seminedito e pagato a metà prezzo) » (E. Falqui, Dino Campana. Il carteggio Novaro, in « La Fiera letteraria », XLII, 8, 23 febbraio 1967, p. 8, poi, con il titolo II carteggio di Campana con Novaro, in Novecento letterario, Firenze, Vallecchi, 1968, IX, p. 101). Il Falqui colloca la lettera di Campana tra una cartolina del 27 febbraio e un'altra del 25 marzo 1916: la datazione è sicuramente errata se si pensi che già l'11 dicembre 1915 l'amministrazione della « Riviera Ligure » invia a Campana quindici (e non venticinque) lire per Arabesco-Olimpia: il brevissimo testo della lettera è fotograficamente riprodotto in F. Matacotta, Corrispondenti di Dino Campana, in «La Fiera letteraria», IV, 31, 31 luglio 1949, p. 3.

4 C. Pariani, op. cit., pp. 84-85.


 

Traversata la frontiera, da Villeneuve va a Chillon e a Losanna e di là, traversato il Lemano, si fissa a Ginevra dove lo troviamo nell'aprile, operaio straordinario presso il Comitato delle Società Italiane, nella Grand'Rue, 3. Non ha domicilio preciso, si fa scrivere fermo posta.

Ma il lavoro è insicuro - durerà difatti poco più di un mese - [. . .] Il 6 maggio Dino viene licenziato dal Comitato e riceve il ben servito:

 

« Nous avons occupé Dino Campana et avons été très satisfaits de son travail ».

 

Dino non può fermarsi più oltre a Ginevra. L'Italia sta per entrare in guerra ed egli, fervente interventista, decide di rimpatriare5.

 

Invano si ricercherebbe, in sede critica, un'indagine anche molto sommaria intorno al Campana di questi mesi, rimasti fuori da quella zona mitologica in cui appaiono coinvolti, o irretiti, altri episodi della sua biografia (si pensi solo a quello, canonico, dello smarrimento del manoscritto dei Canti orfici da parte di Papini e Soffici, neppure privo, in appendice, di una sorta di miracolosa agnizione: il rinvenimento del quaderno tra le carte di Soffici, segnalato il 17 giugno 1971 da Mario Luzi)6: ne trarrà forse legittimazione l'assunzione a strumento euristico di un esercizio così elementare, e così sprovvisto di connotazioni « leggendarie », come l'ordinamento delle lettere campaniane relative all'anno 1915.

(E non si potrà, per inciso, non insistere, a tale proposito, sulla stridula ironia con cui la storia delle patrie lettere continua a registrare, a mo' di singolare « rovescio » dei conclamati soccorsi filologici dei quali, primo se non unico tra gli scrittori del Novecento, Campana avrebbe fruito subito dopo la morte7, la dispersione nelle sedi più varie e spesso stravaganti dei materiali di un carteggio ancora irrimediabilmente virtuale).

 

Quando partii da Firenze andai in Sardegna poi a Torino per due mesi, mezzo morto di freddo e di noia, poi ho girato la metà della Svizzera a piedi e sono a Ginevra da un mese e mezzo, ma, stante le mie condizioni disperate, non so dove anderò8

 


5 « La Fiera letteraria », 31 luglio 1949, p. 3. Le stesse notizie sono riprese, senza rettifiche sostanziali, in G. Gerola, Dino Campana , Firenze, Sansoni, 1955, pp. 48-50.

6 Sullo smarrimento del manoscritto da parte di Papini e Soffici si veda la stupenda cartolina « francese » di Campana a Boine del 18 gennaio 1916, pubblicata in E. Falqui, Un disgraziato episodio della vita di Campana , in « La Fiera letteraria », XV, 13, 27 marzo 1960, p. 1 (poi in Per una cronistoria dei «Canti orfici», Firenze, Vallecchi, 1960, pp. 43-44, e in OC, I, 161-62). Ma, più in generale, sulle vicende editoriali dei Canti orfici è indispensabile il riferimento al secondo capitolo dell'ultima edizione d Per una cronistoria (OC, I, 138-90) che tien conto, anche dell'articolo di M. Luzi, Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana , apparso sul « Corriere della Sera », XCVI, 140, 17 giugno 1971, p. 12. L'edizione critica del primo manoscritto dei Canti orfici , Il più lungo giorno , comprendente anche la riproduzione anastatica dell'autografo, è stata pubblicata nel 1973, per la cura di D. De Robertis , dagli Archivi - Arte e cultura dell'etàbmoderna di Roma d'intesa con Vallecchi editore.

7 Mi riferisco alle citate edizioni dei Canti orfici e degli Inediti procurate dal Falqui.

8 A. Soffici, Ricordo di Campana , in « Corriere d informazione », XIV, 166, 14-15 luglio 1958, p. 3 (poi in Opere , Firenze, Vallecchi, 1965, VI, p. 407). La stessa periodizzazione è offerta da una lettera a Cecchi del maggio 1916, pubblicata da T. T. T [Leonetta Cecchi Pieraccini], Ricordo di Campanay in «Omnibus», II, 8, 19 febbraio 1938, p. 3: « andai in Sardegna, poi a Torino, in Svizzera ».

9 « Omnibus », 19 febbraio 1938, p. 3. Il brano citato è riprodotto anche in un nuovo saggio di L. C. Pieraccini, Apparizioni di Dino Campana, pubblicato in Visti da vicino, Firenze, Vallecchi, 1952, p. 205.

10 La lettera responsiva di Chiesa è in « La Fiera letteraria », 31 luglio 1949, p. 3.


 

La secca ricapitolazione dei mesi trascorsi in Svizzera tentata da Campana, prossimo a rientrare in Italia, nella lettera a Soffici del 12 maggio 1915 appare subito, per la collisione appena esplicita che si istituisce tra la « riduzione » dei fatti a un registro denotativo volontaristicamente composto e l'insorgere delle angosce e degli orrori di un'esistenza dolorosamente déracinée , un esemplare documento autobiografico. Ma si veda subito un lacerto della prima lettera « svizzera » di Campana, inviata nel marzo 1915 a Emilio Cecchi e resa nota nel 1938 da Leonetta Cecchi Pieraccini:

 

Io anderò in Francia; non sono soldato, e curerò i feriti: forse potrei guarire io stesso ma non ci tengo oramai più9.

 

La mancata realizzazione del progetto, davvero strabiliante per chi fosse disposto a passare in giudicato senza previ controlli critici le proverbiali ascendenze « tedesche » di Campana, non è forse l'ultima causa dei suoiripetuti appelli alla solidarietà per dir così professionale di alcuni contemporanei hommes de lettres, nel nome di una comune, e non importa se ortodossa o eccentrica, dedizione alla chose littéraire, coniugata, in qualche caso (penso al carteggio di Campana con Francesco Chiesa), con le perentorie « ragioni » della topografia.

È molto probabile che proprio l'inevitabile improduttività di un simile « calcolo » topografico (appena ovvia, se si tenga conto dell'irreducibile sfasamento di piani che la relazione epistolare tra Campana e Chiesa presuppone: basti ricordare, in proposito, la serie dei saggi ammonimenti che il garbato scrittore luganese destina allo « strano » postulante)10 determini, insieme con la riapertura del dialogo con Cecchi, rimasto sospeso, se non interrotto, la più singolare tra le approches epistolari di Campana: quella che ha per oggetto davvero « involontario » Renato Serra.

La contiguità cronologica e le liaisons tematiche esistenti tra i due documenti centrali del soggiorno ginevrino di Campana (una lettera a Cecchi, appunto, dell'aprile del 1915 e una cartolina postale inedita a Serra del 17 dello stesso mese) ne legittimano l'integrale riproduzione. La lettera a Cecchi è la seguente:

 

Poste restante Genève (aprile 1915)

Egregio Signore,

grazie della Sua generosa lettera. Mi pregio assicurarla ch'io mi rendo conto del significato veramente alto delle sue idee e dei suoi atteggiamenti. Vorrei come Lei rappresentare una forza morale attiva, mentre non sono che une épave. Non mai come ora soffro della mia condizione; pure ho ancora il senso vivo dell'intolleranza morale che ho provato negli ambienti frequentati in Italia, e resterò probabilmente qua. Nella sua lettera c'è anche della bontà. La prego credere che non è per profittarne se ora le domando qualche indicazione per un lavoro di qualunque genere. Conosco le lingue, meno il russo, ho coltura scientifica, e m'impegnerei con lei di lavorare coscienziosamente. Forse questa richiesta le sembrerebbe meno inopportuna se le descrivessi le mie condizioni. Scusi e in ogni caso mi creda dev.mo obblig.mo

D. C.

P.S. Non ho potuto entrare in Francia. Non creda legittima alcuna lettera col mio nome se non riconosce la scrittura)11.

 

   La cartolina a Serra, che ho rinvenuto tra le carte di quest'ultimo e che qui trascrivo, è spedita da Ginevra il 17 aprile, giunge a Cesena il 18, e di lì viene girata a San Vito al Tagliamento, dove Serra sta svolgendo il servizio militare dopo il richiamo alle armi. È il caso di aggiungere ch'essa consente di ristabilire i termini di fatto di un rapporto epistolare che, già documentato dal Matacotta limitatamente alla lettera responsiva di Serra, era rimasto fino ad oggi criticamente impregiudicato. Se ne veda il testo:

 

Genève (Suisse) poste restante

Dino Campana

Egregio signore,

visto l'esito infelice che ho avuto nelle mie relazioni coi fiorentini spero12 miglior fortuna dalla mia razza che io riconosco solamente nella rappresentazione di giovani come lei e come me. Avevo13 perso completamente la voglia di scrivere ma come era da aspettarsi la vado riacquistando. Però14 è impossibile che Lei abbia un'idea delle condizioni in cui vivo e ho vissuto. Quà cercavo un'occupazione ma detestano come una mostruosità un italiano che non è un ilota. La Dante Alighieri mi manda a mangiare la zuppa quotidiana dell'opera Bonomelli. Dunque, egregio signore, mi scriva qualche cosa. Io non ho nessunissima conoscenza in Italia fuori dei fiorentini che non mi squadrano, e se Lei15 vorrà darmi l'indirizzo di qualche giornale che paghi16 un po', o propormi un lavoro qualsiasi (di traduzione p. es.17, conosco le lingue meno il russo) le sarò gratissimo. Non creda a nulla di quanto le18 avranno detto, se vuole mi interroghi risponderò francamente. Sono con viva e vera stima

Dino Campana19

 

Non è forse superfluo indicare  a quale punto della biografia serriana lo scambio epistolare con Campana si collochi. Richiamato alle armi il I° aprile, Serra viene destinato a San Vito al Tagliamento20di lì la domenica 11 spedisce a Papini le prime cartelle dell'ultimo suo scritto « edito », l'Esame di coscienza di un letterato, che uscirà sul fascicolo della « Voce » del 30 aprile21.

 


11 « Omnibus », 19 febbraio 1938, la lettera è solo parzialmente ripubblicata in Visti da vicino, cit., p. 205.

12 Segue, nell'autografo, « che non tutto » cassato.

13 Nell'autografo la « A » iniziale è riscritta su « Ho »

14 Segue, nell'autografo, « per » cassato.

15 Nell'autografo « Lei » è riscritto su una « m ».

16 Segue, nell'autografo, « qualche cosa » cassato.

17 Segue, nell'autografo, una parentesi tonda cassata.

18 Segue, nell'autografo, « dir » cassato.

19 Nell'autografo « Campana » è cessato e riscritto. La cartolina postale, qui pubblicata per la liberalità del prof. Franco Serra, è indirizzata a « Renato Serra / Biblioteca Comunale / Cesena / (Italie) », e reca le seguenti aggiunte, d'altra mano: «Tenente 11 Fanteria / S. Vito al Tagliamento / (Udine)». Timbro postale di partenza: Genève, 17 aprile 1915; timbro di arrivo: Cesena, 18 aprile 1915.

20 A. Grilli, Curriculum vitae. 1884-1915, in R. Serra, Epistolario , a cura di L. Ambrosini, G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1934, p. XI.

21 La lettera a Papini è in R. Serra, Epistolario, cit., pp. 560-61; l'Esame di coscienza di un letterato viene pubblicato in « La Voce », VII, 10, 30 aprile 1915, pp. 610-32 (poi in R. Serra, Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1938, I, pp. 391-421).


 

Che Campana si rivolga proprio al Serra che ha appena condotto a termine il decisivo tra i bilanci di un'esistenza « in crisi », slontanando irreversibilmente ogni decezione « letteraria », è fatto non poco istruttivo, che parrebbe convalidare ad abundantiam i sinistri connotati del destino di Campana.

Ma non è sulla sorte melanconicamente ironica di una domanda di lavoro (e si intenda di lavoro letterario) comunicata a un « letterato » ormai strenuamente dedito a negare una volta per tutte il proprio status professionale che intendo qui insistere: varrà la pena, piuttosto, di tentare di cogliere la specificità del rapporto sia pure temporaneamente istituito da Campana con Serra, ricollegando la cartolina ginevrina ad altri documenti epistolari del Campana di quei mesi.

Se le invettive antifiorentine22, l'amara ratifica del proprio sradicamento (ma l'autoriduzione ad « épave » registrata dalla lettera a Cecchi non esclude, nella cartolina a Serra, il rifiuto della condizione dell'« ilota »), l'esibizione di un palmares linguistico assai vasto che comporta, nell'una e nell'altra delle due sedi indicate, la sola eccezione del russo23 rientrano fra i tòpoi centrali del repertorio campaniano, la nozione di « razza » cui Campana preliminarmente si riferisce nella cartolina a Serra ne costituisce di sicuro la più esplicita discriminante.

Ci si risparmi pure l'ozioso ufficio di stornare da Campana sospetti di reazionarismo più o meno avventizio che si addiranno piuttosto a un impavido gobiniste quale Boine24.

Nel caso, quand'anche non ci si voglia limitare a ravvisare nell'appello di Campana a una comune appartenenza di « razza » una indiretta allusione a una complicità intellettuale sia pure mediata e « traversa », la geografia letteraria potrà essere utilmente asservita all'esegesi, se solo si pensi alla « continuità » storico-culturale esistente tra Marradi e la Romagna cosiddetta toscana, da un lato, e la Romagna senza aggettivi, dall'altro.

Più ancora che la lettera del 9 luglio 1915 al ferrarese Giuseppe Ravegnani, nella quale le coordinate geografiche di Campana patiscono un impiego a dir poco elastico (« sarei contento che in quello che scrivo vi fosse un po' dell'umanità larga e dell'intenso colore della nostra Emilia »)25

 


22 Di tali invettive, rivolte quasi esclusivamente a Papini e a Soffici, ha fornito un catalogo sia pure lacunoso il Falqui nella citata ultima edizione di Per una cronistoria dei «Canti orfici» (OC, I. 166-67).

23 Si vedano ancora due lettere a Mario Novaro, la prima del 28 agosto 1915, la seconda senza data, ma del febbraio-marzo 1916: « Conosco abbastanza bene quasi cinque lingue », « Traduce dall'inglese tedesco spagnolo francese » (« La Fiera letteraria », 23 febbraio 1967, pp. 7 e 8; Novecento letterario , cit., IX, pp. 97 e 102).

24 Per uno specimen « didattico » del rapporto Boine-Gobineau, si veda G. Boine, Gobineau e la razza, in « Rassegna contemporanea », VII, s. II, fase. XV, 10 agosto 1914, pp. 394-413.

25 G. Ravegnani, Ricordo di Dino Campana, in Uomini visti. Figure e libri del Novecento ( 1914-1954 ), Milano, Mondadori, 1955, I, pp. 45-46.


 

è un lacerto della seconda sezione (Ritorno) de La Verna a porre a nudo, e in modo clamorosamente effuso, le radici « romagnole » di Campana:

 

Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell'enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontano miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull'infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna26.

 

Ma i mesi « svizzeri » di Campana non tollerano di certo simili amplificazioni mitizzanti. « La Dante Alighieri mi manda a mangiare la zuppa quotidiana dell'opera Bonomelli »: l'involontaria jonction che nella cartolina a Serra si determina tra « cultura » e « assistenza » presuppone una condizione materiale di vita letteralmente inaudita tra gli intellettuali italiani del primo Novecento, organicamente e quasi fisiologicamente indisponibili ad ogni sorta di impiego nell'ambito dei rapporti di produzione.

Tocca ancora una volta all'« eccentrico » Campana il privilegio di sperimentare su di sé le leggi del mercato della forza lavoro, non diversamente da quegli operai italiani emigrati in Svizzera ai quali retrospettivamente si applica l'ironia bonariamente paternalistica di padre Giovanni Semeria, operante a Ginevra presso l'Opera Bonomelli tra il 1914 e il 1915, in un edificante paragrafo delle sue Nuove memorie di guerra:

Ma ad accrescere l'intensità della nostra attività religiosa e cristiana contribuì lo sviluppo del nostro lavoro civile.

   Per parte mia iniziai due corsi di conferenze: uno per le persone colte, l'altro per gli operai nostri. Ho detto per le persone colte, perché Dante non interessa solo gli italiani, può interessare, interessa proprio tutte le persone veramente colte.

E queste abbondano a Ginevra e a sentir conferenze ci vanno molto volentieri. La Lectura Dantis inaugurata nella nostra sala, tutt'altro che elegante, attirò così un pubblico più elegante e scelto di essa, dove accanto al fiore della colonia, affluiva di volta in volta più numeroso l'elemento ginevrino, o indigeno, di passaggio.

Ricorderò tra gli stranieri un francese, simpaticissimo e coltissimo israelita, ma appassionato di Dante e dell'Italia, pur essendo un buon francese. Malato di nervi si curava in attesa di rientrare, quantunque non più giovane, in Patria per farvi il suo dovere.

Anche per distrarsi frequentò la lettura, contraemmo una buona e cara amicizia che giovò poi a me quando, dopo sei mesi di guerra, malato di nervi, dovetti chiedere alla Svizzera cure che mi riuscirono oltremodo benefiche. Fu allora lui, quasi guarito, che confortò me malato, come io sano aveva aiutato lui anelante alla guarigione.

Per gli operai invece, ascritti alla società Bonomelli e non ascritti parlavo ogni mercoledì. Evitai le polemiche sistematicamente. A che servono? Procurai invece di divertirli e sollevarli adagio adagio in più spirabil aere. All'uopo mi giovò moltissimo la poesia, le favole poetiche, più spesso e più volentieri il Trilussa!

Ma se gli operai affluivano alle conferenze, se si triplicò nella Bonomelli il numero dei soci, lo dovemmo non alla mia eloquenza, ma ai benefici della distribuzione o distribuzioni alimentari che si cominciarono a fare dalla Missione. Il Governo italiano per aiutare i nostri connazionali ancora molto numerosi a Ginevra, nella crisi che nasceva dal diminuito lavoro e dal rincaro dei generi anche più necessari, deliberò di mandare al Consolato carri di pasta, riso condimento che il Consolato affidò a noi per una distribuzione sicura ed equa.

 


26 OC, I, 41-42.


 

Fu una bella faccenda per noi improvvisarci negozianti al minuto di generi alimentari; imporre l'ordine più severo a una folla, vera folla che si accalcava ai nostri cancelli; introdurre un principio di equità nella ripartizione, dove tutti volevano farsi la parte de leone.

Ma studi e fatiche furono compensati per noi Missionari dalla corrente che si determinò verso la Cappella e la Sala delle conferenze. Povera umanità! Quante volte durante quei mesi ho meditato sul Vangelo delle turbe che vengono a Gesù, dopo che ha moltiplicati i pani e guariti gl'infermi!

E quante volte nei primi tempi dopo il mio ritorno in Italia riandando quei mesi d'un apostolato per me simpaticissimo col caro, coll'indimenticabile P. Ghignoni (non sempre forse prudens, ma sempre cordialmente fidelis servus ), gli dicevo per punzecchiarlo e scandalizzare il suo idealismo: caro amico! il lardo a L. 3 invece di L. 6, ecco il ragionamento più persuasivo per ricondurre sul retto sentiero intellettuale tanti operai27!

 

   È forse proprio il desolato « taccuino » svizzero di Campana a trovare in Serra un'udienza non formale (meno determinanti appaiono in tal senso sia il rinvio al comune retroterra romagnolo, pur verosimilmente non ingrato a un antico lettore di Taine, sia le referenze bibliografiche campaniane: giacché pare molto dubbio che Serra abbia letto i Canti orfici, dei quali potrà avere al più conosciuto i tre « pezzi di minerale poetico », Sogno di Prigione, L'incontro di Regolo e Piazza Sarzano, apparsi il 15 novembre 1914 su « Lacerba »)28 :

 

Egregio signor Campana,

. . . sono stato richiamato sotto le armi: molto lontano da ogni sorta di letteratura. Se avessi qualche relazione nel mondo dei pubblicisti, sarei lieto di valermene per Lei: ci conosciamo poco, ma credo di dover stimare il suo ingegno; e quello che mi scrive oggi poi mi ha fatto una impressione profonda.

Non so dove indirizzarla. Io ho sempre vissuto in provincia, contento del mio buco, senza cercar più niente o nessuno: non ho più messo i piedi nella redazione di un giornale e non conosco direttamente neanche un editore.

Conosco solo un poco i fiorentini; e malgrado quello che Lei ne dice, La potrei consigliare di provare ancora da quella parte. Non sono mai andato molto d'accordo con loro nemmeno io: ma una certa generosità e fraternità disinteressata l'ho sempre sentita in loro, più che negli altri.

Certo, dal punto di vista pratico, il momento è brutto assai. Ma passerà. Quando si è giovani e si ha del cuore, si tira avanti.

E passata la guerra, ci sarà da fare per tutti; e del posto per chi ha ingegno. Se tornerà29, ne potremo parlare. Per ora, non posso altro. Mi scusi e accetti gli auguri del suo

R. Serra30

 

 


27 G. Semeria, Nuove memorie di guerra , Milano, Amatrix, s.d., pp. 89-91.

28 D. Campana, Sogno di Prigione, L'incontro di Regolo, Piazza Sarzano, in « Lacerba », II, 23, 15 novembre 1914, pp. 315-16 (= OC, I, 60, 77- Sulla collaborazione di Campana a « Lacerba » si vedano gli acuti rilievi di G. Scalia, Introduzione a La cultura italiana del ' 900 attraverso le riviste, IV « Lacerba » « La Voce » (1914-1916), Torino, Einaudi, 1961, pp. 38-39 (nell'antologia sono a pp. 337-39).

29 Così nel testo della « Fiera letteraria ». Ma sembra più plausibile la lezione « Se tornerò »: incerto è il ritorno di Serra dal fronte, più che il rientro di Campana dalla Svizzera.

30 « La Fiera letteraria », 31 luglio 1949, p. 3.


 

Non inganni l'elegante renitenza di Serra ad assumere impegni concreti per chi pure gli ha fatto (e v'è motivo di credergli) « una impressione profonda »: l'ottica straniata che sottende ormai il rapporto di Serra con il reale (e, a ben maggior ragione, con gli istituti di una società letteraria in via di decomposizione) è quella di chi, dopo il richiamo alle armi e, particolarmente, dopo la conclusione del l'Esame di coscienza di un letterato, può dirsi con qualche fondamento « molto lontano da ogni sorta di letteratura ».

Non sembrerà dunque paradossale, se si tenga conto di questa distanza, l'obliqua « riabilitazione » dei fiorentini, che potrebbe parere, e non è, l'estremo escamotage di un collaboratore della « Voce » così proverbialmente riottoso quale Serra (riottoso, si aggiunga, con De Robertis non meno che con Prezzolini).

Ma è un nodo, cotesto, che alla data della cartolina di Campana Serra ha già sciolto da un mese, con testamentaria lucidità, indirizzando il 20 marzo a De Robertis quello straordinario compte-rendu autocritico che il destinatario non esiterà a rendere parzialmente pubblico sulle pagine della « Voce », il 15 aprile, con il titolo II gruppo fiorentino 31. Si consideri il lacerto da cui il titolo in questione è mutuato:

 

sconto un altro peccato, che non è di ieri: di aver voluto sempre coltivare, neimiei rapporti con la Voce e col gruppo fiorentino, piuttosto che la simpatia - naturale e sincera nell'animo, e per tutte le cose essenziali - , le differenze e le resistenze, con una cura di esattezza, che confinava con l'ingiustizia.

Ma sarebbe tutta una storia e non è tempo da raccontarla: bisognerebbe anche spiegare in che senso e con che animo mi sia chiuso lungamente in una specie di prigione di letteratura provinciale e di modestia e di ossequio umanisticamente preciso, che era piuttosto che una forma naturale, una dissimulazione e una difesa provvisoria dell'animo insofferente, desideroso di salvare insieme la sua negligenza del presente e la sua libertà dell'avvenire.

Se stampassi le mie pagine carducciane, dovrei raccontare un capitolo di questa storia: anche il mio carduccianesimo non è stato altro che una superstizione volontaria, in cui mi piaceva insieme di nascondere e di coltivare sotto la specie dell'umiltà il mio diritto all'eresia32.

 

È sulla linea di questa turbata « revisione » serriana, preliminare alla definitiva stesura dell'Esame di coscienza, che la cauta apologia dei fiorentini registrata dalla lettera a Campana va a collocarsi.

E se da una minima spia lessicale è possibile risalire all'orbita tematica nella quale questo e altri testi serriani cronologicamente finitimi si situano, si ricordi almeno che il « buco » provinciale di cui Serra continua a dichiararsi « contento » nella lettera a Campana è, in una carta abbandonata della citata lettera a De Robertis del 20 marzo, il luogo deputato e quasi l'emblema di quell'« estraneità » che Serra ha costantemente assunto, fin dal 1909, quale stabile norma di comportamento di fronte alle reiterate offerte di collaborazione alla « Voce » da parte di Prezzolini e di Ambrosini33:

È tutta una storia lunga, da quando Pr. mi scopriva, attraverso l'amicizia di Ambrosini, e veniva a cercarmi nel mio buco di provincia, con una generosità, a cui io rispondevo solo avvisandolo che si era sbagliato: io non ero quello che cercava. E avevo ragione, da una parte; come ho sempre avuto ragione dopo di tenermi discosto da un paese che non era il mio.

 


31 La lettera, parzialmente pubblicata in « La Voce », VII, 9, 15 aprile 1915, pp. 538-43 (nella citata antologia dello Scalia, pp. 482-86), è in R. Serra, Epistolario, cit., pp. 546-57: la parte edita con il titolo II gruppo fiorentino corrisponde alle pp. 549-56.

32 R. Serra, Epistolario, cit., pp. 550-51. Ho controllato e lievemente emendato il testo della lettera sulla base dell'autografo posseduto dalla Biblioteca Malatestiana di Cesena.

33 È esemplare, in tal senso, la prima cartolina di Serra a Prezzolini, del 9 gennaio 1909 (si ricordi che il primo numero della « Voce » appare il 20 dicembre 1908): « La ringrazio della sua cartolina molto cortese. Se non che quella non si indirizzava a me, ma ad una immagine che nel mio nome la buona amicizia di Ambrosini aveva suscitata, certo maggiore e migliore del vero. Ahimè! io non ho proprio nulla di ardente di forte di nuovo da dire: forse non ne sento nemmeno il bisogno. Io sono un povero umanista ... e a Lei non deve importar molto di sapere chi sono e che penso io» (R. Serra, Epistolario, cit., p. 233). Anche questa cartolina è stata riscontrata sulla riproduzione fotografica dell'autografo esistente presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena.


 

Che il dialogo con Serra non possa superare la soglia delle prime battute, è appena evidente: anche per questo non dovrà sorprendere che a sette giorni dalla cartolina a Serra, il 24 aprile, Campana si rivolga addirittura all'odiato Soffici (e non è il caso di ipotizzare qui una possibile mediazione serriana, non essendo chiaro se la lettera responsiva di Serra sia pervenuta a Ginevra prima di quella data). Non tragga in inganno il prudentíssimo attacco della cartolina a Soffici, nella quale Campana trascrive il testo di una composizione che solo il 15 agosto « La Voce » pubblicherà con il titolo Frammento34:

 

Egregio signor Soffici, sento qua le notizie più contraddittorie. Sembra, dunque, che facciamo la guerra? Per conto mio continuo una vita possibile35.

È, questo, non più che il diplomatico tentativo di rinvenire, dopo un discidium di mesi, una comune lunghezza d'onda, il prologo, in certo senso, della capitale lettera ginevrina del 12 maggio:

... Mi vado convertendo alla democrazia. Credo che si potrebbe fare una fusione fra lo spirito della Svizzera sassone, in cui Nietzsche scrisse che si era rifugiato Schumann e la religione della maternità del lavoro e dell'amore, così divinamente espressa dal nostro dolce e severo Segantini, e che già si trova in Millet.

Questa mi sembra la via da seguire perché è la più larga, quella che richiede maggiore umanità e realtà. Ho trovato alcuni studii, purtroppo tedeschi, di psicanalisi su Segantini, Leonardo ed altri, che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassunto per « Lacerba ». Si tratta di utilizzare la capacità di osservazione di quella gente in favore della nostra sintesi latina.

Se una nuova civiltà latina dovrà esistere, essa dovrà assimilare la Kultur. La Francia da sola non è riuscita. Essa è stata sommersa nella cultura tedesca e anche noi, per ripercussione, siamo stati vittime di questa débâcle, e proprio nel momento in cui una nuova cultura poteva formarsi in Italia, dove non esiste più una Kultur universitaria.

Egregio e sempre più caro amico, potrebbe lei, fare in modo che il lavoro che sono disposto a fare mi venisse pagato qualche ventina di lire al mese? È triste che debba ricorrere per queste cose a lei, che è forse l'unico 

che sia capace di rivivere con me quel poco che ho fatto e che farò (e ciò perché noi due siamo intensamente latini) come io sento ogni giorno più la bellezza italiana di quello che lei fa. Purtroppo a volte il destino ci sforza a sembrare egoisti e gretti.

Per fortuna Ella conosce le alternative, fra l'asilo notturno, l'ospedale ecc. Se lei può fare quello che le chiedo, mi mandi qualche cosa subito: io, d'altra parte, le invierò regolarmente gli scritti che mi chiede36.

 


34 D. Campana, Frammento , in « La Voce », VII, 14, 15 agosto 1915, p. 902 (con il titolo Bastimento in viaggio ( già: Frammento ), in OC, II, 283). Anche di Bastimento in viaggio esiste un'altra redazione autografa, pubblicata da F. Ravagli, op. cit., pp. 136-37 (l'autografo, di una pagina, è fotograficamente riprodotto fuori testo).

35 « Corriere d'informazione », 14-15 luglio 1958, p. 3; Opere , cit., VI, p. 406.

36 « Corriere d'informazione », 14-15 luglio 1958, p. 3; Opere, cit., VI, pp. 406-07.


 

Se si pensi che solo nel 1969 verrà pubblicata la prima versione italiana del Leonardo di Freud37, non potrà non stupire l'eccezionale forza di anticipazione con cui Campana tenta, senza successo, di contrabbandare in territorio italiano il settimo e il nono volume delle lipsiane Schriften zur angewandten Seelenkunde, Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, appunto, del 1910, e il Giovanni Segantini di Karl Abraham, del 1911; il fatto che le epitomi destinate a « Lacerba » restino poi solo virtuali non toglie che il primo capoverso della lettera a Soffici costituisca, e a pieno diritto, uno degli incunabuli « italiani » della psicanalisi dell'arte.

Ma si vedano, per questa parte, i nitidi rilievi del David: Campana ha dunque letto il saggio di K. Abraham su Segantini e di Freud su Leonardo, apparsi nel 1911 e nel 1910. Quanto agli «altri articoli», non li conosceremo mai con esattezza. È comunque notevole che nel 1915, un « operaio » italiano a Ginevra leggesse (ma dove? presso quale biblioteca d'istituto? in che clinica neuropsichiatrica? e si potrà un giorno fare questa piccola ricerca, che forse non sarebbe impossibile?) testi tedeschi di psicoanalisi dell'arte.

Più notevole ancora il fatto che quest'operaio ne sentisse il valore rivoluzionario (« cose in Italia inaudite ») e l'importanza (« purtroppo tedeschi » scrive, con un'espressione d'invidia che vale un giudizio ammirativo), al punto di volerne stendere una recensione per « Lacerba ». Naturalmente, egli non la scrisse mai e non credo che Soffici sia stato molto entusiasta della proposta.

Sarà ancora da rilevare il giudizio sulla « capacità di osservazione » dei tedeschi opposta alla « sintesi latina » che ci riconduce al tema del confronto delle culture38.

È piuttosto sulle implicazioni « politiche » della lettera che sembra opportuno insistere: il singolare revirement « latino » dell'autore dell'ancor fresca dedica « a Guglielmo II imperatore dei Germani » potrebbe apparire più sorprendente del dovuto se non si tenga conto di una illuminante dichiarazione di Campana allo stesso Soffici, accolta da quest'ultimo nei suoi Ricordi di vita artistica e letteraria :

 

- Ma sì! - egli mi disse - è stato il dottore, il farmacista, il prete, l'ufficiale della posta, tutti quegli idioti di Marradi, che ogni sera al caffè facevano quei discorsi da ignoranti e da scemi. Tedescofobi, francofili, massoni e gesuiti, dicevan tutti e sempre le stesse cose: e il Kaiser assassino, e le mani dei bimbi tagliate, e la sorella latina, e la guerra antimilitarista. Nessuno capiva nulla. Mi fecero andare in bestia; e dopo averli trattati di cretini e di vigliacchi, stampai la dedica e il resto per finirli di esasperare39.

 


37 S. Freud, Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci [traduzione italiana di E. Luserna], in Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, I, Leonardo e altri scritti, Torino, Boringhieri, 1969, pp. 73-148.

38 M. David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 346-47 (cito, per la parte strettamente funzionale al presente lavoro, dal paragrafo D. Campana, pp. 345-48). Su Campana e la psicanalisi si veda ancora, dello stesso David, Letteratura e psicanalisi, Milano, Mursia, 1967, p. 201.

39 A. Soffici, Campana a Firenze, in « Gazzetta del Popolo », LXXXIII, 258, 30 ottobre 1930, p. 3 (poi, con il titolo Dino Campana a Firenze, in Opere, cit., VI, p. 88). Sulle motivazioni « marradesi » della dedica insiste anche il Pariani: « Il libro reca una dedicatoria a Guglielmo II ed il Campana si dichiara fautore della vittoria tedesca, non senza scandalo. Richieste spiegazioni, giustifica il gesto come risposta alle insulsaggini e menzogne udite a Marradi contro l'Alemagna, in favore degli alleati. Allora l'Intelligence Service diffondeva enormi accuse contro i Tedeschi suscitando loro dovunque nemici e il nostro popolo ne fu mosso in aiuto del Belgio [...]. Dino era stato non fatuo ma accorto nel respingere quelle fandonie; solo scelse male la protesta» (C. Pariani, op. cit., pp. 20-21).


 

Ma della rievocazione di Soffici non è tanto la savia glossa al lacerto addotto che richiede d'essere qui segnalata40, quanto la lucida definizione dell'opposizione irreducibile che sul tema dell'intervento ancora una volta si determina tra Campana e i fiorentini:

 

Era il tempo del principio della guerra europea e della nostra neutralità: l'invasione tedesca della Francia procedeva paurosa, allarmando tutti, esasperando molti di noi, nemici giurati della barbarie teutonica. Campana senza che se ne sapesse il perché, era l'unico raggiante in quell'atmosfera di tragedia. Col viso rosso e gli azzurri occhi scintillanti, balzava fuori delle nostre apprensioni esasperate alla lettura degli ultimi telegrammi, e fissandoci a uno a uno, con arroganza e con un senso dell'opportunità che innamorava:

- La sola cosa che invidio - urlava - è la bellezza e la gioia dell'ulano che entra primo a cavallo in una città francese41.

 

E se pure le opzioni « ideologiche » di Campana, a Firenze non meno che a Marradi, sembrino implicare una così deliberata volontà di provocazione e di scandalo da renderle, in certo senso, solo parzialmente attendibili, la testimonianza così misurata (e così poco « letteraria ») di Federico Ravagli intorno ai rapporti di Campana con i « goliardi » bolognesi a un'altezza cronologica (autunno 1914) vicinissima a quella delle tranches de vie marradese e fiorentina registrate da Soffici documenta in modo inequivoco la sostanziale estraneità di Campana, nei primi mesi di guerra, ai motivi dell'interventismo intesista:

 

In quelle prime giornate vibranti di attesa e di speranza, Campana fu con loro, restò con loro. Non partecipò alle dimostrazioni interventiste; ma aprì agli amici il proprio animo con inconsueta effusione. Asseriva che l'Italia non doveva restare estranea al conflitto, ma sulla opportunità d'una guerra a fianco dell'Intesa britanno-gallica faceva le sue motivate riserve. Certo è che non dimostrò né eccessivi entusiasmi, né troppo scettici atteggiamenti42.

 


40 « Spiegazione inaudita: che spiegava specialmente Campana, dopo aver fatto ridere. Giustificata forse anche dall'ambiente di Marradi; ma ciò che a Marradi poteva andare, a Firenze, e in quei giorni, poteva invece generare equivoci seri » (« Gazzetta del Popolo », 30 ottobre 1930, p. 3; Opere, cit., VI, p. 89).

41 « Gazzetta del Popolo », 30 ottobre 1930, p. 3; Opere, at., VI, pp. 87-88.

42 F. Ravagli, op. cit., p. 148.


 

Non sarà dunque arbitrario ricorrere proprio ai ricordi del Ravagli come alla decisiva piene de touche su cui misurare lo scarto che si istituisce tra l'iniziale cautela di Campana di fronte al conflitto franco-tedesco e la tendenziale disponibilità filofrancese attestata da più d'una lettera campaniana tra il 1915 eil 1916: e non importa che la ragionata apologia del « vecchio spirito aristocratico francese » affidata alla lettera del 4 ottobre 1915 a Prezzolini:

 

Passando alla guerra trovo che il governo francese ha soppresso la quadricentenaria monarchica Gazette de France, ciò che significa che il vecchio spirito aristocratico francese minaccia di riprendere il sopravvento e di mettersi di nuovo a capo della cultura europea come fu sempre, anche per testimonianza dei tedeschi (Nietzsche).

Se questo fatto avvenisse, se questa coltura che adoriamo tornasse io le confesso che darei sul momento senza esitare la vita. Viva dunque la grande Francia. Questo presentimento appare in tutti i grandi tedeschi. Ricordi le ultime parole di Beetoven:

Nel sud della Francia, laggiù, laggiù. Era l'ideale della musica, dell'arte mediterranea che Nietzsche presentì e credè di trovare in Bizet. E questo presentimento si verificherà certamente perché Nietzsche e Beetoven, erano dei genii. Viva dunque la Francia. E chi, modestia a parte, comprende queste cose da noi? cioè le integra e le risente non le violenta, colla animalità del parvenu? Ci dondoliamo sulle anche come l'Italia nelle poesie di D'Annunzio che, poveraccio, dell'Europa moderna non capisce proprio nulla. Che pietà vedere la grande cultura in certe mani mezzane.

Ma se solamente si traducessero gli articoli umoristici che in Francia si sono scritti su D'Annunzio si avrebbe una lezione di buon gusto utilissima per noi che siamo fino alla gola nell'enfasi meridionale. Ed anche e più che altrove in Toscana che della semplicità e del buon gusto è stata sempre maestra in Italia e altrove43

 

venga sottoposta a una drammatica torsione nella citata cartolina a Boine del 18 gennaio 1916:

 

Il faudrait chercher en France un appuis contre les nègres d'ici qui paraissent monopoliser le génie latin qui est et sera demain la chose plus sacré qui existe sur la terre. Comme vous voyez je vous conjure de faire appels à vos amis français, et dites à mon nom tout se que vous voudrez. Puisque au moins demain la France existera encore c'est elle qui éritera de nous. Mediterranea ars44.

 


43 G. Prezzolini, II tempo della Voce , Milano-Firenze, Longanesi-Vallecchi, 1960, p. 694. Ma su D'Annunzio si veda ancora la lettera senza data a Carlo Carrà resa nota da quest'ultimo in La mia vita, Milano, Rizzoli, 19452, pp. 247-48:

«Mio Carrà, non ho potuto leggere il discorso del Vate. È troppo letterato anche nei migliori e peggiori momenti. A me sembra che sia la cloaca di tutto il letteratume presente e passato di tutti i continenti e non mi sento di ritrovarmi nei suoi discorsi. Il dolore del Vate non è il dolore del poeta: è senza nobiltà senza silenzio senza umiltà senza luce. Il Vate grammofono, quale meccanismo più tedesco di questo?

[. . .] La Magna parens frugum ha prodotto troppi contadini che hanno occupato le cattedre di estetica eccetera. E io non mi posso mai figurare il Vate senza grappoli, ortaggi, canestri, mitologici o no, con ironia benigna e gentile che nessun dannunziano avrà mai. L'Italia meridionale in specie, paese eminentemente agricolo, ha prodotto troppi contadini e questo ci ha fatto molto male, quasi quanto la cultura tedesca ».

44 « La Fiera letteraria », 27 marzo 1960, p. 1; Per una cronistoria dei « Canti orfici », cit., p. 44; OC, I, 162.


 

Ricondotte alle concrete « modalità » della biografia di Campana, le sue apparenti oscillazioni « ideologiche » sembrano ritrovare un'unità non surrettizia né estrinseca. Si riporti al più largo ambito dell'indagine del Matacotta la breve glossa che, nel referto del Pariani, Campana allega a un testo quale A M.N. [Mario Novaro], uscito nel maggio 1916 sulla «Riviera Ligure»45 («Era il principio dell'intervento, sono stato anche interventista »)46 :

Con tutti i progetti andati falliti, ma con una grande fede nelle sorti della sua patria [...], è tornato definitivamente in Italia e nel luglio lo troviamo a Marradi deciso ad arruolarsi. Ma all'Ospedale Militare viene riformato. Dino cade in un profondo scoramento. [. . .]

Improvvisamente Dino si risolleva. [. . .]

Ma l'euforia e l'entusiasmo durano assai poco. Presto lo riafferrano i malesseri fisici, ha dei disturbi renali e di nuovo alcune turbe mentali. Di nuovo odia il suo paese, vuole scappare e tornare all'estero. [. . .]

Nel novembre, Dino è ricoverato nell'ospedale di San Francesco a Marradi. La sua salute ha avuto un improvviso peggioramento ed egli si ripete le parole di Verlaine « la misere et le mauvais oeil m'ont fait une âme de vieux prisonnier »47.

La citazione da Verlaine ha per destinatario, nel dicembre 1915, Emilio Cecchi48: lo stesso Cecchi al quale tra il giugno e il luglio di quell'anno Campana si era rivolto con un « laconico biglietto »:

 

Ill.mo Sergente,

Venuto dalla Svizzera per arruolarmi le mando il mio saluto . . .

Dino Campana, ex-riformato49

 

Si faccia caso al singolare predicato che Campana riferisce a se stesso: esso documenta l'inizio, ancora apertissimo, di una vicenda il cui epilogo lascerà nella memoria lucidamente sconvolta di Campana un'eco dolorosa e profonda, non attutita dal trascorrere degli anni, se l'estrema testimonianza campaniana resa al medico Pariani (« Ero venuto in Italia dalla Svizzera per non disertare. In Italia videro ch'ero stato in manicomio e non mi chiamarono in servizio. Quindi restai a spasso in quel modo »)50 non sarà che l'ellittica ripresa di un tema continuamente e quasi ossessivamente riproposto a Novaro (12 aprile 1916):

 

I cari sciacalli del cupolone fiorentino finirono per disgustarmi del nostro paese ed ero in Svizzera quando venne la guerra. Ero riformato ma venni in Italia ad arrolarmi volontario e dopo dieci giorni passati all'ospedale militare del Maglio in Firenze fui riformato una seconda volta. Credevo di poter ripartire allora ma mi fu rifiutato il passaporto ed io dovetti restar prigioniero delle belve clericali del mio paese. 

 


45 D. Campana, A M.N., in « La Riviera Ligure », XXII, 4a s., 53, maggio 1916, pp. 529-30 (= OC, II, 287-89). Una diversa redazione autografa del testo, che reca il titolo Domodossola (in un secondo tempo cassato da Campana), è in F. Ravagli, op. cit., pp. 149-52 (l'autografa, di quattro pagine, è fotograficamente riprodotto fuori testo). La redazione di A M. N. apparsa sulla « Riviera Ligure » è accompagnata dall'epigrafe « poeta germanicus », giusta la richiesta rivolta da Campana a Novaro in una lettera senza data dei primi mesi del 1916: « La condizione della stampa è che non sia omesso: poeta Germanicus » (« La Fiera letteraria », 23 febbraio 1967, p. 8; Novecento letterario, cit., IX, p. 103).

46 C. Pariani, op. cit., p. 82.

47 « La Fiera letteraria »,» 31 luglio 1949, p. 3. Sugli stessi mesi si veda anche G. Gerola, op. cit., pp. 49-51.

48 La lettera citata dal Matacotta è in « Omnibus », 19 febbraio 1938, p. 3.

49 « Omnibus », 19 febbraio 1938, p. 3. La lettera è ripubblicata dal Matacotta, che indica genericamente il destinatario come «un amico romano» («La Fiera letteraria », 31 luglio 1949, p. 3). La formula « ex-riformato » è successivamente ripresa da L. C. Pieraccini, in Visti da vicino, cit., p. 205.

50 C. Pariani, op. cit., p. 54.


 

Mi ammalai gravemente e nessuno volle curarmi (dicevano che avevo un principio di nefrite per fregarsene)51, a Boine (19 aprile 1916):

venuto dalla Svizzera in Italia per arrolarmi benché riformato, e riformato una seconda volta allora in Giugno dopo dieci giorni d'ospedale militare, chiesi inutilmente un passaporto (l'unica cosa che i » abbia mai chiesto all'Italia) e mi venne rifiutato e restai prigioniero delle belve clericali del mio paese che naturalmente ne profittarono per finire di assassinarmi e avendo io la congestione cerebrale venivano a fischiare sotto le finestre dell'ospedale, e il medico per fregarsi di me diceva che avevo la nefrite. Quindi questa ignobile commedia dello spirito che si ridesta proclamata dai varii Conferenzo Cappa mi fa un profondo schifo52, a Cecchi (maggio 1916):

 

Tornai per arruolarmi volontario e dopo otto giorni di ospedale militare fui riformato per la terza volta e sono finalmente immobilizzato dalla paralisi53.

 

Se si isoli per un momento il lacerto citato della cartolina a Boine, apparirà evidente come la dialettica che in esso si istituisce tra « privato e « pubblico », con l'aggiunta di un sarcastico calembour destinato al patriottico « parlatore » Innocenzo Cappa54 , sia la stessa che, su un diverso piano, Campana stabilisce in una lettera a Soffici, riconducibile allo stesso giro di mesi, che non mi sembra inopportuno riprodurre qui, in epigrafe; anche in questo caso, i consueti riferimenti autobiografici:  

 


51 « La Fiera letteraria », 23 febbraio 1967, p. 8; Novecento letterario, cit., IX, pp. 103-04. Non è necessario sottolineare i nessi tematici tra la cartolina citata a Novaro e la successiva cartolina a Boine. Ma sulla malattia di Campana nell'estate 1915 si vedano altre due lettere cronologicamente anteriori: la prima, del 25 dicembre 1915, a Novaro, la seconda, del febbraio-marzo 1916, a Cecchi:

« Intanto crepavo a Firenze per un principio di paralisi vasomotoria al lato destro e quei fiorentini mi hanno sempre rifiutato l'entrata in un ospedale. Ora mi rimetto da me. Allo sgelo sarò in grado di scavalcare le Alpi svizzere se sarà necessario. Sappia intanto che ero in cura per nefrite avendo la congestione cerebrale durante un mese nell'ospedale locale. Ora finalmente dopo due mesi ho dovuto attaccarmi le sanguisughe da me, ultimo avanzo dei barbari in Italia» («La Fiera letteraria», 23 febbraio 1967, p. 7; Novecento letterario, cit., IX, pp. 97-98);

«La salute va al solito. Un po' di gonfiore al lato destro e brividi. Sono stato quaranta giorni all'ospedale di qua, dove per fregarsi di me hanno detto che avevo la nefrite ! Le assicuro che se vivo è tutta testardaggine mia. Mi lascio vivere in un disgusto e una noia mortale. Ecco quanto vale e varrà per me ...» (« Omnibus », 19 febbraio 1938, p. 3ģ, Visti da vicino , cit., p. 205).

52 II brano citato e tratto da una cartolina postale medita, indirizzata a « Giovanni Boine / scrittore / Portomaurizio / (Liguria) » (timbro postale di partenza: Livorno-Empoli-Firenze, 19 aprile 1916; timbro di arrivo: Porto Maurizio, 22 aprile 1916), compresa tra le carte boiniane possedute dalla Biblioteca Comunale di Imperia: lo si riproduce qui con il cortese consenso del direttore, dott. Guido Sanlorenzo.

53 « Omnibus », 19 febbraio 1938, p. 3.

54 Sul ruolo di Innocenzo Cappa nel dibattito sull'intervento è indispensabile il rinvio alle sue Confessioni di un parlatore (Milano, Treves, 1938).


 

« come saprà ero venuto in Italia per la guerra, ma la mia partecipazione non è stata ritenuta necessaria ») appaiono immediatamente funzionali a una riflessione sulle vicende belliche della quale non si potrà disconoscere la singolare acutezza:

Pensi, egregio Soffici, la situazione intollerabile che si produrrà in Italia per qualche anno come immediata conseguenza della guerra. Tutti i mangiapane ultimi venuti che daranno fiato agli organi magni della cultura per scoprire quello che noi sappiamo benissimo per averlo imparato a nostre spese senza tanto chiasso, e che tutto questo sarà più difficile a sopportare del disprezzo e del silenzio in cui almeno si poteva lavorare. Non intendo affatto di disprezzare quello che si produrrà nella nostra cara patria ma purtroppo per noi fratelli maggiori è ben facile fin d'ora di prevederlo senza sforzo e a noi che sappiamo che tutto è sforzo individuale sembra già enormemente stupida e ridicola l'idea di un miracolo nazionale prodotto dal meccanismo della guerra55.

 

È certamente arbitrario rinvenire in un simile brano una prefigurazione, sia pure casuale, dell'involuzione della cultura italiana nel'iimmediato dopoguerra e dei suoi rapporti con la crisi dello stato liberale; a tali responsabilità Campana non potrebbe far fronte in alcun modo. Un dato, però, emerge con forza anche da un excerptum tanto breve: la radicale indisponibilità di Campana a lasciarsi coinvolgere nelle spire di una organizzazione del consenso divenuta, nei mesi successivi all'intervento in guerra dell'Italia, letteralmente totalitaria.

Non è senza qualche istruttiva ironia che giusto nel maggio del 1916, nell'imminenza della caduta di Salandra e della formazione del governo di union sacrée presieduto da Boselli, Campana provveda a cambiare ancora una volta le carte in tavola, e rovesci la recentissima apologia del « génie latin » e della « Mediterranea ars » nell'irridente esibizione delle proprie credenziali di « poeta Germanicus », rivendicando ai Canti orfici l'ufficio (ed il merito) di « aver [. . .] conservato la purezza morale del Germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia »56. In tempi di distruzione della ragione tocca forse ai « poeti pazzi » metterne in salvo, per vive coperte, i segni superstiti.

 

Franco Contorbia

 


55 A. Soffici, Lettere inedite di Dino Campana, in « Corriere d'informazione XIV, 178, 28-29 luglio 1958, p. 3; Per una cronistoria dei «Canti orfici», cit., p. 51; OC, I, 171.

56 Della lettera edita in « Omnibus », 19 febbraio 1938, p. 3, e, parzialmente in Visti da vicino, cit., pp. 202-03) si veda anche il lacerto immediatamente successivo: 

« Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante, Leopardi, Segantini). Così io invocavo giustizia contro la brutalità secolare clericale e popolare e già tre anni fa sapevo, e le giuro che sapevo, che la storia mi avrebbe dato ragione ».