In gennaio, sui monti di Dino Campana

 

di Andrea Benati

 

 

In gennaio pochi si aggirano a piedi in Appennino.

L’escursionista (anzi, perbacco, il trekker) che si presume ferrato (cioè smart), e magari anche adeguato (trendy), per tale ritrosia accampa pretesti di freddo, scarsa luminosità, giornate corte, biocenosi intorpidite e quant’altro. E ne ricava un bilancio costo/beneficio demotivante, che può essere rimesso in discussione tutt’al più dalla variabile “neve”, ma con conclusioni non sempre univoche, comunque controverse e neppure tutte veramente ‘sostenibili’ (green).

Il camminatore de corazòn (termine la cui paternità, in ambito campaniano, ben conosce chi qui ci ospita...) è invece consapevole di poter trovare sui monti, almeno quelli toscoromagnoli, proprio in gennaio, un’aria asciutta, non di rado meno fredda della nebbiosa bassa di provenienza, attraversata dal nitore di una luce radente e irradiata da un sole ragionevole, bonario e complice. Se poi il freddo si fa davvero sentire, il nostro camminatore sa bene che il rimedio (banalmente… coprirsi) è più agevole di quelli contro l’implacabile canicola estiva. Sa di poter trovare grandi orizzonti, con l’ampiezza e la profondità delle prospettive consentite da castagneti e boschi di latifoglie ora in riposo e quindi “trasparenti” o quasi. E una pace primordiale. Sa che suderà poco e che sarà disturbato poco o nulla da mosche o zanzare, abitatrici (anche) di tali ecosistemi, legittime, intendiamoci, ma, insomma, non proprio ospitali e non sempre discrete. E che più difficilmente s’imbatterà in chiassose comitive turistiche. Certo, a volte c’è il pericolo del ghiaccio sul sentiero, o di qualche altra scivolosa insidia sotto il tappeto di fogliame caduto a terra poche settimane prima, affrontabile però con un po’ di esperienza e di testa sulle spalle, e con la compagnia di qualche amico fidato che condivide le stesse motivazioni. Anche il tramonto precoce è un vincolo con cui non è difficile fare i conti: ne basta una presa d’atto, serena e analoga a quella di una meta e un percorso compatibili con le condizioni di fatto, dei presumibili tempi di cammino e delle proprie potenzialità fisiche.

Di tutto questo, siamo certi, era consapevole un Dino Campana poco più che ventiseienne ma già abituato agli ambienti montani, almeno i suoi. Forse ne erano consapevoli anche alcuni compagni della gita in montagna che intraprese nei primi di gennaio del 1912, lungo un percorso distinto ma non troppo lontano da quello di poco più di un anno prima: quando, presumibilmente in solitaria, si era avviato al suo pellegrinaggio alla Verna, che possiamo supporre essere stato il primo di una probabile serie, del quale non abbiamo però riscontri puntuali o oggettivi diversi da ciò che lui stesso ci ha scritto nei Canti Orfici.

Della gita del 1912 abbiamo invece una documentazione, di cui siamo tutti debitori a Stefano Drei, che è andato a caccia delle memorie e delle immagini che ne restituì il più giovane della comitiva, Achille Cattani, figlio di Giuseppe Cattani, noto fotografo faentino, e in seguito anch’esso fotografo professionale. Le memorie di Achille sulla gita sono riprese nel prezioso saggio (S. Drei, Orfeo e il Fotografo, in Dino Campana. Ritrovamenti biografici e appunti testuali, Carta Bianca, Faenza 2014), in cui Drei individua, con documentata certezza, anche l’identità degli altri escursionisti, accomunati in buona parte dalla frequentazione del liceo Torricelli o degli ambienti salesiani di Faenza e dintorni. Non si tratta cioè di notabili marradesi.

Drei, con la sua consueta disponibilità, ha messo in rete, qui, le fotografie, come riemerse dagli album di familiari dell’avvocato Mazzotti, «grazie alla straordinaria cortesia delle nipoti, sorelle Baùsi». Giacomo Mazzotti è il più anziano dei partecipanti alla gita, fatta probabilmente salva l’anagrafe di due accompagnatori misteriosi (forse non entrambi, ma questo lo vedremo…), e comunque non citati da Cattani, che sembrano aver avuto la funzione di guide o di accompagnatori occasionali.

Una delle fotografie di tale album familiare appare come ritagliata da un’altra già nota che, fra quelle che abbiamo oggi, è l’unica a non essere stata scattata da Achille Cattani - che infatti vi appare ritratto - ma presumibilmente da don Stefano Bosi, uno dei due fratelli sacerdoti che parteciparono all’escursione. Drei ci rammenta che quest’ultima immagine, riprodotta anche qui, si trova a pag. 231 del primo dei lavori campaniani curati da Gabriel Cacho Millet (D. Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di G. Cacho Millet, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1978) e a pag. 77 dell’edizione BUR dei Canti Orfici commentati da Fiorenza Ceragioli (D. Campana, Canti Orfici, a cura di F. Ceragioli, Rizzoli, Milano 1989), in tempi ben precedenti l’uscita del saggio di Drei stesso. Che però l’ha poi rinvenuta anche nel secondo volume di una sorta di autobiografia di Achille Cattani (A. Cattani, Idealità. La vita di Ernesto ed Anna, Tipografia Faentina, Faenza 1974). Sta di fatto comunque che nessuno prima di Drei aveva approfondito il contesto in cui era nata questa foto e l’identità di chi vi era ritratto. Oltre a quella scattata probabilmente a monte della cascata dei Romiti, fra tutte quelle che abbiamo di quella gita, è l’unica foto in cui compare Dino. Che però, proprio dalle memorie di Cattani, sappiamo essere stato protagonista, se non per tutto il percorso, per buona parte di esso.

Perché occuparsi tanto di quella gita, di quelle foto e di quei personaggi? Deleghiamo metà della risposta all’autorevolezza di Stefano Drei, che evidenzia «il rilievo straordinario che il tema del viaggio in montagna assume nei Canti». E aggiungiamo, nell’altra metà della risposta, il valore dei monti stessi di Dino Campana, non solo per la sua biografia e la sua poesia, ma anche per i significati storici, culturali e ambientali che tali monti rivestono di per sé, pur se sviliti dalle sordide speculazioni in atto, come ben sanno, in Mugello e Val di Sieve, sia gli amici autoctoni che ne faranno le spese sia i politici di infimo spessore che le hanno agevolate.

Drei stesso ci attesta che Achille Cattani era conosciuto come persona rigorosa e affidabile. Le di lui memorie possono quindi farci da riferimento nel tentativo di dare una collocazione materiale ad alcune di quelle foto, e nella ricerca degli specifici luoghi attraversati da Campana nel gennaio 1912. In più, abbiamo le annotazioni, vergate quasi certamente da Giacomo Mazzotti in calce ad alcune di tali foto, annotazioni sulla cui affidabilità potrebbe però porsi qualche dubbio.

 

2 gennaio 1912

Narra Cattani, così come ce lo trascrive Stefano Drei, che «il 2 di gennaio dell’anno 1912 [Dino Campana] si unì a me e ad altri quattro miei amici che avevano più età di me: l’avv.to Giacomo Mazzotti, i due fratelli Bosi, sacerdoti, un salesiano e Diego Babini [...], e stemmo insieme per tre giorni e due notti nella gita alla Falterona, fatta tutta a piedi, partendo da Badia del Borgo in Marradi».

È evidente l’errore con cui Cattani conta “altri quattro amici”... per poi elencarne cinque. Probabilmente ha in mente la foto “ufficiale”, che Drei ha trovato conservata nell’album Bausi/Mazzotti, e che con ragione, ritiene essere la testimonianza del momento di partenza. In tale foto Cattani stesso non compare per il semplice fatto che, come in quasi tutte le altre, è dietro la macchina. Vi compaiono invece, allineati e in posa, oltre Mazzotti (che sebbene sia, come rileva Drei, «il personaggio più in vista del gruppo» appare quello… di statura più modesta), altri quattro partecipanti: i due fratelli (di Castelbolognese) don Stefano e don Francesco Bosi, il presunto “salesiano” Lamberto Caffarelli (più propriamente un frequentatore degli ambienti salesiani faentini) e Diego Babini, quasi coetaneo di Dino e come lui ex allievo del liceo Torricelli, che, appunto, sempre secondo le ragionate ricostruzioni di Drei, è probabilmente quello che, non solo nelle foto di Cattani, più di tutti gli altri era vicino a Dino Campana. Il quale però non è fotografato, o almeno non è ancora fotografato. Non è probabilmente un caso che Cattani scriva di ricordarsi che Dino «si unì a me e ad altri quattro (sic) miei amici», come se fosse entrato a far parte della comitiva solo in seguito.

Diversi elementi ricavabili dall’immagine sembrano comunque dare conferma che la gita sia davvero iniziata dalla cosiddetta Badia del Borgo - più estesamente Chiesa di Santa Reparata in Badia del Borgo (o “in Salto”, nome del rio che la affianca prima di confluire nel Lamone attraversando Marradi, un paio di km più a valle) - edificata in origine - nel XI secolo - come parte di un nucleo abbaziale benedettino.

Partiamo dal considerare che, rispetto all’abitato di Marradi, che è distante un paio di km ma non in vista, la Badia del Borgo si colloca a est e a una quota più elevata di circa 100 m, e teniamo presente che una partenza mattiniera era resa necessaria dall’esigenza di sfruttare al meglio il ridottissimo periodo di luce - nove ore o poco più al giorno - che l’escursionista appenninico ha a disposizione ai primi di gennaio. I cinque soggetti della foto di cui stiamo parlando appaiono abbagliati da un sole (ancora) basso, come confermato dalle ombre proiettate al suolo nella parte sinistra dell’immagine (ombre che fanno supporre la presenza di alcune persone a salutare l’avvio dell’avventura), e hanno alle spalle uno sfondo di valle. Mazzotti e compagnia sono quindi presumibilmente rivolti alla direzione di partenza che, alla Badia del Borgo, per chi abbia la meta della Falterona, corrisponde appunto a quella del sorgere del sole e poi della risalita della vallata del Rio Salto, che poco più a monte piega verso destra, cioè verso sud. Si sono lasciati alle spalle l’abitato di Marradi ma, forse grazie ai buoni uffici del due fratelli sacerdoti, hanno presumibilmente trascorso la notte alla Badia stessa, proprio per sfruttare al massimo la luce della giornata.

La data della partenza del 2 gennaio, ricordata da Cattani, coincide con quella, leggibile in calce alla fotografia conservata nell’album Bausi/Mazzotti, e quindi ben presumibilmente annotata dall’avvocato Giacomo, come per alcune delle foto successive.

Oltre allo scrupolo di Cattani, davvero nulla ci fa dubitare che il punto di partenza possa essere stato diverso dalla Badia del Borgo, luogo che, nella periferia di Marradi, è ben caratterizzato e ben distinguibile dagli altri che, in tale cerchia, e senza eccessivi, irragionevoli e defatiganti saliscendi, potrebbero teoricamente rappresentare un’alternativa per la direzione (sud) della Falterona. La memoria di Achille Cattani non può cioè aver confuso una partenza dalla Badia del Borgo con una da Biforco e da Campigno o, al limite, lungo la direzione dell’Eremo di San Barnaba a Gamogna. Tra l’altro, continuando verso gli oltre 1600 metri di quota del massiccio Falco-Falterona, ben pochi sono i luoghi nei quali si possa ipotizzare, ora come allora, che si potessero trovare pioppi delle dimensioni paragonabili a quelle degli esemplari che, alle spalle della comitiva in posa, appaiono capitozzati sulle branche principali.

Ecco quindi che i nostri allegri gitanti proseguono poi verso sud, nella valle del Rio del Salto, lungo il quale le mappe IGM del tempo ci mostrano la traccia non di una semplice mulattiera, ma di una «carrozzabile senza manutenzione regolare di larghezza variabile da riconoscersi per il transito delle artiglierie» (come da legenda della mappa dell’Istituto Geografico Militare del tempo, in scala 1:50.000), che assicura loro un buon compromesso fra la tenuta della direzione scelta, da una parte, e, dall’altra, la gradualità e continuità della salita. Salita che tocca Le Casette e Val della Meda (dove ora si sviluppa la Strada Provinciale 74 per il passo della Peschiera e San Benedetto in Alpe), per proseguire, ben presumibilmente, lungo un sentiero che congiunge le Case Nuove dell’Eremo con la dorsale sovrastante il podere della Preda indicata sulle mappe come “Poggio Solami”, o “Lungo i Solami”.

Quasi certamente nella seconda parte di questa salita viene scattata la foto, (anch’essa datata 2 gennaio, da Mazzotti), che ritrae i cinque burloni, gli stessi fotografati in partenza, nella finzione di inerpicarsi su un pendio erboso, che – grazie alla complicità di Cattani, che inclina la fotocamera - appare particolarmente erto. Come sottolinea Drei, il più burlone di tutti è Caffarelli, che rompe le fila dello schieramento nel gesto di… inerpicarsi nella direzione opposta. Gli unici dati che, in questa foto, appaiono significativi per una ricostruzione del percorso sono due: la data e il fatto che manchi ancora Dino. Non contiene infatti elementi che consentano di ipotizzare il luogo in cui sia stata scattata: oltre ai soggetti appaiono soltanto una superficie erbosa e un cielo luminoso. L’esclusione di un qualsivoglia orizzonte di sfondo, ottenuta da Cattani abbassando il punto di ripresa, suggerisce che il luogo corrisponda a un’area di dorsale, come potremmo supporre per i rilievi circostanti il podere della Preda. Monte Làvane compreso.

Possiamo essere relativamente sicuri del percorso, se non obbligato certamente logico, di questa salita che inizia dalla Badia del Borgo e termina, sbucando dai boschi che (oggi) rivestono la testata della valle del Fosso di Voltalto, a un improvviso sguardo sull’edificio della Preda, che ora funziona solo da appoggio al bestiame al pascolo.

Logica vuole che i nostri gitanti siano poi discesi dolcemente lungo la valle, oggi del tutto deserta, del Fosso di Ca’ del Vento (o “del Làvane”), toccando appunto la Preda, le Cortecce (edificio a suo tempo quadrifamiliare, che chi scrive ricorda di aver visto, ancora quasi completamente in piedi, alla fine del secolo scorso), e i ruderi della casa colonica delle Fontanacce, fino al punto in cui, 500 m prima di Pian Baruzzoli, si può inquadrare 150 m più in basso, a sudovest, la cascata dantesca dei Romiti all’Acquacheta: siamo al confine fra i comuni di Marradi e di Portico e San Benedetto, che allora non era confine di provincia e regione, come ora. Ma la cascata è in comune di San Godenzo.

Qui si aprono alcuni quesiti proprio grazie all’improvvisa comparsa di due presenze, in un punto che con grande probabilità è effettivamente la soglia sommitale della cascata, punto comunque ripreso in questa fotografia, ormai famosa, che Mazzotti annota non più al 2 ma al 3 gennaio. Queste due nuove presenze sono quelle di Dino e di un enigmatico accompagnatore, della cui identità siamo andati a caccia.

Ma non ci piace affastellare troppe informazioni, o troppe ipotesi, tutte insieme.

La trattazione sarà quindi ripresa, non appena possibile, con il 3 gennaio (o presunto tale…) del 1912.