Franco Matacotta a Enrico Falqui:

 

Fare o Forse?

 

a cura di Paolo Pianigiani

 

 

 

 

Venne pubblicata dal poeta Franco Matacotta (1916-1978), per la prima volta, su "Prospettive" del 15 febbraio - 15 marzo 1941 e poi in "Taccuino", edizioni Amici della Poesia, Fermo 1949, p. 17. Il quarto verso vi compariva trascritto:

"Fare e disfare è tutto un lavorare".

 

Nell’edizione del 1958 di questo carteggio, Niccolò Gallo lesse e trascrisse il verso: "Forse il disfare è tutto un lavorare". Falqui (1901-1974) pur mantenendo il verso invariato nel carteggio Aleramo-Campana, riportò il verso alla versione matacottiana in "Opere e contributi", cit., p. 392.

Dall’analisi dell’originale è sembrato opportuno accettare la originaria versione del verso, nel quale con certezza "il" si legge "e".

A ulteriore conferma si riporta qui il testo di una lettera scritta da Matacotta e ora conservata nell’Archivio Falqui, a Roma:

 

Caro Falqui.

mi scusi, le scrivo a macchina per maggiore chiarezza delle cose che ho da dirle. Si tratta della rettifica pretesa da Niccolo Gallo alla lezione del verso campaniano: "fare e disfare è tutto un lavorare", in: "forse il disfare è tutto un lavorare".

Ho scritto già a lui le ragioni per le quali tale rettifica mi sembra inaccettabile. D’altro canto, quando io pubblicai quel frammento, lo feci sotto gli occhi vigili di Sibilla, la quale quasi sempre mi leggeva i testi. Il "Taccuino" poi, e il resto delle carte che sono tuttora in mio possesso, riconfrontate, mi garantiscono di ciò che dico. Le scrivo questo, perché lei, nel caso della ristampa campaniana, lo tenga nel conto che crede.

Quel verso si deve leggere così come io lo pubblicai per le seguenti due ragioni:

1) di grafia: la a di quel quarto verso, nel verbo fare, è una a divisa in due parti, voglio dire con il cerchiello aperto e la gambina scissa: esattamente come le due a dei due ultimi "fabbricare" del 1° verso, la a della parola "mare" del secondo verso.

Vede che sono identiche, staccate nelle due parti? Nelle mie carte, questa a è molto comune, la ritrovo anche nel frammento "I piloni fanno il fiume più bello" e "In un momento / sono sfiorite le rose" e "Sul più illustre paesaggio", in maniera evidentissima e pressoché costante: (quest’ultimo, nella stesura iniziale, ha un attacco, poi cancellato, che suona: "Perché il caffè / Perché dal caffè / Perché Rinetta con passo dì velluto / Con mosse di pantera / Rinetta mai non diment / Rinetta / Vorrei").

Non ci possono essere dubbi di sorta. Inoltre, la "r" di cotesto verbo fare è la medesima del successivo verbo disfare, e del successivo lavorare (stesso verso). Anche se a prima vista può sembrare una "s".

2) di contesto: anzitutto l’avverbio forse, che Gallo legge, non è un avverbio campaniano. In secondo luogo, il 4° verso consiste in un discorso che è ancora riferito al mare: è il mare che dice "fare e disfare / Fare e disfare è tutto un lavorare". Il "forse" isolerebbe il verso come una parentesi riflessiva, epperciò esterna e sovrapposta al discorso del mare, con una interruzione, una frattura, impoetica come ritmo e come significato. Il lavoro del mare consiste nel suo fare e disfare: non potrebbe consistere nel solo disfare, nemmeno per un dubbio.

Ed è in cotesto lavoro marino che Campana s’identifica: e l’arte del mare è la sua arte. Fare e disfare, è come la tela di Penelope; è l’esistenza di Dino; è, nel caso dell’epistolario, l’amore medesimo; è, infine, la sua stessa poesia. Il "disfare" sarebbe in contraddizione con le riprese, le riaccensioni, i persistenti appigli alla speranza, e alle "Chimeres fulgurantes", quali si ritrovano in tutti i "Canti Orfici", e nell’epistolario finale.

Come contestarlo? E allora, il "forse" non butta tutto all’aria? Quando mai si può supporre sia pure una punta di amletismo in Campana? Avrei piacere se mi comunicasse il suo pensiero in proposito. Perché non vorrei aver avuto, ventanni fa, le traveggole. E non le avesse avute Sibilla. Il fac-simile stampato da Gallo, a riprova, si ritorce, secondo me - a parte il resto delle mie prove grafiche - sulla sua rettifica.

L’epistolario è assai bello. Mi duole, mi permetto di farle questa confidenza, che Sibilla l’abbia pubblicato in vita, quando in una lettera di Bino, una delle sue più belle (della quale Sibilla mi dette solo una parte e io stampai, credendola una paginetta di prosa, di mero autobiografismo) è detto esplicitamente: "Le mie lettere sono fatte per essere bruciate". Inoltre, manca, all’epistolario, la chiusa: e Sibilla avrebbe dovuto farla. Ma credo ella sia stanca e un poco smemorata. S’è perduto molto, con questa reticenza.

 

Mi creda, il suo fedele

 

Franco Matacotta

 

Porto San Giorgio, 23-4-58

 


 

Dal Carteggio pubblicato da Nicolò Gallo nel 1958: