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Giovanni Papini: Il poeta pazzo 

 

Da: Passato remoto  (1885-1914),  Firenze, L'Arco, 1948

 

Si fa un gran parlare, oggi, del poeta Dino Campana, e v'è un alacre lavorio intorno alla sua parva opera: edizioni critiche, stampe d'inediti, studio di varianti, saggi esegetici e biografici, tesi di laurea. Siccome fui dei primi a pubblicare cose sue in Lacerba e il primo a farlo figurare in una antologia, voglio dire come lo conobbi e quale immagine mi resta di lui.

Scrisse a Lacerba nel '13 ed io e Soffici ci accorgemmo subito che non era un de' tanti sconosciuti burbanzosi vestiti di falsa umiltà che mandano le loro ejaculazioni verbali alle riviste. Il primo incontro con lui avvenne una mattina d'estate nel piccolo Caffè Chinese ch'era presso alla vecchia stazione demolita.

Ci trovammo dinanzi un uomo ancor giovane, dall'aspetto un po' goffo del tarpano inurbato, dagli sguardi sbalestrati, ora candidi come quelli di un fanciullo, ora sospettosi come quelli di un inseguito. Si parlò di poesia e ci dette alcuni suoi manoscritti. Si capì che aveva girato molto per il mondo, più per disperazione che per ricerca, e che conosceva abbastanza la moderna poesia francese. Si capì, soprattutto, ch'era un malato di spirito e non soltanto assalito dal sacro morbo della poesia. Ma noi, a quel tempo, si preferiva di gran lunga i pazzi ai sani sicché si fece buon viso a lui e alle sue tormentate prose.

Si seppe ch'era nato a Marradi da un povero maestro di scuola, che anche lui aveva studiato per maestro (sic), che era fuggito dalla famiglia e dal paese, facendo qua e là la vita del nomade pedestre e sognante, che aveva passato un certo tempo in Francia e in Argentina.

Più tardi venne a stare a Firenze e ci s'incontrava spesso, al caffè o per la strada. Aveva un continuo bisogno di uscir di casa, passeggiava giorno e notte, specialmente lungo l'Arno, e passava ore e ore seduto sulle spallette del fiume. A volte cercava la compagnia della gente, a volte la sfuggiva e guatava in cagnesco chi si arrischiava a turbare la sua solitudine. V'eran giorni che si spassionava a discorrere di sé e dell'arte, saltando volentieri di palo in frasca; in altri giorni era muto e assorto, guardingo e inconversevole. Nelle discussioni era, di solito, violento e quasi minaccioso. Di rado rideva e il suo riso era triste e a fior di labbra. Quasi sempre era accigliato e soprappensiero, come se cercasse di sgomitolare un bozzolo duro e non riuscisse di venirne a capo.

Capitava spesso alle Giubbe Rosse, al Paszkowski e al Gambrìnus e offriva in vendita il suo libriccino dei Canti Orfici, poveramente stampato a Marradi. Ma prima di consegnare il volumetto al compratore lo fissava bene in viso eppoi sfogliava il libercolo e qua e là strappava delle pagine. - Queste - diceva - non sono adatte per lei ed è inutile che le veda.
Mi ricordo, anzi, che nell'esemplare venduto a Marinetti lacerò quasi tutte le pagine.

 

A me dette, però, un esemplare intatto, con una sua dedica. Mostrava di tener molto alla dedica "all'ultimo dei tedeschi" ch'è in fondo al libro e non ho mai capito bene quella sua strana ammirazione per la Germania. Forse egli s'immaginava d'essere di ceppo nordico e difatti, con la sua barba biondofulva e i suoi occhi celesti, sembrava più germanico che mediterraneo. Sapeva abbastanza bene il tedesco e io, per aiutarlo, gli avevo dato da tradurre un'operetta filosofica per la collezione Cultura dell'Anima da me diretta. Ma per quanto gli avessi dato via via qualche piccolo antìcipo per quel lavoro non si decideva mai a consegnarlo.

Affermava, però, di averlo finito e un giorno, per sincerarmene, salii alla cameretta dove abitava. Messo da me alle strette tirò fuori un fascio di fogli scritti ma, con mia grande meraviglia, la parte inferiore delle pagine era bruciata e quella di sopra abbronzata dalle fiamme. Mi disse che aveva buttato nel fuoco il manoscritto e che poi l'aveva ripreso, arso a metà, per farmi vedere che non aveva detto la bugia, ma che però non voleva rifare né pubblicare quella traduzione.

Lo invitavo talvolta a mangiare a casa mia, con altri amici, ma di solito arrivava tardissimo, quando già s'era lasciato la tavola, e non voleva accettar nulla, nonostante le preghiere mie e di mia moglie. Diceva che s'era ricordato troppo tardi dell'invito e ch'era venuto soltanto per ringraziare.

Ogni tanto tornava al suo paese, forse perché non riusciva a vivere in città, o per altre ragioni. Una volta mi scrisse da Marradi per richiedere certi suoi manoscritti ch'egli diceva di avermi dato. Gli risposi il vero, cioè che non avevo nulla di suo e che si ricordasse meglio a chi l'aveva dati. Mi riscrisse, allora, una lettera furibonda, nella quale mi annunciava che sarebbe disceso a Firenze "con un acuminato coltello" per riavere, con le buone o con le cattive, quei suoi preziosi scritti.

Io replicai che venisse pure e che l'aspettavo tranquillo perché a me non li aveva consegnati ed io non potevo restituirgli quel che non avevo. Ma poi non ne fece di nulla e, passato un certo tempo, si rivolse ancora a me perché gli trovassi a ogni modo un impiego, per liberarsi da un legame che gli era venuto in odio. Purtroppo io non avevo posti da offrirgli e non sarebbe stato facile trovarne uno per un uomo tanto irrequieto e stravagante.

Per un pezzo non seppi più nulla di lui e non si fece più vedere. Appresi poi, con dolore ma non con stupore, che nel '19 (sic) era stato rinchiuso, come infermo pericoloso, nel manicomio di Castelpulci dove morì nel 1932. La pietà di alcuni suoi ammiratori - tra i quali, primo, Piero Bargelini, - gli apprestò un degno sepolcro presso la chiesa della Badia a Settimo. All'inaugurazione di quest'ultimo asilo del poeta pazzo assisteva il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, in mezzo a una turba di letterati d'ogni parte e d'ogni scuola.

Io, come ho detto, ristampai alcune pagine sue nell'antologia dei Poeti d'Oggi uscita nel 1920, quando il Campana era ancor vivo, perché mi sembrava che la sua poesia, benché ineguale e frammentaria, avesse un suo singolare significato e meritasse di non essere dimenticata. Ma confesso che non mi aspettavo l'infatuazione di questi ultimi anni attorno alla sua opera.

Dino Campana aveva indubbiamente alcune delle qualità che fanno un poeta: una sensibilità un poco torbida e insana ma che palpava il mondo al dì là del convenzionale; una fantasia nostalgica che talvolta si scioglieva in risonanze inconsuete; una sorda angoscia che raramente riusciva a liberarsi in un grido ispirato.

Ma troppe, secondo me, gliene mancavano e principalmente quella coscienza e dominazione di sé che sola fa giungere alla felice affermazione del canto. V'erano in lui molti accordi, accordi più suggeriti che vittoriosamente espressi, ma non c'era mai la pienezza spirituale della musica, rapitrice dell'anime.

Ma quegli stessi difetti, ch'eran dovuti al suo disordine mentale, son parsi, in un tempo che ha dimenticato la genuinità della poesia perenne, segni e avviamenti di nuova esperienza poetica. Agli ermetici italiani piaceva di avere un precursore che non fosse, come gli altri, francese o inglese, benché nel Campana siano visibili gli influssi di certa lirica gallica o germanica.

E alla fortuna dell'opera del Campana hanno contribuito, anche, ragioni esteriori: il ricordo della sua vita errabonda e misteriosa; il suo finale inabissamento nella follia. L'Italia, ch'ebbe grandi poeti ma è povera di poètes maudits, fu soddisfatta di averne uno indigeno, a portata di mano, un facsimile di Hoelderlin il fuggiasco impazzito, di Rimbaud il randagio frenetico.

Dino Campana resterà, credo, nella storia della nostra poesia del Novecento ma, passate le smanie della moda, in un cantuccio assai più appartato di quello che vorrebbero assegnargli gli aficionados dei nostri giorni.