Alfredo Giuliani con Giuseppe Ungaretti, nel 1961

 

 

CAMPANA, MISTERO PAZZO

 

 

AVEVO QUALCHE ARTE MA POI NON NE HO PIÙ

 

di: Alfredo Giuliani

 

da: La Repubblica, 20 agosto 1985

 

 

Come videro Campana i più fini, i più acuti dei suoi coetanei? Emilio Cecchi: accanto a Campana, che non aveva affatto l' aria del poeta e tanto meno del letterato, ma d' un barocciaio, "si sentiva la poesia come fosse una scossa elettrica, un alto esplosivo". Camillo Sbarbaro lo rievocò sempre sospinto da un "malo vento". L' aveva conosciuto a Firenze nel quattordici: "Sghignazzava; moveva le membra disordinatamente. Un disagio nasceva intorno a lui come potesse di punto in bianco, sventatamente, cavar di tasca qualche cosa d' insanguinato".

 

Tra le prime recensioni dei Canti orfici, piglio memorabile ha quella di Giovanni Boine: per il suo stesso impaccio, con quel che di elementare e d' ingenuo che la cultura ha lasciato in lui e nel suo stile, questo Campana è se dio vuole "un pazzo sul serio". Non mancano, notava il recensore, le pagine limpide, le impressioni serene sotterraneamente commosse, i "tremiti di lievi colori". Ma insorge presto una ossessione, una febbre che divora le immagini, un fuggire di fantasmi, "una poesia allucinata non sai di che fatta", che ti trascina "chissà dove per disperazioni d' irrealtà".

I coetanei di Campana avevano colto l' essenziale? Il suo stile, come appare anche a noi oggi, è uno squilibrio appassionato, deriva da una instabilità feroce, da un abbandono drammatico al fantastico, all' inesprimibile, all' invasione delle immagini nell' impeto inquieto o nella bonaccia saltuaria della mente. E' l' ondeggiare dell' energia tra tante possibilità di stile. Nei taccuini e nelle carte pubblicate postume, sono alcuni aforismi di sapore vociano, alquanto sgangherati o inabili. A noi interessa questo: "Su qual terreno potrebbero intendersi p. es. Baudelaire e Palazzeschi?Povera nostra poesia!". Già, ma Campana non s' accorgeva d' essere proprio lui il dissestato terreno dove s' accavallavano bizzarramente le più stranite mescolanze. Tra Rimbaud e Carducci, tra Baudelaire e Whitman, tra D' Annunzio e i futuristi, tra Nietzsche e Schurè (l' autore dei Grandi iniziati), Campana non sceglieva. Il suo spirito ardente, torvo, generoso, disordinato, s' impregnava di tutto e si spurgava di tutto.

Poi, maniere di stile sempre provvisorie, cangianti, a volte miracolosamente trasfigurate, sgorgavano a fiotti, a cascata, a mozza-respiro, dalla sua scrittura, come fenomeni naturali. Uno come Campana non poteva che seguire le istintive chimere musicali e plastiche della propria angoscia. Nei pochi anni creativi vagava, "pieno di canti soffocati". Di tanto in tanto era capace di fermarsi, di concentrare l' energia sulla scrittura. Poi era ripreso dalla smania del nomadismo. E non si deve credere che fosse soltanto un andare selvaggio.

Nel 1915 scrive a Soffici da Ginevra: "Ho trovato alcuni studii, purtroppo tedeschi, di psicanalisi su Segantini, Leonardo ed altri, che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassunto per Lacerba". Che specie di "pazzo sul serio" era questo Campana? Tra le frasi lucide e fin troppo sensate dette al medico Pariani, che lo interrogava in manicomio tanti anni dopo l' internamento, una è straziante e rivelatrice: "Avevo qualche arte, ma poi non ne ho più". Potrebbe suonare come una risposta cortesemente scorbutica per troncare lì l' argomento. In manicomio Campana non fu mai tentato di scrivere; e del resto, tranne sporadici e brevi sussulti, ne aveva perso la facoltà anche prima d' essere internato. Ma non aveva affatto perduto la memoria.

E la percezione di ciò che aveva scritto un tempo ormai lontano era vivida e perspicua nei particolari. I suoi commenti alla ristampa di Vallecchi (Canti orfici ed altre liriche, 1928) sono precisi, coerenti, e distinguono con tranquilla sicurezza le cose, le persone, le circostanze, le immaginazioni di ogni poesia. Perchè quella frase - "Avevo qualche arte, ma poi non ne ho più" - non ce la siamo mai potuta levare dalla testa? Perchè significa la perdita irreparabile dell' energia fantastica che fa la poesia, che fa pensare le parole e le trasforma in materia sonora, in ritmi, visioni, messaggi da decifrare. Ora, la "qualche arte" di Campana consisteva proprio nell' infondere un provvisorio vigore, una grazia malsicura, alla instabilità o indecisione stilistica che lo accompagnava.

Perchè se avere uno stile, o anche una maniera, è una costrizione, è una costrizione forse peggiore il non averlo, il doverlo reinventare, sperimentare ogni volta. Eppure, nella randagia instabilità c' è qualcosa che persiste. Eppure, d' istinto, indocilmente, quasi da naf, Campana uno stile lo assume e, si potrebbe dire, lo sproporziona e stravolge. Egli rapisce gli ultimi fuochi al simbolismo liberty. E con questi tizzoni languenti accende una vertigine di paesaggi drammatici, di stati d' animo primitivi e insofferenti di limiti e di forme.

La musica di Campana, densa di colori e di echi, di esaltazioni che si consumano in nostalgie paniche, è una musica di emigrante: "sorgeva un torreggiare / bianco nell' aria: innumeri dal mare / parvero i bianchi sogni dei mattini / lontano dileguando incatenare / come un ignoto turbine di suono" (Genova). Solo un minimo esempio della visionarietà effusa in astrazione, e che tanto piacque agli ermetici negli anni Trenta. Penso anche a un poema in prosa che arieggia al cubofuturismo: Passeggiata in tram in America e ritorno. E' un collage di memorie, una fuga scandita di impressioni violente, ha del montaggio cinematografico:

 

"Riodo il preludio scordato delle rozze corde sotto l' arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di carbone misto al nauseante odor d' infinito. Fumano i vapori agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di carcasse delle lente file umane, formiche dell' eterno ossario".

 

Ma accanto al Campana che faceva un po' paura a Boine e al fanciullino Sbarbaro, il Campana allucinato e provocatore di disagi, c' era un Campana segreto, di soave semplicità, che fu rivelato soltanto dagli inediti. E' difficile restare sordi a Donna genovese:

 

"Non amore non spasimo, un fantasma / un' ombra della necessità che vaga / serena e ineluttabile per l' anima / e la discioglie in gioia, in incanto serena / perchè per l' infinito lo scirocco / se la possa portare. / Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!".

 

Dico la verità, mi piace più questa che tutte le poesie di Saba. Ha uno slancio di naturalezza suprema. Ma non è che un momento. E non sono stupende le quattro poesie per Sibilla Aleramo, probabilmente tra le ultime cose scritte da Campana? Il senso forte e rovinoso del tempo è stato mai cantato in una poesia d' amore con altrettanta leggiadria, da un moderno?

 

"In un momento / Sono sfiorite le rose / I petali caduti / Perchè io non potevo dimenticare le rose / Le cercavamo insieme / Abbiamo trovato delle rose / Erano le sue rose erano le mie rose / Questo viaggio chiamavamo amore / Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose / Che brillavano un momento al sole del mattino / Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi / Le rose che non erano le nostre rose / Le mie rose le sue rose // P.S. E così dimenticammo le rose".

 

Uno "pazzo sul serio" avrebbe scritto questo delizioso fregio liberty sulla tomba dell' amore? Questo Campana aveva "qualche arte" e la perdette non si sa come. Forse non s' adattava al mondo, si sentiva braccato e crollò nel marasma, nella nevrastenia. Forse fu la sifilide.

Certo è che della pazzia e della poesia sappiamo pochissimo o niente, e solo a cose fatte ci scappa di giudicare.