Marcello Carlino

 

Marcello Carlino: Sfumare e disfare tra pittura e poesia

 

Sfumare e disfare tra pittura e poesia: Campana senza inno.

 

di Marcello Carlino 

Università di Roma "la Sapienza"

 
 
  Cartolina di Dino a Sibilla, del 13 ottobre 1916
da Campana-Aleramo Lettere, ed. Vallecchi 1958

 

 

A pochi mesi di distanza da quando si sono accesi i fuochi della passione d’amore – e comincia ad essere e sarà poi, sempre di più, un rapinoso, stordente succedersi di tormenti e di estasi – Campana scrive una cartolina postale a Sibilla Aleramo, in risposta ad un telegramma appena ricevuto (ma nella giornata gli scambi di messaggi sono così fitti, e serrati, e convulsi, che, per chi ne faccia oggetto di studio, raccapezzarcisi è un’impresa). Il timbro reca ben visibili la data, il 13 ottobre 1916, e il luogo di spedizione, Marina di Pisa.

Tra riferimenti alla proprietaria della pensione che minaccerebbe di sloggiarli (così si dice, più chiaramente, altrove; e Sibilla la chiama «la Britanna»), inviti alla donna amata perché lo raggiunga senza indugio da Firenze, tremori e timori («tanto mi odiate?»; e forse – la grafia è incerta, infatti – a premessa della frase interrogativa, e a rinforzo, il nome in minuscolo di un "nemico" recente, Papini), la missiva sarebbe esclusiva materia dei biografi, che con l’autore dei Canti Orfici, del resto, hanno davvero di che scialare, se Campana non aggiungesse, prima di congedarsi con l’enfasi tragica di uno «Scrivete. Addio», cinque versi in rima baciata:

 

Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
Forse il disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
 

Già nell’edizione Vallecchi delle Lettere, curata nel 1958 da Niccolò Gallo, che dichiarava di aver restituito nella sua forma corretta il quarto verso (il quale, nel corpo degli Inediti raccolti nel 1949 da Falqui, risultava essere, invece, «Fare e disfare è tutto un lavorare»; e si persevera a trascrivere così nel secondo volume di Opere e contributi, dove, per paradosso, a questa versione riportata nei Taccuini – ed ora puntigliosamente giustificata in sede di apparato critico – si accompagna, nelle pagine che riproducono il carteggio con Sibilla Aleramo, quella adottata da Gallo, che non mostra dubbio alcuno e la considera definitiva, a prova di qualunque smentita), Mario Luzi, firmando la prefazione, accoglieva con attenzione ed interesse, tanto da darne puntuale menzione, e valutava con largo favore il testo in rima messo a sigillo di quella cartolina postale:

 

All’epoca di questo carteggio la stagione piena della poesia è già passata sulla vita di Campana. Sono di questo tempo e in gran parte concernono questa stessa vicenda i brevi componimenti del "Taccuino" pubblicati da Matacotta e poi da Falqui, e il lettore potrà ritrovare tra queste pagine, in una lezione un po’ diversa, il bel testo di «Fabbricare» nella sua origine appunto epistolare. Sono proiezioni di un talento che ha toccato già «l’ultimo suo» e dato il suo pieno frutto, improvvisi, accensioni estrose che portano ancora il suo suggello; ma la volontà creativa è in disarmo.

 

Appare molto più severo («boutade o filastrocca di arte poetica, ben altra dalla dichiarazione d’impegno, potenzialmente ultimativa, di Ho scritto. Si chiuse in una grotta (Quaderno)»), il giudizio estetico pronunciato da Silvio Ramat nelle pagine di commento di scorta alla vallecchiana del 1966, una nuova edizione dei "Canti Orfici" e altri scritti che amplia le precedenti curate da Enrico Falqui; epperò la strada maestra rimane quella tracciata da Luzi, che sembra ravvisare, specialmente in Fabbricare fabbricare fabbricare, un segnale (un indicatore pressoché esplicito di poetica in atto) della forte escursione di momenti e disposizioni che vitalizza e fa tesa la scrittura campaniana:

 

Pure sono rimaste intatte, se mai si sono esasperate, le doti che avevano alimentato quella vampa. Sono doti di illusione e di rapimento che hanno il loro fedele contrappunto negli scontrosi rabbuffi e, sempre più, negli attriti oscuri con la realtà. Alternanza di ordine vitale che sul piano della creazione poetica aveva prodotto quella apparente duplicità di modi – da visionario a visivo, da canto spiegato a notazione ruvida – sui quali tanto doveva poi la critica disputare. Era dunque rimasto uno spirito indifeso, esposto alle ventate di esaltazione e di feroce disinganno e disgusto; e nulla di più commovente di quell’aria di ironista che assume innocentemente talvolta, in ossequio al colore del tempo, ed è ancora un tratto della sua incorrotta genuinità. Tutto infatti potremmo trovare in Campana meno che riserva o circospezione o anche semplicemente contegno di fronte alla vita.

 

È sorprendente che Luzi rammenti (certo, per dichiararla «apparente») la «duplicità dei modi – da visionario a visivo», i quali hanno arruolato, come fossero Coppi e Bartali, stuoli confliggenti di sostenitori; e, per altro, quasi non v’è saggio o articolo dedicato a Campana che non si apra ricordando tale contenzioso e attribuendone l’origine agli scritti di Contini, che avrebbe privilegiato nei "Canti Orfici" la visività (ovvero il paesaggismo sereno, il bozzettismo e financo un po’ di «cafonismo carducciano»), e a quelli di Bo, il paladino della visionarietà infrenabile e notturna del poeta di Marradi, che, avendo vissuto senza riparo, e senza neppure il "contegno" delle forme, il turbine e il vortice di una "letteratura come vita", sarebbe un predecessore ed una delle fonti più accreditate della poesia ermetica. È sorprendente, perché giusto Fabbricare fabbricare fabbricare, il testo chiamato da Luzi a documento probatorio di quella che egli dice «alternanza vitale» (le scissure e gli eretismi, le sedazioni e i furori dell’io e, dunque, l’alternanza vitale di un «fare e disfare» che sorregge e che infine impregna di visionarietà – per questo è solo «apparente» – la stessa «duplicità di modida visionario a visivo»), ha un’impronta inconfondibile. È sfuggito a tutti, anche a quanti sarebbero stati tenuti a trovare tracce ed indizi di una visività che cova, si insinua e la vince, ma qui vi è un plagio e v’è, sul plagio, una riconversione di funzioni. Plagiario Campana, il plagiato è Carducci. Il quale, in strofe tetrastiche di endecasillabi e settenari, su schemi epodici, lavorò quattrocento versi tra il 1874 e il 1886:

 

Intermezzo o intermedio dicevano i cinquecentisti italiani un breve divertimento di canzonette e balletti figurati, dato tra l’uno atto e l’altro delle rappresentazioni drammatiche; e Intermezzo metaforicamente chiamai io questa serie di rime che doveva poi nel mio pensiero segnare il passaggio dai Giambi ed epodi alle Rime nuove e alle Odi barbare.

 

E segnò e scandì, appunto nella terzultima strofa della terza parte dell’Intermezzo:

 

Questa è, vecchio mio cuor, la vecchia storia,
Far, disfare, rifare:
Per l’ozio, per la fame o per la gloria,
È tutto un lavorare.

 

Carducci, come gli è solito, e come è d’uso nella costruzione dei suoi epodi, giocati su contrasti fortemente chiaroscurali, sta affondando i colpi della polemica. I romantici postremi, col loro sentimentalismo svenevole e lacrimoso, sono il bersaglio; ben altro vigore ha da avere il sentimento nella poesia; e, quando il cuore sia intrattenuto a rapporto, non rassegnare le armi lasciandoglisi andare come un fedele devoto al suo dio, bisogna invece resistere a quel "che" di ipnotico che gli si accompagna e trattarlo da pari a pari, collega di lavoro a cui non è concesso di lesinare il tempo:

 
Ma poi svegliàti, o confidente cuore,
Lavoravam di buono,
ed al cucù pe ‘l fluttuar de l’ore,
Rassettavamo il suono.
 

Che sia un lavorare matto e disperatissimo, che nulla ha da spartire con facili automatismi o con inarrestate esorbitanze emozionali, loquacissime e tanto più autentiche, nel sentire comune, quanto più sono messe a briglia sciolta, questo il poeta dell’Intermezzo lo sa e lo rivendica a sé come una non piccola fatica, come un merito grande:

 
È un lavorare faticoso e pazzo
Da pentirsene un giorno.
Ecco, a metterti in versi io mi strapazzo.

 

Se poi il cuore non ci sta o non ha la giusta tempra per resistere, e sbotta nelle sue mattane, poco cambia; chi dice io continuerà a fare come si deve, e intanto gliene canta quattro a questo figuro che, se troppo gli concedi, è la rovina della grande poesia, anzi è un biblico flagello:

 
E non m’importa un corno
De le tue smorfie, o a la grand’arte pura
Vil muscolo nocivo.
 

Fare come si deve è lavorare di lima, è tirare a lucido, avendo provato e riprovato. Si sia mossi dall’«ozio» (qui proprio il latino otium) o dalla «fame» (benché Carducci non manchi, nelle prose, di considerare che la poesia è la cenerentola delle arti; e dunque nessuno si illuda che carmina dant panem) o dalla «gloria», è un lavorare costante, secondo moduli e logiche e gradus ad parnassum di un classico poetare, l’impegno che è richiesto, che ci vuole, che sempre e comunque fa alta e bella la scrittura letteraria (ed è una «vecchia storia», una inveterata consuetudine dell’autore di questi versi e una antica e nobile, solida tradizione); di modo che, come nei punti focali di un programma, una sequenza trimembre – un trinomio – definisce in essenza il lavorio inesausto e sottile e discreto di una scrittura in nome della classicità: «far, disfare, rifare». Sono questi gli atti congiunti, per una «grand’arte pura», di una poetica ispirata alla lezione dei classici.

Non credo possa trovare risposte certe e convincenti il perché Campana abbia ritenuto di trascrivere sulla cartolina a Sibilla Aleramo il suo giro di versi in rima baciata, facente perno, come mi pare ora sia dimostrato inoppugnabilmente, su di un piccolo, palese plagio e su di un intervento di decisa ristrutturazione da Carducci (e si tratta, quanto alle cose carducciane dell’appropriazione più consistente).

È patente l’estraneità del testo restaurato ai contenuti fondamentali della breve comunicazione epistolare, in cui il mittente si duole della malattia della sua donna ma torna a sollecitare, attraverso una serie di messaggi indiretti e allusivi, la sua venuta a Marina di Pisa (non sono pensabili neppure generiche, labili, marginali corrispondenze, considerato che gli enunciati appaiono nell’ordine: il dispiacere per l’indisposizione che Sibilla lamenta – e che Dino non avrebbe tenuto in conto alcuno, se invece fosse capitata a lui: «quanto a me ho perso l’abitudine di lamentarmi» –; l’ingiunzione della padrona della pensione a riferire – ma di che? del sequestro della biancheria altrove ventilato? dello sfratto della cui possibilità si dà avviso in un telegramma dello stesso giorno? – alla compagna del poeta, ingiunzione, tanto più minacciosa in quanto senza oggetto determinato, che è respinta come è giusto faccia colui che prende a cuore le sorti dell’amata e la difende in guisa di un antico cavaliere; la preghiera volta per interposta persona – «Poi le ho fatto dire: perché mi ricorda sempre la signora?»: ma la forma è interrogativa e, correndosi l’alea di un messaggero, l’invito e l’istanza sono lasciati in sospeso: e non è davvero un ultimatum –, una periclitante domanda di oblio, quasi che il silenzio allontani e scongiuri, in un rituale apotropaico, lo spettro del dolore per un amore che si teme e che si dubita non sia ricambiato; la consapevolezza che, forse, la strada del destino porterà lei – che ancora è incerta se seguirla – altrove, lontano; e, prima di una teatralissma formula di congedo, il dubbio – condito di amarezza e di rampogna e di desiderio di rassicurazione e di affettazione da posa e da recita per captatio benevolentiae – che già il sentimento di Sibilla si sia mutato in odio e che si siano prodotte oggettive convergenze con nemici di letteratura, in specie con uno dei dioscuri di «Lacerba», macchiatisi della colpa di avergli smarrito il manoscritto).

In aggiunta alla eccentricità del frammento interpolato rispetto alla forma del contenuto della cartolina postale, l’urgenza con la quale Campana (calcolati i tempi battenti che ritmano il crepitante scambio di missive in quel 13 ottobre del 1916 – non si dà pausa o attimo di respiro, infatti) avrà messo nero su bianco, dovendo stilare "comunicazioni di servizio" non facili, anzi delicatissime, come tutte quelle che pertengono ad una passionale storia d’amore, e dandosi la briga, pure, di versificare: questa urgenza e quella eccentricità escludono – ecco una possibile e accettabile congettura – che il plagio sia stato consumato lì per lì, con particolare destrezza, e che la strofetta sia stata composta per l’occasione, in una circostanza che consigliava, per contro, fretta e tempestività, non l’inseguimento e la caccia a rime baciate.

Evidentemente il prelievo e la ristrutturazione su base carducciana erano avvenuti da tempo; forse Campana aveva potuto annotarli altrove, certo, non a caso affacciandoglisi alla mente pur in un frangente così convulso, su di essi – boutade o filastrocca che possano essere definiti – faceva grande assegnamento, come se fosse loro affidata testimonianza di gran parte di sé e della sua idea di poesia, rimanendo vero senz’ombra di dubbio – considerata la fonte nell’Intermezzo e dato il ruolo di protagonista assoluto svoltovi dal poeta – che questa è una dichiarazione di poetica, en artiste, con tutti i crismi e le carte in regola.

Di più: si potrebbe arrivare a supporre che, copiandoli o trascrivendoli a memoria proprio in calce al messaggio indirizzato a Sibilla, Campana abbia voluto apporre così la sua firma (che in effetti manca) e che li elegga, in buona sostanza, ad equivalenti del suo nome.

Insomma tutt’altro che un divertissement, o che uno scapricciato esercizio di penna, è questo Fabbricare fabbricare fabbricare per il cui significato dovrà essere computata la fatica del lavoro della scrittura (una fatica, come impegno e spesa di sé, che declina l’offerta di facili scorciatoie, di mistiche possessioni romantiche) e vi si dovrà sommare il rigetto di qualunque sicurezza costruttiva, e di qualunque assunzione di finalità certe e positive, la poesia voglia attribuirsi (perciò la triplice sequenza iterativa, «Fabbricare fabbricare fabbricare», è sostituita dal trinomio, «fabbricare fare e disfare»; e vengono siffattamente disconosciute diffuse millanterie mitopoietiche, vengono sgonfiate turgidezze da vati quali, da Carducci al futurismo, se ne incontrano di frequente nella letteratura d’Italia).

Ed anche altri fattori sono qui in concorso nella determinazione del senso. Il «rumore del mare» che «dice», che chiama le azioni della poetica campaniana, mentre replica un topos dei Canti Orfici, evoca una necessità di ritmo e, nel disporsi al ritmo, una permeabilità sinestetica delle figure fino allo sfinimento, sembrando così mettersi in sintonia con una singolare, acuta annotazione autoanalitica registrata nei Taccuini: «Nel giro del ritorno eterno vertiginoso l’immagine muore immediatamente». Il verbo «preferisco», con il suo implicarsi nella semantica del gusto e con il suo orientarsi deciso verso lo spazio del soggetto, indica una scelta deliberatamente compiuta: il disfare, che segue al fabbricare e al fare, non è l’esito di una sconfitta che si subisce e alla quale ci si rassegna, è un programma, è una volontà: risponde all’intenzione di ascoltare il «rumore del mare», di leggerne l’interminabile lavorio, lo straordinario messaggio.

E «disfare» chiude appunto la sequenza triadica, che nell’Intermezzo di Carducci culminava in un «rifare» assai vicino al mito del poeta faber (o poeta artifex che torna più volte, migliorandolo, rendendolo più prossimo alla perfezione, sul suo prodotto e che intanto offre materia abbondante per la critica delle varianti); è un disfare consapevole, non dovuto alla pulsione ad espungere i significati né dominato da un mistico abbandono asemantico al rapimento e al dominio del suono, affacciato e sporto, piuttosto, su tecniche di rappresentazione sperimentali e d’avanguardia che disfano edificanti fabbricazioni, che sfanno il fatto e magari il rifatto in ossequio al valore della classicità; è un disfare che lascia anch’esso tracce consistentissime di varianti e che è più che probabile che richieda impegno e dolore e fatica, che sia insomma «tutto un lavorare» (in «Forse il disfare è tutto un lavorare» si riascolta il "lavoro" di Genova, che è piena delle immagini e del «rumore» del mare). Certo, quanto a Campana, «ecco quello che sa fare»; e qui sta davvero la sua poesia.