Dino e Antonia

 

di Emiliano Cribari

 

 

Milano e Marradi. Le Alpi e l’Appennino. Antonia Pozzi e Dino Campana. Due anime inquiete. Due poeti. Siamo agli inizi del Novecento.
Dino, in montagna, non cammina: fugge. Antonia invece ammira. Estasiata. Verso l’unico grande amore corrisposto della sua vita: la montagna. In alto, Dino cerca un riparo: in paese lo chiamano il matto; morirà in manicomio (di setticemia) dopo quattordici anni di reclusione. È il 1 marzo 1932. Antonia no: sceglierà dove morire. "Ho visto un pezzo di prato libero che mi piace" scriverà nel suo diario un anno prima. "Pensare di essere sepolta qui non è nemmeno morire, è un tornare alle radici. Ogni giorno le sento più tenaci dentro di me.
Le mie mamme montagne".

 È il pomeriggio del 2 dicembre 1938 quando il suo corpo, quasi arreso ai barbiturici, viene trovato nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle: Antonia è in coma. Provano a portarla al Policlinico ma niente, è finita. Un medico, un amico di famiglia, riesce a farla ritornare a casa, dove Antonia morirà il giorno seguente. "Deve essere qualcosa di nascosto nella mia natura" scrive a sua madre e a suo padre nel suo testamento. "Un male dei nervi che mi toglie ogni forza di resistenza e mi impedisce di vedere equilibrate le cose della vita. Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita". Spese la sua vita innamorata, l’Antonia, senza mai fiorire. Una gemma bruciata da continue gelate. Dino, quando avvertì che tutto era finito, dedicò ogni energia a un solo scopo: quello di essere pubblicato.

I suoi Canti uscirono nel Quattordici, stampati (grazie a una colletta) su carta giallina, inguardabile. Antonia neanche questo, vide. Nell’autunno del Trentaquattro dedicò alcune poesie all’amico Remo Cantoni, di cui era innamorata e a cui, tradendo per una volta la propria timidezza, le offrì coraggiosamente in lettura. Ma l’amico restò tiepido, anche più di Soffici e di Papini quando una gelida mattina di dicembre si videro porgere da un uomo vestito di stracci un manoscritto intitolato "Il più lungo giorno". Era l’uomo dei boschi: Dino Campana. Così, còlta anch’ella - in maniera diversa da Dino - da una sorta di smania di riconoscimento, Antonia va a casa del suo professore di filosofia, Antonio Banfi, con un plico di liriche intitolato "La vita sognata". Le legga, la prego. Ma neanche Banfi si infiamma, e anzi consiglia all’Antonia di dedicarsi alla prosa.

Per lei è un colpo durissimo. La sua anima vacilla ma il suo corpo vibra, cerca perdutamente le montagne. Le montagne dell’Antonia sono guglie, ghiaioni, pareti innevate. Sono albe smisurate, scalate, notti in tenda, stellate, profumi fragranti di fiori. Alpi e Dolomiti. Quelli di Dino, invece, sono i seni materni della terra: l’Appennino. Dove lui sa come è arduo, da viandante, sopravvivere. Non ha che il suo libro, Dino. Mentre l’Antonia, figlia d’alta borghesia, deve addirittura litigare con suo padre e con sua madre perché vuole lavorare. In montagna l’Antonia va in ferie. Più volte all’anno. Ma ciò non toglie nulla alla sua poesia. Anzi. Accresce il logorìo. S’insinua ovunque, il tormento. Lui, Dino, scrive come può, quel che può, dal Giogo di Castagno, mentre lei - quando le miti lettere alla famiglia cedono il posto alla poesia - descrive sé e le sue montagne dai luoghi più in voga: Madonna di Campiglio, Champoluc... Se penso all’Antonia, però, io penso alla Grigna, ai suoi occhi che in fondo, ovunque siano, appartengono alla luna che la notte fa d’argento la montagna di casa. Né per lei né per lui (ovviamente) la montagna è mai stata una sfida, ma anzi il luogo dello spirito, una sacra possibilità offerta all’anima.

La montagna spirituale di Antonia Pozzi e di Dino Campana. Sì: anche se lei dorme in hotel e lui fra i cinghiali, per terra, dove può. Lui brancola perché si è perso; lei arrampica, scia, per cercare di non perdersi.

A volte li vedo camminare, insieme. Lui rozzo e felice. Lei elegante e felice. Elegante, libera e felice.