Virginia Tango Piatti 

 

Pagina dal diario di bordo dell’avventurosa esperienza di un libro

 

di Gigliola Tallone

 

Gennaio 2008

 

www.archiviotallone.it

 

Già pubblicato su www.transfinito.it

 

 

 

 

“Brillano qua e là fuochi fatui

nel cimitero della mia vita,

fosforo dei miei Morti, i miei

Morti che tutti in me si agitano,

che non vogliono si disperda

quel ch’essi han lasciato in me,

offerta di coscienza e d’amore,

fiori di gioia già devastati,

aneliti che s’accendono e spengono inutilmente. [...]”

 

V.T.P.

 

 

Così inizia la poesia di Virginia Tango Piatti, un testamento spirituale che annulla le barriere temporali del passato e presente, e chiama a testimoni i suoi predecessori, le entità di spirito e sangue che non differenzia per valore coi propri discendenti. Trovata tra le carte di famiglia che corrono per un lungo arco di tempo, questa poesia è stata probabilmente scritta l’ultima volta in cui Virginia si è fermata nell’amata casa avita ad Alpignano, proprietà della sorella Eleonora Tango Tallone, a cui Virginia sopravvisse per un ventennio.

Siamo intorno al 1954 quando, all’età di 85 anni, si trasferisce a Lugano prefissandosi il compito di riordinare le cose tralasciate, non ultimo le poesie che per la sua natura generosa e altruista ha trascurato, e ripubblicarle insieme alle poche date alla stampa. Si ripropone anche di fare una riedizione del suo “primo ingenuo libro”, Le reliquie di un ignoto.

E questo movimento dell’anima circolare non mi è nuovo in famiglia, già mio nonno, il grande pittore Cesare Tallone, ahimè con un intento frustrato a pochi mesi dalla morte, cercò di rivedere il suo primo e ultimo dipinto storico, figlio dimenticato e omaggio all’Accademia, là dove era stato appeso il 1883, nella casa del principe Borghese a Roma.

Così per Virginia, il riassunto della sua operosa e difficile vita deve partire dalle radici alle quali si sente in dovere di rispondere.
Ho trovato la poesia tra un mucchietto di fogli impalpabili e ingialliti, persino graziosamente rosicchiati ai margini. Leggero fardello per duecento lettere della corrispondenza di famiglia, e di amici e conoscenti dell’ambiente culturale fiorentino vicino a Virginia, che hanno il peso incommensurabile della storia che raccontano. Ho già consegnato nel recente passato a Transfinito una breve sintesi delle mie ricerche, con l’impulso di far conoscere subito una persona davvero speciale, di cui andavo disegnando un’identità sempre più delineata dalle successive scoperte e acquisizioni di documenti. Ma in nessun modo senza le sue lettere avrei potuto cogliere il suo respiro, sentirne il polso, leggere insieme alle sue parole, scritte con segno ordinato e elegante, i suoi pensieri, le sue ansie, il suo carattere, i suoi affetti.

E tutto sovrapposto e armonicamente coincidente ai pochi ricordi della mia infanzia, come una risposta a quella vaga emozione e curiosità viva che mi hanno accompagnato sempre.

Il biografo ha l’enorme responsabilità di svolgere una seconda volta il filo di una vita, seguendo quei segni già stabiliti che vanno ritrovati.
Al contrario della memoria affettiva che si concentra su temi ben caratterizzati e atemporali, quasi tra intimi discendenti si voglia cancellare la rottura dai propri cari, e raramente si citano date e cronologie degli eventi, scrivere una biografia vuol dire testimoniare. Col figlio di Virginia, mio adorato amico, fratello e confidente, mai ricordo d’aver parlato della morte della madre, né dove né quando. E allo stesso modo, parlando di mio padre, dei nonni e tutti i nostri cari, si ricreava quel consesso di similarità, noi e loro, ancora presenti nella nostra vita.

Per la monografia di mio nonno Cesare Tallone, cognato di Virginia, avevo dovuto ricostruire l’albero genealogico fino alla quarta generazione, ma la data e il luogo in cui Virginia era mancata rimaneva un mistero. Sette anni di ricerche infruttuose, e poi appaiono finalmente quelle lettere rimaste sepolte in una vecchia valigia sotto altre carte più recenti, scoperte per caso durante un trasloco di una cara parente ad Alpignano, dopo la mia sollecitazione a cercare cercare cercare lanciata ai collaterali, io frustrata dalla necessità di rintracciare documenti, per così dire di riporto, negli archivi di mezza Italia.

Da una sua cartolina diretta a un parente, forse la sola con la scrittura fragile e incerta, ricostruisco l’itinerario degli ultimi mesi della sua vita, mi aggrappo alla fortuna di rintracciare ancora funzionante la casa di riposo in cui era stata ricoverata, telefono a tutta la gerarchia di efficienti suore fino alla madre superiora e vengo a conoscere il giorno in cui lascia la Casa di San Giuseppe di Lugano; ipotizzo che possa essere stata ricoverata in ospedale e finalmente scopro che è spirata all’ospedale italiano di Viganello il 7 luglio 1958. Era nata a Firenze il 21 settembre del 1869.

Ma le due date che segnano l’arco temporale di una vita, non la chiudono, anzi, sono principio e fine di altre fini e altri principii, rivelano la continuità col passato e futuro. Il tempo dilatato di una ricerca moltiplica le connessioni, e le gugliate si intrecciano, fino a disegnare una trama e poi un disegno chiaro di un arazzo in cui sono anch’io, consaguinea, rappresentata.

Quel filo viene tessuto insieme a quello di altre vite, di nonni e di madri e padri e figli, di fratelli e sorelle, di nipoti e mariti e amici e nemici.
Una vita originale, unica, irrepetibile è però sustanziata e sustanziale da e ad altre esistenze.

Ho richiesto il certificato di questa donna straordinaria che andavo stimando e amando sempre di più, come fossi in tempo ad abbracciarla durante il suo ultimo respiro.

Poetessa, scrittrice, scultrice, pianista di talento, giornalista lucida e intemerata, coraggiosa pacifista, indomita antifascista, Virgina, colpita da censura e persecuzione in vita, era andata sfumandosi nel dimenticatoio.

Questo breve articolo vuole essere solo una pagina del diario di bordo sui suoi passi, in cui risuonano anche i miei e quella dei miei cari, uniti tutti da un sentimento forte di appartenenza.

Lavorare secondo un attento metodo filologico, tanto più attento quanto procede da me consanguinea, costringe a uno sforzo di obbiettività per mettersi in giusta prospettiva. Lavoro dapprima eterogeneo e caotico sfilacciato per temi e epoche, vuoti che diabolicamente costringono a fermarsi e girare intorno al gorgo, afferrarsi all’intuito, procedere per tentativi, alzarsi dal letto per segnare la prima cosa da fare al mattino, mettendo a dura prova i tuoi interlocutori, e a dura prova i tuoi occhi durante giorni e giorni in biblioteca e visite in archivi.

Poi arriva la luce che organizza, riempie di senso, ottiene finalmente quella sequenza cronologica prima discordante, mentre in sottofondo, sempre, come un metronomo, pulsano i sentimenti e il temperamento di chi da oggetto della tua ricerca, si fa soggetto sempre più chiaro e presente.

Poi quel soprassalto, nel tono, nel ritmo, nel senso di quelle certe parole scritte da lei proprio in quell’ordine e nessun altro, che rieccheggiano il senso familiare di una frase, e ne disvelano quel filo conduttore che inestricabilmente ci unisce tutti.
Quel “fosforo” che è genetico ma anche psichico, quel tal modo di interpretare la vita in cui rivedo me stessa, il figlio di Virginia, e mio padre e i suoi fratelli.

La responsabilità nei confronti di chi ci ha preceduto fa parte della nostra vita, ci accompagna in quel rapido corso della nostra corrente animica come l’ombra confortante di una sponda verde che si riflette e gioca sull’acqua. Non siamo soli.

 

 

“[...] Ore ed anni, tutti pel mio pensiero.

Tutto ciò che ho sparpagliato al vento riunire,

riunire per l’ultimo viaggio.

Dare ai pochi viventi che amo

togliendone il succo della mia squallida sofferenza,

dare le norme del vivere in sanità ed in bellezza,

dare alla luce figlioli-pensiero che amo,

seguire in armonia la mia giornata.”

 

V.T.P.