Geno Pampaloni 

 

 

Geno Pampaloni; Prefazione agli Atti del Convegno del 1973

Prefazione a:

Dino Campana oggi

Atti del Convegno fiorentino del 1973

 

Il convegno di studi su Dino Campana trae la sua origine immediata dall'opportunità di presentare al pubblico (sia nel giudizio di critici, poeti, studiosi, sia fisicamente, in una mostra di carte e cimeli campaniani) il prezioso manoscritto Il più lungo giornomiracolosamente riemerso alla luce dopo quasi sessantanni: consegnato dal poeta ad Ardengo Soffici nell'inverno del 1913, era stato smarrito; « e quanto rovinoso sia stato per Campana lo smarrimento è documentato da lettere e testimonianze innumerevoli », come ha ricordato il Falqui; sì che quel manoscritto perduto e acerbamente rimpianto era divenuto il testo mitico del Novecento italiano, — che sembrava accendere un ulteriore bagliore di tragedia, quasi l'accanirsi di un destino nemico, sull'esistenza tormentata del solitario poeta; e poi nel 71 era stato ritrovato, per merito della signora Maria, nel gran mucchio delle carte accumulate nella casa di Poggio a Caiano; restituito agli eredi di Campana, e da questi messo a disposizione della Casa editrice Vallecchi e degli studiosi.

Il primo tema del convegno è stato quindi l'esame critico de Il più lungo giorno, della sua consistenza e della sua collocazione ideale nel travagliato corso dell'opera poetica del Campana. Domenico De Robertis l'ha minuziosamente indagato, sin dall'aspetto esteriore, ritrovando un gemello del quaderno campaniano in un quaderno settecentesco, di fattura nobile, quasi a simboleggiare, nel poeta che si presentava al giudizio dei letterati illustri della sua generazione, la sua volontà di innestarsi « nella linea della più pura tradizione italiana ». Ed ha concluso la sua argomentatissima indagine con l'ipotesi che il manoscritto ora ritrovato sia un codex interpositus, tra un testo base e il testo dei Canti orfici del '14; testo base perduto o distrutto, da cui derivarono sia Il più lungo giorno sia Canti orfici« in due successivi e distinti momenti ».

Di qui, dall'accertamento che il testo dei Canti orfici quale si conosceva non è già il faticoso recupero, fatto a memoria, di un manoscritto perduto, come voleva la leggenda, ma il frutto di una profonda e ben consapevole rielaborazione poetica, nasce quella che Enrico Falqui ha definito « delusione ». Insieme con il mito del mano­scritto perduto, il ritrovamento de Il più lungo giorno ha cancellato l'illusione che « ci aveva fatto rimpiangere nel manoscritto una perfezione perduta », essendo ora definitivamente chiarito che « la vera prima edizione delle prose e delle poesie di Campana... è e resta quella dei Canti orfici ».

Volgendo in positivo le stesse considerazioni, Neuro Bonifazi ha potuto parlare di « fortuna » dello smarrimento del manoscritto (più grande ancora della fortuna del ritrovamento), in quanto « la decisa maturazione che subì lo stile di Campana dall'inverno del '13 all'estate dell'anno successivo, più sostanziale di quanto non sembri », avrebbe trovato più difficilmente espressione se il manoscritto non fosse stato perduto e fosse stato pubblicato.

Anello essenziale, dunque, per ricostruire l'iter dell'ispirazione del poeta: e quindi utilissimo per chi curerà l'edizione critica dell'opera campaniana (che « ormai s'impone », come ha affermato il De Robertis); e quindi degno di essere collocato in una Biblioteca Nazionale (come ha auspicato Enrico Falqui), Il più lungo giorno rinvia, come un momento del suo farsi, al grande libro della sua poesia.

Si è sviluppato a questo punto il secondo tema del convegno, che è il senso, l'immagine e il ruolo della poesia di Campana. Il dato emergente è la sua eccezionale e inquietante vitalità. « Non è illecito sostenere che una tradizione poetica novecentesca prenda coscienza di sé in maniera decisiva e con decisivo scarto rispetto al suo passato prossimo (crepuscolare e futurista, vociano e rondesco) nel momento stesso in cui i cosiddetti poeti nuovi si accorgono della presenza di Campana » ha affermato Silvio Ramat all'inizio di un ampio excursus nella critica e nella fortuna del poeta.

Silvio Guarnieri ha individuato il senso della sfida che egli portava alla cultura del suo tempo; Neuro Bonifazi, con un'analisi di penetrante vigore, ha documentato la necessità critica di rovesciare la « figura di disordine » in cui è stato troppo spesso imprigionato il Campana: egli « ha portato la sua folle fede soprattutto di poeta, l'ha documentata in versi non folli », ed il suo intenso linguaggio è « un modo nuovo, il più avanguardistico possibile (anche se il meno futurista) di significare la trasformazione di una forza aggressiva verso le ipocrisie della civiltà in slancio amoroso verso l'uomo nuovo ». Ruggero Jacobbi, attraverso un sondaggio sui temi dell'esilio e della visione, ha proposto una suggestiva lettura di Ho scritto. Si chiuse in una grotta in chiave di contestazione assoluta. Infine la giovane Maura Del Serra, ha indagato, con l'ausilio dei più ravvicinati strumenti critici, alcuni temi campaniani, se­guendone l'evoluzione lungo la direttrice degli stati cromatico-musicali.

Ma dove il convegno è andato decisamente al di là del disegno monografico, e ha profittato dell'incontro nel nome di Campana per riaprire il discorso più generale della condizione della poesia (e, più intimamente, dell'esperienza della poesia) è stato nelle parole di Carlo Bo e di Mario Luzi. Nel nome di Campana s'intitola appunto l'intenso e sofferto colloquio che il critico ha istituito con il poeta. Non solo l'originalità e la solitudine (« padrone di una lingua che non sarà mai di nessuno ») non solo la tremenda necessità (« la sua è una poesia libera, disposta ad annullarsi in una sola ansia di respiro naturale »); ciò che di più profondo e decisivo va riconosciuto al Campana è che egli è il simbolo di una « tentazione nuova » di cui la poesia italiana di questo secolo ha subito il fascino e l'incantesimo, « la tentazione di spezzare il cerchio della tradizione e delle istituzioni »: è questa condizione nuova e assolutamente libera, vagheggiata e perduta, che il nome di Campana indica con il suo esempio. E anche Mario Luzi chiede al poeta Campana « speranze di fondo », il rifiuto di farsi chiudere in una cultura sconfitta qual'è quella di cui vive la poesia italiana da Leopardi in poi.

La novità sostanziale di Campana, ha detto luminosamente Luzi, sta nella « completa integrazione dell'uomo nella vicissitudine del mondo », e i Canti orfici « sono una grande metafora della onnipresenza umile e solenne della vita. Da lì parte un invito ad aprirsi alla inesauribile trasformazione del mondo, esattamente contrario alla volontà sempre sconfitta di ridurre l'uomo entro il limite di uno schema [...] dove ' non cape ' ».

Bastino questi cenni a dar conto della varietà di accenti, e dell'obiettiva importanza, con cui il convegno fiorentino ha reso omaggio al poeta e alla inesauribile energia vitale della sua poesia, — che il lettore di questo volume potrà ritrovare nella loro interezza.