«Verrò a Firenze per rompervi la testa »

 

di Enrico Falqui


da “La Fiera Letteraria”, numero 8, giovedì 23 febbraio 1967

 

 

Prima della riscoperta del manoscritto Il più Lungo Giorno, presentato al mondo nel 1973, così Falqui sottolineava l'assoluta importanza della perdita da parte di Soffici. (p.p.)

 

A proposito di Dino Cam­pana e dei suoi Canti orfici vogliamo oggi ren der pubblica, e così sottoporre all’altrui riflessione, una circo ­stanza che ci sorprende non sia stata ancora avanzata, con la dovuta sottolineatura, da parte di altri, pur essendo numerosissimi coloro che si sono, anche molto sottilmente, occupati dell’opera. L’osservazione riguarda l’integrità del testo dei Canti orfici, quale fu stam­pato, in Marradi, dal Ravagli nel 1914. Testo che, dopo l’edizione curatane dal Binazzi, per Vallecchi, nel 1928, noi potem­mo migliorare nelle successi­ve ristampe vallecchiane del ’41, del ’52 e del ’60, sempre prendendo e tenendo a campione quello della prima edizione, secondo il preciso desiderio dello stesso autore, tut­tavia consapevoli, per sua stessa ripetuta confessione, delle inesattezze e delle incertezze cui non gli era stato disgraziatamente possibile sottrarre quelle pagine, scritte « in va­ri intervalli della sua vita er­rante » e lasciate « come a te­stimonio di sé medesimo ». Una testimonianza sulla fedel­tà della quale il Campana in­terveniva di frequente, a voce e per iscritto, con giunte e va­rianti e correzioni nelle copie offerte agli amici o vendute a estranei: segno che non finiva di esserne insoddisfatto.

La miserrima vicenda del te ­sto originale dei Canti orfici è ormai nota in tutti i suoi particolari, molto più gravi di quanto non risulti dal racconto lasciatocene dai due responsa­bili: Papini (Autoritratti e ri­tratti, 969-973: Mondadori, 1962) e Soffici (Ricordi di vita arti­stica e letteraria, 81-94: Vallec ­chi, 1965; Fine di un mondo, 445-447: Vallecchi, 1955).

Né noi ci siamo fatti scru­polo di riferirla e commentar­la nella Cronistoria dei « Canti orfici » (Vallecchi, 1960). A rias­sumerla in poche parole, si trattò di questo: nell’inverno dei 1913, una mattina, mentre si recavano nella tipografia Vallecchi dove si stampava Lacerba, Papini e Soffici furono accostati da uno strano scono­sciuto, venuto appositamente da Marradi a Firenze, senz’altro aiuto che quello delle sue gambe, per consegnar loro un libretto: « un vecchio tac­cuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensa­li e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite ». (Soffici). Quel li bretto conteneva i Canti orfici e non dispiacque ai due ami­ci. « Ci disse che si chiamava Dino Campana » e che avreb­be gradito di veder pubblica­to in Lacerba qualcuno dei suoi scritti, sempre che fosse piaciuto. Ma poi scomparve e non si lasciò ritrovare, a Firen­ze, che alcuni mesi dopo, in occasione di una mostra futu­rista, alla quale partecipava an­che Soffici; e da allora pre­se a frequentare l’ambiente artistico-letterario dei caffè « Giubbe rosse » e « Paszkowski », ma senza più chiedere notizia del libretto e della pos­sibilità di stamparne qualche componimento in Lacerba. (Soltanto nel numero del 15 novembre 1914, cioè dopo la pubblicazione dei Canti orfici avvenuta nell’estate, apparve­ro nella rivista: Sogno di prigione, L’incontro di Regolo e Piazza Sarzano. Cfr. Cronistoria, 47-48, 101, 114). Poi sparì di nuovo « e nessuno seppe più nulla di lui ». E’ sempre Soffi ­ci a raccontare: « Verso la pri­mavera del quattordici, ricevetti da Marradi una sua let­tera con la quale mi richiede­va il manoscritto, di cui mi diceva non aver altra copia, e che intendeva pubblicare in volume. Ma io dovetti allora scusarmi di non poterglielo mandare: in un trasloco che nel frattempo avevo fatto da una stanza a un’altra dei miei libri e delle mie carte, il libriccino era andato confuso nel gran sottosopra, e doman­davo tempo per rintracciarlo. Tentai infatti di farlo: ma inu­tilmente: pensavo del resto che la cosa non fosse di gran­dissima urgenza, tanto più che Campana, dopo quella prima richiesta, non aveva fatto alcun’altra pressione, e anzi non dava nemmeno più alcuna no­tizia di sé ». Triste vicenda, raccontata con una disinvoltu­ra e interpretata con un’indif­ferenza che rasenta la crudel­tà.

Ma la versione di Papini è ancora più sbrigativa, giungendo a escludere d’aver mai ri­cevuto e preso nulla in consegna da parte di Campana. (Cfr. Cronistoria, 45-46). Si desse dunque pace il poeta: non era poi il caso di agitarsi eccessivamente.

Quanto rovinosa fosse stata, invece, la perdita per il già vacillante Campana, abbiamo documentato nella citata Cronistoria con lettere e cartoline, di disperazione e di minaccia, inviate dal poeta al Papini, al Serra, al Cecchi, al Novaro e al Boine. (Cronistoria, 44-45). Si trovò costretto a riscrivere a memoria l’intero libro, poi ­ché assai pochi componimen­ti ne erano già usciti in rivi­sta: ed è facile immaginare con quanta pena, tra irosa e rassegnata, abbia dovuto farlo. Quel libro era stato approntato per la stampa e recava fe­delmente la lezione elaborata dall’autore in un periodo di tempo e in condizioni di salu ­te non certo paragonabili alla fretta e allo sgomento di quan­do si trovò a dover rimediare alla perdita di quanto aveva di più prezioso per la salvaguardia del suo onore. Si comprende come il Soffici abbia cercato, per sgravio di cono­scenza, di sminuire la gravità dell’accaduto. Ma nel contem ­po si giustifica la veemenza con la quale Campana insorse con­tro coloro che lo avevano cacciato in tanto orgasmo, peg­giorato — in lui scosso di mente — dal sospetto che l’ac­caduto fosse da attribuire a una congiura.

Una cartolina a Giovanni Boine, in data 18 gennaio 1916, trasmessaci dalla amichevole partecipazione di Mario Nova­ro al nostro lavoro di restau­ro per l’edizione riveduta e corretta dei Canti orfici, la­scia ben intendere in quale mi­sero stato fosse piombato Cam­pana.

 

« Monsieur mon ami, il y a 3 ans ceux de mon village réussirent à s’accorder avec les professeurs de l’Universitè qui me firent piacer sous l’ètroite surveillance des flics qui de suite me frappèrent à coup de crosse de revolver et m’empéchèrent de terminer ma quatrième année de chimie. Je partis alors sur la monta ­gne et j’écrivis en quelques mois ce que j’appellais aprés Canti orfici. L’hiver venu je presenta mon manuscritto à papini à florence qui m’accueillit très bien mais le jour après, étant assurement vendu aux flics qui ne perdaient pas un de mes pas, (Giolitti imperante) se fit donner mon manoscritto qui passa ensuite dans les mains de Soffici et je n’ai l’ai plus revu. Ainsi ces chacals m’avaient volé ce qui devrait íªtre ma defense et la justification de ma vie pendant que, empeché de quitter l’italie, j’allais succomber à la ca ­morre partout organisé où je fuyais (par les flics). Je retourna à la campagne et j’écri ­vis de memoire mes Canti or ­fici et je reussis à le faire publier par un brute de mon vil ­lage. Soffici l’infame m’écrivis une lettre qui vantait mon oeuvre mais ne voulus me rendre mon manoscritto, et ce se ­ra certainement un titre bon pour lui, puisque je créverais bien demain (je suis mentainant un peu paralisé). Or je lui ai écrit: sale negre je viendrais à florence avec un baton pur vous casser la tète. Ecrivez moi si votre làcheté vous permet de me donner un rende-vous pur ga. Merde macaroni — Mais bien qu’il ne me repondra pas je suis decidé avant de quitter le macaroni de casser les reins à ces chacals. Cela pur que vous sachiez. Et vous dites qu’il ni a rien à fair maintenant!… ».

 

Pur senza seguire Campana in simili sospetti di persecu­zione, non si può sottovalutare l’irreparabile sfortuna abbatta­tasi contro uno fra i testi più singolari e vitali del nostro Novecento. E in qual modo abbia Campana dovuto ricostruirlo tutto a memoria è stato accertato dal Gerola (nel suo saggio su Dino Campana: Sansoni, Fi­renze, 1955) : « Perché la copia riuscisse più ordinata e facil­mente leggibile, si faceva scrivere il testo da impiegati del municipio di Marradi… Arriva­va la mattina nell’ufficio del segretario comunale, entrava e, senza salutar nessuno, anda­va presso la dattilografa e le ingiungeva imperiosamente: “Scrivi”. Tutti lasciavan fare. Egli dettava lentamente, con straordinaria concentrazione, correggendo e rifacendo fre­quentemente. A volte, non riu­scendo come voleva, s’arrab­biava, strappava il foglio dal­la macchina e ne faceva una pallina e lo buttava nel cesti­no ». E analoga testimonianza fu rilasciata dal capo dell’Ufficio di Stato civile dell’Anagra­fe di Marradi e direttamente registrata dallo Zavoli (nel vo­lumetto Campana Oriani Panzini Serra: Cappelli, Bologna, 1959): « Dino veniva nel mio ufficio e, senza badare se le esigenze lo permettevano, or­dinava al mio dattilografo di battere a macchina i versi che egli dettava dagli appunti pre­si su pezzetti di carta straccia e che tirava fuori dalle varie tasche del suo vestito. Accadeva spesso che il dattilografo commettesse degli errori di scrittura e allora Campana, do­po un sacco di improperi, non esitava a strappargli il foglio e a fargli ripetere la battuta ».

 

Pare che girasse armato di coltello

Si può supporre nulla di più esasperante per un autore an­che di natura pacifica? E pur dando per sicuro che Campana il suo libro l’avesse impres­so nella mente, come non sen­tire la sua sofferenza allorché, di colpo, si trovò a doverlo ricomporre tutto di seguito? Avrebbe voluto vendicarsi. Sembra che si fosse armato di un coltello col quale far giustizia. Lo scrisse anche a Papini, avvertendolo. Lo comuni­cò ai conoscenti. E quale im­portanza può avere il fatto che Campana rispose gentilmente, in data 27 ottobre 1914, a una lettera con la quale Soffici si complimentava e rallegrava con lui, non senza una punta di rimorso e un respiro di sol­lievo, per aver visto in vetrina e subito acquistato e subi­to letto con favore una prima copia dei Canti orfici? A placarlo si aggiunse anche la pub­blicazione in Lacerba dei tre componimenti. Meglio tardi che mai, quantunque in una minuta di lettera al Papini, va­lida anche per Soffici, avesse avvertito: « Li ringrazio del ­l’offerta fattami di stamparmi su Lacerba e la declino: con tutta la stima che ho verso di loro mi sembra che Lacerba non abbia alcuna intenzione di assumere un carattere lettera­rio: è dunque un inutile di­sturbo che loro si prendono quello direstare in certo modo legati a un ignoto e com­promettente poeta della mia specie… ». Ma la lettera fu spe­dita? E quale era lo scritto del quale esigeva la restituzione? I tre componimenti dei Canti orfici? In ritardo sull’appari­zione del libro, avvenuta nel ­l’estate del ’14, Lacerba li pub­blicò, quasi come una primizia, nel numero del 15 novembre 1914 e fu motivo di vanto per Papini e per Soffici.

Dove gli toccò aspettare più a lungo fu alla Voce, cui pur si era indirizzato, fin dal 6 gennaio 1914, con una strazian­tissima lettera al Prezzolini, per presentargli inutilmente La chimera. (Cfr. Prezzolini: Il tempo della « Voce », 589- 592: Longanesi, Milano, 1960; Falqui: Cronistoria, 27-29). « Mi tenne lontano da lui », ha raccontato Prezzolini, respin­gendolo ancora una volta, « un certo suo modo di fare strano (che più tardi prese forma pre­cisa di follia) e anche la con­vinzione, che non mi perito di confessare, che i suoi meriti poetici fossero allora e siano ora esagerati. Temo che il pittoresco della sua vita sia stato confuso col poetico della sua opera ». Opinioni: e al Cam­pana fu giocoforza aspettare che la direzione della Voce pas­sasse dal Prezzolini al De Robertis, per veder finalmente pubblicato Frammento (il Ba ­stimento in viaggio dei Canti orfici: Cfr. Cronistoria, 59-60, 67-68, 124) nel numero del 15 aprile 1915, dopo che già in quello del 30 dicembre 1914 lo stesso De Robertis aveva, tra i primissimi, recensito po­sitivamente i Canti orfici. (So­no date meritevoli di essere sottolineate, per quanto signifi­cano e valgono di collaborazio­ne alla poesia del Novecento).

Ma forse ciò attenua la durezza del colpo ricevuto da Campana? Rimedia allo sconquasso? Ripara al danno? Re­stano irrimediabili: e il testo dei Canti orfici di cui disponia­mo è, per così dire, un testo di fortuna. Vivo e cosciente l’autore non ne furono antici­pati in rivista che Le cafard, La chimera, Dualismo nel nu­mero unico goliardico Papiro dell’8 dicembre 1912 e Torre rossa — Scorcio nell’altro nu­mero unico universitario Il goliardo del 18-20 febbraio 1913. (Cfr. Cronistoria, 120-122; Can­ti orfici e altri scritti, 160-261, 258-259, 265-268, 269-273). Ma questi componimenti erano già stati rimaneggiati dall’autore, per essere compresi nei Canti orfici, prima ancora che « il libretto » andasse perduto. Ba­sta riconfrontare le varie le­zioni per accertarne il rifaci­mento e il riordinamento.

Nei periodi d’ispirazione, Campana dovette scrivere con impeto quasi focoso, dato il temperamento; e del resto lo provano le date stesse: comin ­ciati a comporre nel 1912, i Canti orfici nell’autunno del ’13 furono ultimati; riscritti a forza (dopo lo smarrimento) nel ’14, vennero pubblicati in volume nell’estate dello stesso anno. Tutto a tempi molto ac ­celerati; ma la seconda volta, per di più, con una mente in subbuglio, un po’ per l’ira e un po’ per lo sgomento. Sicché il testo dei Canti orfici sul qua ­le continuano a essere eserci ­tate analisi capillari, quasi per carpirne il segreto, non è forse infondato considerarlo, in certo qual senso, improvvisato, ri ­spetto a quello della prima le ­zione, diversamente elaborato, e tuttavia neppur esso tale da soddisfare le rigorose esigen ­ze dell’autore. Prova ne sia che il Campana, nel 1930, scri ­vendo al Binazzi dal fondo del manicomio di Castel Pulci, in occasione della seconda edizio ­ne dei Canti orfici curata dal Binazzi (Vallecchi, 1928), la ­mentò che a suo tempo gli fos ­sero venute a mancare le for ­ze per perfezionarli: « e non potei offrire che una raccolta di effetti lirici qua e là lasciati a lo stato di natura… Rima­sugli di versi, povertà, strofe canticchiate: se ne potrebbe riempire un quadernetto. Ma che farne, tutto va per il me ­glio nel peggiore dei modi possibili ». Né mancò né cessò di continuare a lamentarsi del ­l’edizione Binazzi rinviando al­l’edizione Ravagli, reputandola in cuor suo molto migliore di quanto in realtà non fosse, se ne mettiamo a confronto le dif ­ferenze e le alterazioni (come noi abbiamo fatto: Cronistoria, 23-25, 53-56) e se teniamo con ­to delle tante varianti da lui stesso apportate all’una e al­l’altra copia, come risulta sia dalle registrazioni che abbiamo potuto eseguirne e sia da alcune dichiarazioni rilasciate al medico Pariani.

« Mi pare ancora di vederlo con quel suo cappello rotondo, di feltro, e il giacchettone dal­le tasche ampie, piene di fogli di carta, di libretti; perché Campana portava sempre con sé, gelosamente, i manoscritti della sua prosa e dei suoi ver­si, per averli sottomano quando gli fosse venuto l’estro di rileggere, di limare, di rifinire ». (Zavoli). E questo lascia supporre che, anche per ricom­porre i suoi Canti orfici, si sia aiutato con fogli e foglietti gremiti di appunti e di abbozzi.

Ma non sempre dovette riu­scirgli e il gruppo di scritti riuniti sotto il titolo Varie e frammenti quasi lo documen­ta con i suoi frammenti e con le sue interruzioni e sospensioni.

Con questa rinnovata preci­sazione non si vuol togliere o diminuire importanza alla lezione dei Canti orfici, che è l’unica di cui disponiamo e che reca l’approvazione dell’auto­re. Ma solo ci si rivolge a ta­luni sottilissimi esegeti del ­le sillabe e delle varianti di quei « canti », per far loro presente o rammentare che — co ­me abbiamo già notato nella prefazione del Taccuinetto faentino (Vallecchi, 1960) —- alcunché d’incerto e d’appros­simativo vi s’insinuò fatalmen­te e non pochi sono i tratti in cui s’avverte qualche incompiu­tezza e insufficienza. Ciò non dovrebbe indurre a un’analisi e a una valutazione di questi testi non troppo esclusivamen­te affidate a una sillabazione di varianti e controvarianti, imposta all’autore, e resa più drammatica, proprio dalla mi ­sera condizione di urgenza in cui era venuto disgraziatamen ­te a trovarsi, dopo la perdita del testo originale, senza volervisi rassegnare e anzi sfor ­zandosi d’uscirne facendo ap ­pello, per ricomporlo, a tutte le sue risorse? Allo stesso mo ­do che non sarebbe sbagliato procedere più cautamente in certe affermazioni riguardanti momenti e passaggi e raccor ­di, soste e riprese di quei « canti », cui di sicuro non ori ­ginalità ha tolto il fatto d’esse ­restati, in un simile frangente, ricomposti a memoria da un autore quasi delirante, ma in ­dubbiamente ha insidiato e menomato la loro primitiva inte­grità.

 

Un poeta « maudit » o un mentecatto

Anni addietro fummo criti ­cati da Luigi Russo (in La cri­tica letteraria contemporanea, I, 136-142: Laterza, Bari, 1942) per non sappiamo quale ecces­so di filologismo demmo prova impegnando ogni scrupolo nella ristampa degli scritti di Campana. E già allora non mancammo (in Primato dell’1 agosto 1942) di manifestare la nostra sorpresa e il nostro rincrescimento nel vedere irrisa la necessaria cura adoperata in prò della terza nostra edizio­ne (Vallecchi, 1941) di uno tra i più laboriosi testi della poe­sia italiana contemporanea. Ed eravamo nel ’42, appena alla ri­presa degli studi sul Campana, sollecitata anche dalla scoperta e dalla pubblicazione del quaderno degli Inediti (Vallec­chi, 1942), cui più tardi dove ­vamo dar seguito e completa ­mento con il Taccuinetto faen ­tino. Da allora la bibliografia critica intorno al Campana non ha fatto che crescere e infol­tirsi. I Canti orfici hanno offerta materia a numerose tesi di laurea, a documentazioni biografiche e a ricerche critiche, quali forse non vanta al­cun altro nostro poeta contemporaneo. Ma non a causa di questo crescente riconoscimen­to dell’importanza di Campana, sottoscriveremmo le recri­minanti insinuazioni, avanzate dai papiniani della rivista L’ul­tima (settembre 1946) e dal Papini stesso avallate (Autoritratti e ritratti, 969-973: Mon­dadori, 1962), contro il presun­to malinteso nazionalismo dei critici ermetici, accusati di aver gonfiato Campana « con l’aria trionfante di chi dice: Anche l’Italia ha il suo poeta maudit, il suo mentecatto di genio », mentre nel caso di Campana e della sua « parva opera » si assisteva sempli­cemente — sempre secondo Papini — a « uno dei tanti fenomeni d’inflazione letteraria provocata da certi speculatori che giocano sul mistero laico e puntano sulla carta dei mor­ti ». (Cfr. Falqui: La letteratura del Ventennio nero, 178-179: Edizioni della Bussola, Roma, 1948). Tale il parere espresso allora dal capo degl’incappucciati dell’Ultima. E restava co­munque da provare che i Ruggeroni da Palermo, i Mei Abbracciavacca e i Folcacchieri dei Folcacchieri dell’antichità tirati in ballo dal Russo vales­sero più del Dino Campana del­la modernità. Restava altresì da provare che, scrupolosi ver­so gli uni, non avremmo dovu­to esserlo anche verso l’altro. Solo perché nostro contempo­raneo? Scrupolosi, sì, ma non sino al fanatismo, come ci è a volte toccato di temere.

Tuttavia i venticinque anni trascorsi da allora hanno molto giovato alla nostra critica universitaria: e ormai Campa­na ha il suo onorevole posto in qua­si tutte le storie letterarie. E glielo troviamo riconfermato anche nella dispensa LXVII della storia popolare della Let­teratura italiana, in corso pres­so i Fratelli Fabbri. Ma come escludere che lì e altrove lo avrebbe forse anche maggiore se i Canti orfici ci fossero pervenuti nella primitiva lezione originaria? Resta, in ogni modo, sorprendente che, pur attra­verso un cammino disgraziatissimo, l’opera sia riuscita a salvarsi, con un peso di dolo­re e con una carica di luce non uguagliabili.