Silvano Salvadori, Gabriel Cacho Millet e Paolo Pianigiani, alla presentazione di "Lettere di un povero diavolo" al Vieusseux

 


Pubblico, dal mio archivio e senza correzione alcuna, la lettera che Gabriel Cacho Millet scrisse al prof. Borsani,

insieme al testo dell'articolo sul ritrovamento de "Il più lungo giorno".

(Paolo Pianigiani)


 

Caro Prof. Borsani,

la prego, prima di dare alle stampe questo scritto, di riguardare l'italiano: anche avendo la massima cura, qualche "spagnolate"  scappa sempre al mio controlo. Mi telefoni, se ha qualche cosa da dirmi.  Suo

                                                                                         Gabriel Cacho Millet

 

In fondo alla bibliografia ho inserito eventuali didascalie per foto e documenti, spediti da Claudio Corrivetti per posta elettronica. Vale!

 


 

IL MANOSCRITTO DI CAMPANA: PERDUTO, RITROVATO E VENDUTO

                                                                                          

Gabriel Cacho Millet

 

   É stato venduto all'asta lo scorso 18 marzo, a Roma, il manoscritto de Il più lungo giorno di Dino Campana (1885-1932) per centosettantacinquemila euro. Ascoltare Fabio Bertolo battere all’asta presso Christie's’ quel quaderno con un'offerta iniziale di centotrentamila euro, a me che ho seguito per anni le contorte tracce del poeta vagabondo si stringeva il cuore. Pensavo a Campana che andava nei caffè di Firenze e di Bologna per vendere personalmente a lire due e cinquanta "con o senza dedica" i Canti Orfici, il libro che rescrisse e che avrebbe rescritto comunque, anche ignorando che Ardengo Soffici gli aveva smarrito il manoscritto con l'ultima stesura.

   Dopo alcune offerte al rialzo, l'autografo è stato aggiudicato all’Ente della Cassa di Risparmio di Firenze, per 213.425 euro, compresi i diritti d'asta.

  "Il più affascinante manoscritto del Novecento italiano”, secondo la felice definizione di Andrea Cortellessa ha infatti una sua storia tutta da raccontare “per la nube mitologica e ‘mitobiografica’ che si porta dietro, nonchè per il valore di involontario quanto irresistibile apologo che riveste" sul senso della poesia.

  Nell'introduzione al carteggio campaniano Souvenir d’un pendu che curai nel 1985, ho provato a ricostruire la storia del manoscritto perduto nel 1913 e ritrovato nel 1971. A quella presentazione rimando.

  Nessuno sa con esatteza quando Campana prese a raccogliere la sua poesia su questo quaderno. Campana lo trovò molto probabilmente tra il materiale didattico del padre oppure dello zio Torquato, ambedue maestri. Questo particolare si può dedurre da due frasi, che sembrano l’inizio di un “compitino” scolastico, scritte in inchiostro violetto, ma non riprodotto nell’edizione anastatica del 1973. Le frasi appaiono in due pagine bianche, all’ultima p. del manoscritto: “Problema. Una carrozza” e a p. 14 (n.n.): ”Una carrozza”.       

   È possibibile invece stabilire che Campana finì di comporre Il più lungo giorno; ciò è avvenuto non prima del 1º agosto 1913, data di pubblicazione di un capitolo del Giornale di bordo su “Lacerba” [an.I, nº15, p.167], da cui il poeta ha ricavato due delle cinque epigrafi o citazioni inserite nel frontespizio e nel controfrontespizio del manoscritto. Le epigrafi del frontespizio sono: da N.N “Solo il dolore è vero”; da Nietzsche, “E come puro spirito varca il ponte” e “L'incesso e il passo dei vostri pensieri tradiscono la vostra origine”; e da A[ndré]. G[ide], “Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista e ciò che importa”. Quest’ultima frase è riportata da Soffici nella pagina lacerbiana del Giornale di bordo una riga più sotto a un suo pensiero sull’arte che Campana, finita la raccolta, ha inserito nel controfrontespizio ed  il cui incipit è :”L’arte deve essere considerata oramai nella sua purezza…”.

   Per la data di consegna del manoscritto e altre carte a Papini e Soffici, siamo confortati dalla lettera che Campana scrisse a Emilio Cecchi nel marzo 1916: “Venuto l’inverno andai a Firenze all'Acerba [sic] a trovare Papini che conoscevo di nome [ il 6 o 7 di dicembre 1913]. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo in un caffé [ il Caffè Chinese, alla stazione vecchia] e mi disse che non era tutto quello che si aspettava (?) ma era molto molto bene e m'invitò alle giubbe rosse per la sera. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po' parlavo troppo bene un po' tacevo. Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze. Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l'avrebbe stampato sull'Acerba. Ma non lo stampò. Io partii [per Marradi] non avendo più soldi”. Siamo alla prima delle tre consegne. Campana riferisce, infatti, che la consegna definitiva del manoscritto e delle altre carte ebbe luogo “ il giorno in cui loro [ Soffici, Papini Marinetti, Boccioni, Carrà, Tavolato, Scarpelli...] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista, incassando cinque o seimila lire ”. La serata ebbe luogo al Teatro Verdi di Firenze il 12 dicembre 1913.

  Trascorsi una decina di giorni, mentre attende dai suoi eventuali editori una buona parola, scrive da Marradi una cartolina a Papini, Soffici e Carrà  “indimenticabili compagni”, inviando la sua piena solidarietà. Ma i "compagni" ancora futuristi tacciono. Offeso ma non più di tanto, scrive a Papini e Soffici: “Li prego di usarmi la cortesia di lasciare i manoscritti miei che ho consegnato a loro presso l’amministrazione di Lacerba. Un uomo da me incaricato passerà a ritirarli.” E’ il 4 febbraio 1914: a Papini restano gli altri manoscritti  mentre il quaderno de Il più lungo giorno passa nelle mani di Soffici che lo smarrisce durante un trasloco. Campana si rifugia quindi ad Orticaia, sui monti di Marradi, portando con sè i manoscritti rimasti delle sue poesie e delle sue novelle e in qualche mese riscrive il libro che intitolerà Canti Orfici.

  All’amico marradese Luigi Bandini (“Gigino”] chiede poi di aiutarlo finanziariamente a pubblicarlo, affermando: “Se sei meno filisteo di quello che sembri, mi devi tu stesso aiutare per farlo pubblicare”. Propone anche a Bandini, di fare una sottoscrizione in paese, “a quota fissa di due lire e cinquanta, con diritto a una copia del libro una volta stampato”. “Io dovevo aiutare nella colletta, racconta Bandini, e- questo era l’ importante- essere il cassiere,‘’perchè –disse Dino- a me nessuno dei tuoi compaesani affiderebbe di certo due lire: nemmeno cinque soldi. Tu sei come loro (vigoroso sputo in terra) e ti stimano. Così fu fatto. Ma duecento lire, a due e cinquanta per ciascuno, volevano dire trovare ottanta sottoscrittori. Troppi. Si arrivò, infatti, a poco più della metà: 44. Sospirando, il povero stampatore s’accontentò di quello che s’era potuto cavare fuori coi mezzi più originali di propaganda ad personam: centodieci lire!

  Il 7 giugno 1914, Campana firma il contratto per la stampa e il tipografo Bruno Ravagli s'impegna a stamparlo “entro il mese di luglio”. A settembre, il libro è in vendita a Firenze, presso la Libreria della “Voce” e la Libreria Gonnelli. Nella vetrina di quest’ultima, ricorda Soffici, “il mio sguardo fu attratto da un libro giallo dall’aspetto francese ma che non era francese, e sulla copertina del quale spiccava un titolo che subito mi pìacque: Canti Orfici [...]. La gioia e lo stupore di quella scoperta si confusero nell’animo mio”. Soffici legge subito il libro “da cima a fondo”, osservando  che a primavera del 1914 con una lettera Campana aveva richiesto il manoscritto e che lui gli aveva risposto di non poterglielo restituire, perché era andato perso in un trasloco dei suoi libri e delle sue carte “da una stanza ad un’altra”, “confuso nel gran sottosopra”.

  Fin quí il ricordo di Soffici corrisponde ai fatti, tranne per un particolare: la data in cui dice di aver risposto a Campana, scusandosi non fu nella primavera del 1914, bensì all’inizio dell’inverno dello stesso anno e più esattamente il 22 settembre. E’ di fondamentale importanza segnalare che Soffici riconosce la sua grave negligenza in questa lettera, a tutt’oggi inedita, quando i Canti Orfici erano stati riscritti, stampati e si trovavano in bella vista nelle librerie fiorentine. Questa lettera, in cui Soffici comunica la perdita del quaderno e loda allo stesso tempo il libro appena scoperto da Gonnelli, prova che Campana, scrivendo i Canti, ha fatto a meno de Il più lungo giorno e dunque che del manoscritto di quest’ultimo non era il solo in suo possesso. Osserva De Robertis, “di ritorno sulle proprie carte si trattò certamente, e non di ritrovamento nella memoria”. Fu Campana stesso scrivendo a Cecchi e Giovanni Boine, a parlare per primo della riscrittura a memoria dei Canti Orfici, alimentando la mitografia campaniana sul manoscritto, lungo il Novecento fino ai nostri giorni.

  I posteri legheranno quel mito alla leggenda di Campana pazzo, per aver cercato di ricostruire a memoria il libro perduto, o meglio “sequestrato”, temendo che possa mettere in ombra la poesia di Soffici o quella di Papini che Campana considerava composta “da un contadino che avesse letto Baudelaire”!

  Soffici non si capacitò mai sulla ragione del silenzio di Campana dopo la prima richiesta del manoscritto, il 4 febbraio 1914, e non capì mai come “aveva cosi inesplicabilmente messo riparo” alla sua negligenza, pubblicando il libro senza che lui ebbe ancora restituito il manoscritto.

  Non si rese conto che i Canti Orfici erano una scelta poetica di Campana, non la mera conseguenza dello smarrimento dell’autografo. Il manoscritto, rimasto a casa sua, non è ancora “il libro” o in ogni caso non è il libro finito. Certamente, contiene poesie e novelle da pubblicare opportunamente “a pezzi” su riviste e giornali. Era impensabile che Papini potesse stamparlo integralmente su “Lacerba” e impensabile pure che un manoscritto “in movimento” con cinque epigrafi, citazioni sul frontespizio e controfrontespizio e il titolo (insieme al nome dell’autore) sul rovescio della copertina, fosse destinato alla pubblicazione. “Obrero trabajando”, ("Lavori in corso"] avrei scritto io, nella mia iberica lingua, sul frontespizio del quaderno, per indicare al lettore una raccolta di testi in cui il colore, ad esempio, attende ancora “di essere stremato sino alla folgorazione del bianco, oppure addensato e ricalcato sino al più nero bitume notturno” (Ruggero Jacobbi).

  É una conclusione frutto di una lettura superficiale quella cui giunge Soffici, quando dice che la materia dei Canti Orfici  “era la stessa di quella dello scartafaccio smarrito, appena ritoccata qua e là, e con soltanto un paio di componimenti aggiunti, fra cui i versi dedicati al mio quadro futurista dell’inverno passato”.

   Campana, nel 1914, non ritornò a chiedere il manoscritto dopo il 4 febbraio, perchè possedeva altre carte sulle quali lavora non più da 'vate' guidato dal dannunziano “numero che governa i bei pensieri”,  ma da 'cantore' e da  cantore di valenza orfica. I Canti Orfici non sono la ricostruzione, ma il ripensamento più intenso e originale del poeta di Marradi. Così la materia dei Canti Orfici non è più meno la stessa de Il più lungo giorno, ritoccata qua e là, come ha scritto Soffici, ma un libro che possiede una sua unità, che si apre come Die Tragödie des letzten Germanen in Italien (La tragedia dell'ultimo barbaro in Italia) e si chiude con due versi di Whitman, lasciando “tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo”, vale a dire, col sangue del poeta assassinato. Non va quindi confuso con quel “contenitore” di poesie e novelle da rileggere, onde evitare le “idiotaggini” di ciò che si riscrive, nell’istante in cui, “sperso per il mondo”, il poeta è raggiunto misteriosamente dall’ispirazione.

  É ancora da appurare, quale ruolo abbiano avuto nell’indirizzo orfico del poeta di Marradi, mentre riscriveva il suo unico libro, le conversazioni avute con gli amici di Bologna su Edouard Schuré‚ sui miti solari e sul orfismo e fino a che punto nel 1914, avesse presente anche la poesia giovanile di Bino Binazzi, che, guarda caso, si intitola Canto Orfico e reca un'epigrafe tratta da Les grands initiés: "...e la lumière est aussi la parole de vie./ Schuré".

  Il lettore si domanderà come mai allora Campana richiese a Papini e a Soffici  il solito manoscritto due anni più tardi, minacciando addirittura di usare il coltello?

  Da sempre critici e biografi hanno confuso il Campana orfico, che nel '14 riscrive i Canti, ferito dai silenzi e dalla scarsa stima che i suoi scritti inediti avevano suscitato in Papini e in Soffici, con il Campana del '16 che va perdendo il controllo di se stesso, affidandosi all’'istinto e valutando, come direbbe Ottone Rosai che presso la "Ditta Soffici-Papini and Compagni", "c'è spionaggio e complicità di carne venduta". Soffici così diventa "il sequestratore" da sfidare a duello, se non avrà restituito il manoscritto e le altre carte e Papini pronto per l’accoltellamento.


                                                                          Marradi, 23 gennaio 1916        

A Giovanni Papini,

                            Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò.

                                                                                           Dino Campana


      

  Siamo al 1916  e Dino vuole ristampare i Canti, consigliato da Cecchi e da Binazzi già alla fine del 1915 di pubblicare i suoi “dolorosi frammenti” in una nuova scelta, coll’aggiunta dell’ultime cose. Per questo Campana torna a chiedere notizie del quaderno e crede che “certe idiotaggini non c’erano nel manoscritto di Soffici” Ed sarà allora e soltanto allora che egli scrive violentemente a quelli che considera i sequestratori intenzionali del manoscritto.

  Ma cosa erano infine “le altre carte”, consegnate in quel fatidico 12 di dicembre 1913? Alcuni Papini li trattenne con sè fino al 1916 e li restituì, dopo aver ricevuto il biglietto con la minaccia di accoltellamento; altri, due per l'esattezza, Papini non li restituì mai, e  vennero ritrovati settanta anni più tardi dagli eredi. Del primo gruppo di manoscritti s' ignorano titoli e contenuti: si sa soltanto che sono stati restituiti. Tra questi potrebbe figurare una sorta di manifesto campaniano, “un bozzetto meraviglioso di un’arte veramente nuova” inviato per posta a Papini nel 1913 e mai ritrovato. Del secondo gruppo si sa in concreto tutto: i manoscriti sono due e sono stati chiamati da Ezio Raimondi “Autografi lacerbiani”, perché destinati da Campana a quella rivista. Essi contengono la prima versione della "novella" Il Russo (storia vera) e la prosa, ancora senza titolo, Crepuscolo mediterraneo, seguita dalla Lettera aperta a Manuelita Etchegarray e da una lezione di Pampa, precedente a quell'edita nei Canti Orfici. I due autografi, acquistati dalla Soprintenza ai Beni librari e documentari della Regione Emilia-Romagna, nel 1985, sono conservati attualmente presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena e sono stati editi da me in una plaquette, nel 1997, e poi in Sperso per il mondo,nel 2000.

  Veniamo ora al mistero del quaderno ritrovato. La figlia di Soffici, Valeria, mi disse che il giorno in cui ritrovò, nel 1971, il manoscritto de Il più lungo giorno, prima d'informare sua madre e il poeta Mario Luzi, credette d'avere fra le mani "una bomba". Nella ricostruzione della storia degli autografi di Campana, riportata nella plaquette Dolce illusorio Sud, al momento di segnalare il rapporto tra Il più lungo giorno  e "le altre carte", che mi accingevo a trascrivere, dimenticai involontariamente di ricordare il ruolo avuto da Luzi nella gestione del rinvenimento e della pubblicazione del manoscritto. Trascrivo la lettera-testimonianza che egli, il più campaniano dei poeti italiani, mi scrisse in quell'occasione, perché contiene una sintesi degli sviluppi della vicenda:

 

[Firenze ,] 13-9-98

Caro Cacho Millet ,

      É una ricostruzione puntuale la tua, che a me sembra persuasiva, specialmente con i testi e i documenti ritrovati da te.

     Mi è un po' dispiaciuto che tu non abbia minimamente accennato alla parte che ho avuto io -pur non decisiva- nella gestione del ritrovamento del manoscritto (Il più lungo giorno) fatto da Valeria Soffici tra le carte del defunto padre.     

    Valeria telefonò subito me. Mi consegnò il quaderno e io lo tenni presso di me alcuni giorni, lo lessi, lo esaminai, mi resi sommariamente conto delle varianti intervenute nell'edizione a stampa.

     Infine detti la notizia ed espressi i miei giudizi sull'interesse grande del fatto in un lungo articolo sul "Corriere della Sera"[del 7 giugno 1971]. Dopo di che, fattisi vivi gli eredi come si desiderava, misi in contatto Valeria Soffici e suo marito con le nipoti siciliane di Campana. Il mio compito era finito.

   Ma consigliai io a Vallecchi di affidare a De Robertis la stampa diplomatica. Non è vanità ma memoria di una grande emozione.

                               Tuo

                               Mario Luzi


 De Robertis, infatti, per indicazione di Luzi, curò presso Vallecchi la prima edizione del manoscritto, in due volumi, con la riproduzione anastatica e il testo critico, un'edizione che segnò uno spartiacque nella storia della pubblicazione e trascrizione degli autografi campaniani.

  Il manoscritto fu esposto, nel 1973, al Gabinetto Vieusseux, durante il Convegno su Dino Campana. Dodici anni più tardi, in occasione del Centenario della nascita del poeta, nel 1985, rimase in mostra per un mese nella Sala del Consiglio comunale di Marradi. É ricomparso in questi giorni da Christie's, per  essere venduto all’asta. Dopo essere rimasto di fatto inaccessibile per quasi vent'anni, chiuso in cassaforte a Palermo.

  Riguardo all'anno del ritrovamento, ho sempre sospettato che Soffici avvesse scoperto Il più lungo giorno molto prima della data in cui inviò nel 1957 una lettera a Michele Campana (da me trovata negli Archivi della Fondazione Primo Conti), nella quale sembra intenzionato a rivelare la sua scoperta. Soffici, credendo come tutti che Michele fosse "cugino" di Dino, lo invitò a fargli visita nella sua casa di Poggio a Caiano, per mostrargli i manoscritti del Marradese in suo possesso:

 

    Caro Campana,

                            In altri tempi ci si dava del tu ed io intendo di continuare la buona creanza [...]. Spero, caro Campana, di vederti presto quí, a Firenze, e al Poggio, dove io sarò di ritorno sulla metà d'ottobre. Tanto più che, al Poggio, avrei qualche cosa da mostrarti e da dirti, riguardante  il tuo cugino Dino.

                           In attesa ti ringrazio del bel dono dei bei versi [Gioia di lotte e Tre squilli, con inclusa una poesia su Dino Campana] ti saluto affettuosamente

                                       tuo

                                              Ardengo Soffici


  S'ignora se Michele Campana andò a visitare Soffici nella sua casa a Poggio a Caiano. Quello che si sa con certezza è che, nella sua casa di campagna, Soffici conservava oltre alle lettera che Dino Campana gli aveva scritto tra il 1914 e il 1918, l'autografo della poesia Domodossola, maggio 1915, sera, da me pubblicata nel 1978, e il manoscritto de Il più lungo giorno.

  Soffici, a quanto sembra, neppure in quell'occasione volle che "la bomba" gli esplodesse nelle sue mani. Decise di "fermarsi in  tempo", quando in una intervista a Falqui  ("La Fiera letteraria", 14 agosto 1953] ricordò che Campana aveva posto come epigrafi, "in fronte a un manoscritto dei Canti Orfici", parole di Nietzsche e di Gide. Inoltre, nella sua dichiarazione a Falqui, aveva citato l'esatto contenuto delle epigrafi, dando prova di una memoria prodigiosa, poichè era riuscito a ricordare tutte le parole lette quasi mezzo secolo prima, nell'inverno del '13 "in fronte" al manoscritto, prima dello smarrimento.

  Soffici ha affermato in molte occasioni che Campana era "un eccellente poeta" e anche un suo "amico", ma dichiarare pubblicamente di aver ritrovato il manoscritto quarant'anni dopo, deve essergli sembrato impossibile. La notizia avrebbe certamente sollevato un'ondata di critiche nei suoi confronti, che non si sarebbe sentito di affrontare.

   Il  13 settembre 2002, il critico d'arte Luigi Cavallo, revelò su "Il Giornale" come egli aveva ritrovato il manoscritto sei anni prima di Valeria Soffici, nella casa del pittore a Poggio a Caiano. Nello stesso giornale, qualche giorni dopo, il 5 ottobre,  rivelò la ragione per cui il manoscrito restò nel cassetto di casa Soffici e Luzi allora mi disse al telefono che, se fosse stato vero, sarebbe “molto più grave dello smarrimento stesso".

   "Nei primi mesi del 1965, scrive l'esperto di pittura sofficiana,  lavoravo nella casa di Soffici a Poggio a Caiano, adunando materiale per la monografia della pittura, mi venne tra mano il manoscritto di Campana confuso con dovizia di altre carte[...]. Certo il manoscritto di Campana aveva rilievo straordinario, ma era stato deciso che solo quando l'intero corpus dell'archivio fosse stato ordinato si sarebbero avviate iniziative di pubblicazione". E a aggiunge:"Di quel ritrovamento furono comunque informati i figli di Soffici, Valeria e Sergio, e il genero di Papini, intimo di famiglia, Barna Occhini".

    Infine, Cavallo ricorda che il documento non venne diffuso perchè "il rispetto per l'autografo di Campana consigliava di non affrettare la diffusione dellla notizia [...] L'intenzione era di non dare appigli per mescolare fatti squisitamente letterari con argomenti politici, vista la damnatio memoriae di cui era stata afflitta la figura di Soffici".

    Luzi considera il silenzio della famiglia Soffici intorno al manoscritto, ritrovato dallo stesso Cavallo nel 1965, un anno dopo la morte del pittore, "un arbitrio grave". Così scrive sul "Corriere della Sera” del 3 ottobre 2002: "Dunque il manoscritto ritrovato sarebbe stato custodito in silenzio per tutto quel tempo senza che a nessuno della famiglia Soffici e nemmeno a Luigi Cavallo venisse in mente che si stava commettendo un arbitrio grave nei confronti della storia di Campana e della storia della poesia italiana e degli studi correlativi; nonchè dell'appassionata aspettativa di molti cultori di questa memoria". E l'anziano poeta conclude : "Mi riesce difficile crederlo".   

   Il mio personale dubbio riguarda sopratutto "il silenzio" di Valeria Soffici. Pure a me riesce difficile credere che la figlia del pittore mentisse,  quando mi disse  di aver scoperto il manoscritto nella casa di Poggio a Caiano nel '71 e mi parlò del suo stupore per il ritrovamento. Che suo padre lo sapesse e non volesse rivelarlo, l’ho invece sempre sospettato. Intanto, dovrei credere nell'affermazione di Cavallo, confermata in parte anche dal critico e pittore Sigfrido Bartolini, il quale suppone che il manoscritto potesse essere stato trovato a metà degli anni cinquanta nella casa di Poggio a Caiano durante "un generale riordino" delle carte di Soffici del quale fu testimone insieme al pittore  Pietro Bugiani.

    A questo punto non so a chi credere. Vorrei tanto che Valeria Soffici fosse viva per chiederle quale sia stata realmente la verità.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dino Campana, Canti Orfici, Tip. Ravagli, Marradi 1914.

Ardengo Soffici, Dino Campana a Firenze, in "Gazzetta del Popolo" (Torino), 30 ottobre 1930, ora in Ricordi di vita artistica e letteraria, Opere VI, Vallecchi, Firenze 1965.

Luigi Bandini, Con me e con Campana, in "Meridiano di Roma, 17 aprile 1938.

Dino Campana oggi. Atti del convegno Firenze 18-19 marzo 1973,  Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux, Vallecchi, Firenze 1973.

Dino Campana, Il più lungo giorno, 2 voll. Vol. I. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici. Vol.II. Testo critico a cura di Domenico De Robertis, prefazione di Enrico Falqui, Archivi - Vallecchi, Roma - Firenze 1973.

Dino Campana, Opera e contributi, a cura di Enrico Falqui, prefazione di Mario Luzi, note di Domenico De Robertis e Silvio Ramat, Carteggio con Sibilla Aleramo, a cura di Niccolò Gallo, 2 voll.,Vallecchi, Firenze 1973.

Domenico De Robertis, La "delusione" di Campana, "Il Tempo" (Roma), 21 novembre 1976.

Gabriel Cacho Millet, Quasi un uomo (Visita al poeta Dino Campana nel Manicomio di Castel Pulci), Tip. Colangelo, Roma 1977 (con la riproduzione in copertina del biglietto inedito di D. Campana a G. Papini del 23 gennaio 1916 ).

Dino Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Cacho Millet, Quaderni della Fondazione Primo Conti-All'Insegna del Pesce d'Oro, Fiesole-Milano 1978.

Ruggero Jacobbi, L'aventura del Novecento,  Garzanti, Milano 1984.

Dino Campana, Souvenir d'un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a cura di Gabriel Cacho Millet, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985.

Gabrieì Cacho Millet, Dino Campana fuorilegge, Novecento, Palermo 1985.

Carlo Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Vallecchi, Firenze 1938 (rist. come C.P.,Vita non romanzata di D.C., a cura di C. Ortesta, Guanda, Milano 1978, poi, a c. di T. Gianotti, Ponte alle Grazie, Firenze 1994).

 Dino Campana, Inediti, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi 1942.

Cronistoria Enrico Falqui, Per una cronistoria dei "Canti Orfici", Vallecchi, Firenze 1960.

 Dino Campana, Dolce illusorio Sud, Autografi sparsi 1906-1918, a cura di Gabriel Cacho Millet, Edizioni Postcart, Roma 1997.

Dino Campana, Sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, a cura di Gabriel Cacho Millet, Provincia di Firenze-Cultura e memoria, 16, Leo S. Olschki, Firenze 2000.

 Luigi Cavallo, Come nel '65 ritrovai la copia smarrita tra le carte di Soffici a Poggio a Caiano, in "Il Giornale" (Milano), 13 settembre 2002.

Mario Luzi, Campana, il mistero del manoscritto scomparso, in "Corriere della Sera" (Milano),  3 ottobre 2002.

Luigi Cavallo, Caro Luzi, ecco perché Campana restò nel cassetto, "Il Giornale" (Milano), 5 ottobre 2002.

Sigfrido Bartolini, Con Soffici. Resti di memoria, Associazione Culturale Ardengo Siffici di Poggio a Caiano, Firenze 2003.

Catalogo della Christie's Roma. (Scheda del manoscritto di Dino Campana, Il più lungo giorno, non firmata ma di Andrea Cortellessa), Asta del  giovedì 18 marzo 2004.